Una specie di scossa elettrica.
È l'effetto provocato dai bombardamenti sulla Serbia-Montenegro nell'indolente mondo
delle scuole medie superiori italiane. Improvvisamente, la guerra ha cessato di essere una
semplice immagine televisiva o un "qualcosa" che riguarda gli "altri":
gli altri continenti, le altre generazioni. Improvvisamente, tra gli studenti si sono
insinuati i bacilli della preoccupazione e della paura. Paura che il
cataclisma possa arrivare a investire l'Italia e l'Europa. Paura di dover calzare
l'elmetto per davvero. Paura di veder partire ( ...e non tornare) il fidanzato, i
fratelli, gli amici. Paura di ritrovarsi negli scenarii infernali descritti nei film o nei
romanzi di fantascienza: la terza guerra mondiale, l'apocalisse nucleare.
Già nella mattinata di giovedì, in non poche scuole le lezioni si sono trasformate in
assemblee. Partecipate, attente, emozionate, come non accadeva da tantissimi anni. A
tratti cupe. Animate, soprattutto quelle dei più giovani, dall'oscura sensazione di
essere, "piccoli e fragili", davanti a qualcosa di grosso. Apparsi
(superficialmente) "svuotati" fino al giorno prima, molti ragazzi hanno drizzato
le antenne, e si son chiesti: "Ma che diavolo di futuro ci sta cucinando questa
società?". Chi ha continuato a ciondolare, lo ha cominciato a fare nervosamente.
Un nucleo ristretto di studenti, poi, non si è fermato a questo. Ha cercato di
reagire. E ha partecipato alle manifestazioni che si sono tenute nelle maggiori città
italiane sin da sabato 27 marzo. Non lo ha fatto così, tanto per marinare la scuola.
Soprattutto i più giovani, hanno manifestato con serietà, con la ferma volontà di
"comunicare" al mondo la propria apprensione. E di cercare una bussola per
orientarsi in questa difficile situazione: non a caso, scomparso il rito idiota del
"chi non salta...", essi hanno preso e addirittura rincorso i volantini e le
stampe diffuse nei cortei. Alla ricerca non di grandi sistemi ideologici, ma di una
qualche indicazione su un "piccolo" e maledettamente "cazzuto"
problema: come opporsi a questa guerra?
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A questi giovani abbiamo detto e diciamo: "La vostra percezione è giusta, la
guerra si avvicina anche per noi abitanti dell'Europa. Non sarà per domattina, ma
l'aggressione NATO alla Serbia-Montenegro ci spinge inesorabilmente verso una carneficina
generalizzata, che coinvolgerà anche noi. La vostra percezione è inoltre giusta anche in
un altro senso: questa guerra non è la vostra guerra, non è la guerra dei giovani
nati senza la camicia; questa guerra non serve a preparare un mondo più giusto e un
domani migliore, né nella ex-Jugoslavia e né qui in Italia. Eppure a fare questa guerra
sarete proprio...". "...E allora perché -ci siamo sentiti rispondere in più di
un'occasione- perché non ce ne tiriamo fuori? Perché l'Italia non si dichiara neutrale
come ha fatto in passato la Svizzera?". Perché è impossibile, rispondiamo noi, in
quanto viviamo in un mondo globalizzato. L'economia e la vita sociale in Italia
sono intrecciate a quelle di tutto il mondo, come la circolazione sanguigna del piede a
quella dell'intero corpo. Un esempio.
Le aziende italiane non solo non hanno un raggio d'azione limitato all'Italia, ma possono
prosperare solo se hanno a loro disposizione le braccia e le risorse naturali dell'Est e
del Sud del Mondo, un pò come accadeva nelle colonie di una volta. Per arrivare a tanto,
esse non devono solo scontrarsi con la concorrenza delle altre aziende occidentali. Devono
anche (e innanzitutto) piegare la resistenza dei popoli che abitano l'Est e il Sud del
Mondo: quella del popolo iracheno, quella del popolo serbo... Per poter partecipare al
loro saccheggio, quindi, le aziende italiane devono partecipare alla loro sottomissione (e
compiere, insieme e grazie a ciò, nuovi giri di vite contro i proletari italiani). Ecco
perché esse e il governo che le rappresenta non si sono tirati indietro dall'operazione
lanciata dalla NATO contro il popolo serbo e gli altri popoli balcanici (altro che diritti
umani!). Ecco perché non possono tirarsi indietro. Ecco perché devono trascinare
in quest'opera di schiavizzazione l'altra Italia, quella fatta dagli operai e dai loro
figli, quella fatta dalla gente che campa del suo lavoro e dai suoi figli. Questa seconda
Italia ha interesse a non partecipare a questo assassinio? Certamente, e per tirarsene
fuori non ha che un mezzo: lottare contro la "volontà dell'Italia bellicista";
tirar fuori l'Italia e il mondo intero dal meccanismo della concorrenza capitalistica che
alimenta questa volontà. Insomma: attrezzarsi a combattere un'altra guerra, la
guerra della classe degli sfruttati contro la classe degli sfruttatori, dei potenti e dei
parassiti. Una guerra che ha per arena il mondo intero.
