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Con gli operai della Zastava e della Jugoslavia,
fino in fondo!

Un’iniziativa a sostegno dell’aggressione italo-americana ai popoli jugoslavi (albanesi del Kosovo inclusi): così abbiamo considerato la raccolta dei fondi avviata da Cgil-Cisl-Uil per la "missione Arcobaleno". E come tale è stata da noi contrastata. Abbiamo invece aderito, perché mossa da tutt’altre intenzioni e suscettibile di svilupparsi in tutt’altra direzione, all’iniziativa promossa dal Cobas Alfa Romeo: la raccolta di 1 miliardo di lire a favore dei lavoratori della Zastava e delle altre fabbriche della Serbia distrutte dalla NATO.

Vi abbiamo aderito non certo perché pensiamo che una cifra così esigua possa rappresentare il supporto materiale di cui abbisogna la resistenza dei lavoratori della Serbia. Vi abbiamo aderito perché l’iniziativa dava (e ha dato) la possibilità di rendere visibile agli occhi dei lavoratori italiani il bersaglio fondamentale delle democrazie occidentali: la (multi-etnica) classe operaia della Serbia. Dava (e ha dato) la possibilità di mostrare come le ferite inferte a quest’ultima brucino anche le carni del proletariato occidentale. Dava (e ha dato) la possibilità di incoraggiare un lavoro per ricostruire una comune organizzazione di lotta, al di qua e al di là dell’Adriatico, contro l’imperialismo e le sue guerre "neo-coloniali".

Con questo intento abbiamo aderito e portato avanti la sottoscrizione. Nelle fabbriche e negli uffici in cui lavorano i nostri compagni, nei mercati e davanti alle fabbriche in cui, periodicamente, diffondiamo in modo militante la nostra stampa, nelle iniziative contro la guerra a cui abbiamo partecipato, da Bari a Trieste, le nostre modeste ma organizzate forze hanno cercato di fare il loro meglio per la riuscita dell’iniziativa. La quale, con la "pace" appena siglata, ha tutte le ragioni di andare avanti. Ma non, lo ripetiamo, quale semplice raccolta di soldi (e di medicinali). I proletari della Serbia e la lotta contro l’aggressione imperialista ai Balcani non hanno bisogno di un’elemosina. La solidarietà materiale è necessaria come parte integrante di un lavoro politico per ricostruire un ponte di classe tra i lavoratori delle due sponde. Un lavoro che richiede anche una sua stabile struttura organizzativa.

È per questo che abbiamo salutato con favore la proposta dello Slai Cobas di associare la sottoscrizione alla costituzione di un comitato di solidarietà col popolo jugoslavo. Ce n’è bisogno. Tanto più se si tiene conto che durante i bombardamenti, settimana dopo settimana, singoli lavoratori o piccoli nuclei di proletari hanno cominciato a sentire un’istintiva ripulsa del macello compiuto dalla NATO e a demarcarsi dalla posizione di passività in cui erano rimasti fino ad allora (con la diretta complicità dei sindacati ufficiali). Si tratta di piccolissimi numeri, comprendenti non solo lavoratori dell’area auto-organizzata, ma allo stesso modo anche lavoratori aderenti a Cgil-Cisl-Uil o senza nessuna tessera in tasca. Lo abbiamo visto nella giornata del 25 aprile, nello sciopero del 13.5, nei momenti in cui abbiamo effettuato la raccolta.

C’era e c’è bisogno di organizzare in un comune riferimento queste energie, di indirizzarne il lavoro verso la massa dei lavoratori d’Italia, di farlo dietro una piattaforma di vera battaglia contro la guerra (oggi la pace) occidentale nei Balcani, di separarle dalle insegne di un pacifismo filo-governativo, nazionalista e, al fondo, guerrafondaio (quello che, tanto per dire, si è visto in una buona fetta del corteo di Aviano del 6.6).

Per fare questo, però, il costituendo comitato proposto dallo Slai Cobas non può limitarsi a essere un organismo tecnico, di coordinamento della raccolta dei fondi. Non può scansare alcuni nodi politici, tra cui, vitale, il seguente: che senso ha portare una certa somma ai lavoratori di Kragujevac, se poi si evitano o, peggio, si scansano i lavoratori jugoslavi emigrati nel nord dell’Italia?