D'altra parte, che quest'idea del "tirarsi fuori" non paghi, lo si può vedere
anche dando un'occhiata a quello che è successo alla massa dei giovani negli ultimi dieci
anni. Ricordate il meraviglioso '89? Caduto il muro di Berlino, il capitalismo diceva che
finalmente poteva dare il meglio di sé. E lo ha dato: ai grandi banchieri, ai possessori
di denaro, ai dirigenti statali, ai nababbi installati nei piani alti del potere. Ma solo
a loro. E all'unico prezzo possibile. Quello di aver scaraventato nel terrore e nella
miseria i tre quarti dell'umanità. Di aver fatto scivolare nella precarietà e nella
disumanità di una vita macchinale la gran parte dei giovani dei paesi avanzati.
Sui visi di costoro, al sorriso speranzoso e spensierato degli anni Ottanta, sono
subentrati la delusione e la mortificazione. E come forma di reazione e di difesa, un progressivo
distacco da ogni aspetto della vita sociale ufficiale. Essi hanno assunto a poco a
poco il motto del "né aderire e né sabotare", accontentandosi di aspettare il
momento "auto-gestito" in cui potersi rifugiare nel "paradiso"
dell'ecstasy o stonare con una qualsiasi altra schifezza, perdere i contatti con questa
realtà e disegnare un proprio (benché virtuale) nirvana. Sembrava un modo per tirare a
campare. "Sì - ci si diceva- laggiù in Somalia e in Iraq si sta morendo. Sì, i
rumori di guerra s'avvicinano fino alla Bosnia. Sì, qui ci sentiamo degli arenati, la
nostra vita corre come un surf che rischia di essere sommerso da un momento all'altro
dall'onda che lo trasporta, però ancora possiamo cavarcela, ancora non siamo scaraventati
nei gorghi, ancora possiamo far finta di niente, ancora possiamo mettere da parte
l'inquietudine che monta dentro di noi. Speriamo che..."
Bene, la nuova guerra nella ex-Jugoslavia mostra che questa speranza era vana, che
non c'è zona del mondo che possa rimanere fuori dalle tempeste in atto nel sistema
capitalistico internazionale. Il tamburo della guerra annuncia che sta per andare all'aria
anche l'instabile surf su cui viaggia la grande maggioranza dei giovani italiani e
occidentali. Non pochi quindicenni hanno colto a volo questa "novità",
preparativi da una quotidianetà sempre meno rassicurante.
Niente per essa tornerà ad essere come prima.
A loro abbiamo detto e diciamo: "Reagire a questa nuova delusione ancora con la
vecchia logica del "tiriamocene fuori", anche se applicata a un intero paese
rispetto al resto del mondo, non vale un fico secco. Il mondo in cui viviamo non concede
più il "lusso" di "passare". L'unica scelta che offre è: da quale
parte "rischiare"? Dalla parte della bandiera tricolore e della bandiera a
stelle-e-strisce? Dalla parte cioè degli interessi del profitto, del terrore e della
disumanità? Oppure dalla parte opposta, dalla parte dei popoli calpestati da quelle
bandiere e in lotta contro di esse?"
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Alla forza si può opporre solo la forza.
Ma non basterebbe -si sono chiesti in molti- non basterebbe, più semplicemente, far
tornare alla ragione gli Stati Uniti? Non basterebbe mettere intorno a un tavolo i popoli
della Serbia-Montenegro e risolvere le cose con le trattative e le regole del diritto
internazionale?
Capiamo l'attrazione suscitata da questa "via d'uscita". Promette un mondo
migliore, ed in più è indolore (per noi occidentali!). Peccato sia irrealizzabile.
Perché? Perché Clinton non ha stracciato le carte del diritto per un attimo di follia o
per un eccesso di cattiveria. Egli ha preso atto che le relazioni internazionali non
possono più svolgersi entro le maglie delle regole stabilite all'indomani della seconda
guerra mondiale. Che gli interessi degli Stati Uniti non possono più essere tutelati
rispettando queste procedure. Esse erano adatte a un'epoca in cui era possibile trovare
dei "compromessi" (diseguali) tra gli interessi degli Stati Uniti, quelli delle
altre potenze occidentali, e quelli dei popoli dell'Est e del Sud del Mondo. Oggi è
sempre meno così. Il dominio del mondo richiede di calpestare e schiavizzare gli
interessi altrui. E l'unico mezzo che permette di farlo è la forza, la forza unilaterale.
In ciò Clinton non rappresenta l'eccezione, ma la regola: anticipa ciò che la situazione
del capitalismo internazionale detta a tutti i paesi occidentali, quelli europei compresi,
diversi dagli USA solo per il ritardo con cui si stanno attrezzando all'epoca nuova che è
scoccata.
Tutto ciò rischia di mettere fine alla pace che, qui in Occidente, dura da cinquant'anni?
Rischia di far materializzare lo spettro dell'olocausto nucleare? Sì, è così. Ma non si
può pensare di opporsi a questo rischio tornando indietro, invocando il rispetto di
"norme" oramai superate. Non si può che agire sullo stesso terreno su cui si
muovono gli USA e le altre potenze capitalistiche: quello dei rapporti di forza. È questa
la grande lezione che ci viene dal popolo serbo, dai lavoratori e dai giovani serbi:
mobilitandosi in massa, anche in armi, contro l'aggressione occidentale, essi hanno
mostrato di aver compreso che alla forza si può opporre solo la forza. Siamo così
ricondotti di nuovo al nodo di cui sopra: per lottare contro la guerra nella ex-Jugoslavia
occorre preparare un'altra guerra, la guerra di classe contro la catena del capitalismo
internazionale retta dagli USA. A partire naturalmente dall'anello che ci stringe da
vicino: quello del governo italiano, dei capitalisti italiani, delle basi militari NATO e
non NATO dislocate sul territorio italiano, delle azioni di guerra lanciate da qui contro
i Balcani.
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È tempo di muoversi: contro la guerra!
Fare questo significa cambiare il corso della storia? Sì. Non ne abbiamo la forza?
Oggi come oggi, no. Ma non perché non possono essere sconfitti i potenti mezzi
tecnologici in mano ai nostri governanti. Non perché l'arsenale di cui si sono circondati
è inespugnabile. Bensì solo perché chi ha interesse a scendere in campo contro questa
guerra, è fermo, sfiduciato, disorientato, o addirittura conquistato, contro se stesso,
alle ragioni del partito della guerra. Ma se questa massa di uomini fosse organizzata
consapevolmente dietro la difesa della propria bandiera, non ci sarebbero santi: i maghi
del potere di Roma e Washington vedrebbero i sorci verdi, perché essi hanno bisogno dei
lavoratori e dei giovani per alimentare la loro macchina bellica e per portare avanti le
loro operazioni militari. E se questi lavoratori e questi giovani si ribellassero? E se si
organizzassero in modo da usare i mezzi che hanno in mano per far la guerra a chi li vuol
gettare contro altri popoli, altri lavoratori e altri giovani?
Sì, oggi non abbiamo la forza di cambiare il corso della storia. Ma solo perché
questa forza non è organizzata e in campo dietro le sue bandiere. A noi il compito di
contribuire a rendere possibile una cosa del genere. Ecco la tremenda responsabilità
storica a cui ci chiamano le bombe della NATO. Impossibile da portare ad effetto?
Eppure, quante volte in passato la massa dei proletari e degli oppressi ha avuto la
capacità di alzarsi in piedi e di fare la storia? La paura e il disorientamento che in
questi giorni hanno turbato i cuori di un settore di giovani, non sono il primo segno che
qualcosa si è rimesso in movimento?
Usciamo allora dal mondo virtuale nel quale ci sembra di vivere! Torniamo a partecipare da
protagonisti alla vita sociale e politica! Diciamo la nostra sul futuro che la borghesia
ci sta cucinando! A partire dalla costruzione di una vera opposizione contro la guerra di
aggressione alla Serbia-Montenegro. Su quali basi ciò vada fatto, lo scriviamo in altre
parti del giornale. Con quali mezzi, ce lo dice la situazione stessa: con la costruzione
e l'attivizzazione di comitati contro la guerra in ogni scuola. Con la
capillare denuncia dei veri interesssi in gioco tra la massa dei giovani ancora stordita,
indifferente o favorevole alla guerra. Con il collegamento agli analoghi organismi che
c'è bisogno che sorgano nelle fabbriche, negli uffici, nei quartieri. Con il tentativo di
stabilire un legame di lotta con i giovani della Serbia-Montenegro (e di tutta la
ex-Jugoslavia) e con quelli degli Stati Uniti (anch'essi impegnati, in una loro minoranza
più cosciente, nel tentativo di costruire un movimento di opposizione alla guerra del
bandito Clinton).
Gli anni novanta hanno mostrato che l'indolenza non paga. Ci ha fatti arrivare
disorientati davanti allo spettro delle cartoline militari. Continuare a ciondolare oppure
rimanere paralizzati in preda alla paura, può servire solo a farci ritrovare più
facilmente intruppati sulle rampe di lancio, per una " missione" che non sarà
la nostra. È tempo di muoversi. Dalla parte giusta.
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