Ai lavoratori e ai compagni che fanno riferimento allo Slai Cobas e agli altri sindacati extra-confederali vogliamo dire una cosa molto semplice: anche voi, come noi, volete spezzare il tentativo di certo pacifismo di affratellare colla politica di D’Alema-Dini i lavoratori e i giovani che si sono mobilitati contro le bombe; e anche voi, come noi, sentite che questo richiede di impulsare un contro-affrellamento: quello verso i proletari e i popoli aggrediti della Serbia! Ma non si può fare una cosa del genere, se ci si "scorda" che un drappello di questi ultimi è qui tra noi, soprattutto nelle fabbriche del bresciano e del Nord-Est. E che ha anche manifestato a più riprese contro la guerra.

Perché non rivolgersi anche a loro? Perché non invitarli ad organizzarsi insieme per una battaglia che è comune? Perché non combattere la canea che si è abbattuta contro di loro, anche da parte di settori non insignificanti del movimento per la pace e del sindacato (anche auto-organizzato)? Che senso ha dire che ciò non può essere fatto perché essi innalzano la loro bandiera nazionale? Non ci rendiamo conto che la sostengono semplicemente perché, oggi, è l’unico modo con cui possono esprimere la loro resistenza all’aggressione imperialista? Che si attaccano alle loro radici "etniche" perché il movimento operaio occidentale ha risollevato dal fango, anziché affogarla in esso con in pugno la falce-e-martello, la bandiera delle proprie nazioni oppressive e imperialiste? Non ci rendiamo conto che il loro è il nazionalismo degli oppressi? E che solo la difesa incondizionata della loro resistenza può dare impulso alla rinascita, sulle due sponde dell’Adriatico, dell’unico antimperialismo coerente, che è quello anti-capitalistico rappresentato dalla bandiera rossa?

Un comitato di solidarietà che voglia essere tale, e non solo a parole, deve assolutamente svolgere questo compito verso i lavoratori immigrati dai Balcani. E non ci si venga a dire che in questa maniera si impedirebbe lo scioglimento delle questioni nazionali rimaste irrisolte nei Balcani. La riconquista della dignità storica per la stessa minoranza albanese del Kosovo passa non per una "auto-determinazione" formale che sarebbe solo (Slovenia, Croazia e Bosnia docent) auto-sottomissione reale ai predoni occidentali. Passa per la ritessitura di una lotta comune dei popoli jugoslavi contro i "nuovi colonizzatori" e i loro comprimari locali. Passa per un’insorgenza jugoslavista guidata e cementata dal proletariato balcanico in unità d’azione con quello occidentale. E cosa c’è di meglio per favorire questa ricostruzione dell’unità di classe, là nei Balcani e a livello internazionale, di un lavoro d’organizzazione e di lotta antimperialista portato avanti qui in comune tra lavoratori italiani e lavoratori immigrati delle diverse nazionalità balcaniche?

Un vero comitato di solidarietà ha quindi bisogno di proiettarsi programmaticamente verso il proletariato balcanico e di agire in coerenza con questa intenzione. Così come ha anche bisogno di aprirsi e raccogliere il contributo di quei lavoratori italiani che, pur non facendo riferimento ai sindacati auto-organizzati, sono animati da un sincero odio verso gli assassini della NATO e vedono nel lavoratore serbo, albanese, ecc. (sia quello non emigrato che quello giunto in Italia) un fratello con cui si condivide un destino, al fondo, comune.

A questo punto si dirà: "Ecco che l’OCI vuole, come al solito, porre delle discriminanti politiche." No, l’OCI sta ai fatti. E i fatti dicono che è la NATO ad avere stabilito una discriminante: quella secondo cui il nostro nemico è rappresentato dagli abitanti della Serbia, quelli di là e quelli immigrati qui in Europa. È la NATO ad aver drizzato questo muro. Per lottare contro la NATO e la sua politica (di guerra e di pace) nei Balcani, occorre scagliarsi contro di esso, combatterlo fino in fondo. Distruggerlo. Costi quel che costi.

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