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LA QUESTIONE DEL KOSOVO

Torniamo a riassumere sinteticamente quanto da anni andiamo dicendo sulla questione del Kosovo in riferimento al quadro storico-politico complessivo, dell'area ed internazionale. Lo facciamo per punti schematici, ognuno dei quali si lega agli altri e non può essere saltato.

1) Il proletariato balcanico, restituendo ai popoli dell'area quella storia che le altre classi sociali non erano riuscite in precedenza a dare, aveva tentato nel primo dopoguerra di saldare il risveglio nazionale balcanico a quello sociale, rivoluzionario, la cui bandiera fiammeggiante era stata innalzata a Mosca con l'Ottobre rosso e l'Internazionale Comunista. L'assalto rivoluzionario avrebbe realizzato qui una federazione di popoli liberi dal capitalismo imperialista vitalmente legata al moto generale di emancipazione proletaria internazionale da cui avrebbe tratto linfa per riscattarsi dal precedente abbrutimento economico-sociale e politico. L'occasione, nonostante l'eroismo del partito comunista serbo, fieramente internazionalista ed antisciovinista, fu mancata, non -principalmente- per l'inerzia balcanica, ma per le sconfitte subite dal proletariato occidentale cui il riformismo social-patritottico, social-imperialista, aveva preventivamente legato le mani.

2) Il rifluire del proletariato internazionale nello stalinismo, nella teoria e nella pratica, dei "socialismi in un solo paese" (equivalente alla rinunzia al socialismo ed alla sua prostituzione alla causa della costruzione di moderni capitalismi statal-nazionali "senza borghesia" affidati agli sforzi "patriottici" di un proletariato sostitutivo della borghesia nazionale dimissionaria) vanificò anche, e necessariamente, la prospettiva iniziale dei comunisti balcanici ridividendo la regione, e gli stessi "comunisti", secondo una logica di confini e di "popoli", assolutamente insostenibile in un'area, come questa, in cui mille popoli s'intrecciano con problemi assolutamente comuni.

3) Nonostante quest'opera di frammentazione e distorsione praticata dallo stalinismo, il nerbo vitale del proletariato balcanico, scontrandosi con la logica della seconda guerra mondiale che li voleva tutti a pezzi staccati e tutti schiavi, doveva realizzare, nel corso del conflitto, delle forme di resistenza unitaria riscattando in qualche modo l'originario programma federativo (spogliato però, e qui sta il punto, del suo orizzonte socialista ed internazionalista autentico). Jugoslavi di ogni "nazione", albanesi, greci, bulgari e quant'altri dell'area combatterono insieme ed insieme sembrarono intravvedere nella propria unità federata una via d'uscita post-bellica alle impasse che li avevano precedentemente consegnati inermi alle truppe di occupazione ed ai regimi di protettorato diretto o quisling con tutte le relative conseguenze sul piano sociale e politico. La "lotta di liberazione" balcanica, a cominciare da quella su tutte preminente di Tito, era riuscita provvisoriamente ad affratellare entro questo quadro ("eroico", ma vano alla distanza) i vari popoli dell'area separando sul terreno partigiani e collaborazionisti. Il Kosovo non fece eccezione: mentre masse albanesi arretrate si erano prestate al gioco collaborazionista nazista (ed italiano), un'avanguardia di esse entrava in gioco nel nome dell'antifascismo, della cacciata (e della messa al muro) dei traditori della causa "nazionale", di una libera federazione di popoli balcanici in grado di traghettare l'area dal sottosviluppo dominato/controllato a moderni rapporti di produzione.

4) La rottura Tito-Kominform vanificò quel che restava di vitale in queste premesse che, precisiamolo subito, non potevano costituire in alcun modo un modello praticabile di sviluppo "in un'area sola", ma potevano trovare sbocco solo nel salto verso una prospettiva socialista ed internazionalista. Nelle mani dello stalinista nazional-indipendente Tito la questione albanese "interna", che sarebbe potuta diventare il segnale di una riscossa socialista dell'area ed internazionale, si ridusse ad un irrisolvibile enigma. Gli albanesi del Kosovo, ridotti a questione "interna" della Jugoslavia, non potevano rappresentare altro che un problema privo di soluzioni stabili: era chiaro che, ove si parlasse di "patrie", per essi anche la miglior Jugoslavia non sarebbe mai potuta diventare la "propria patria".

5) Il regime "socialista" di Tito cercò di risolvere questo problema debordante i confini nazionali jugoslavi con una politica solo ed esclusivamente "jugoslava". Il Kosovo fu, in effetti, spronato ed aiutato con tutti i mezzi possibili per pervenire ad uno sviluppo interno modernizzatore consono e compatibile al generale sviluppo jugoslavo. Un'infinità di diritti nazionali e sociali furono attribuiti al Kosovo non solo di nome, ma di fatto. Ad esso fu concessa un'autonomia larghissima che si giovava, poi, del generale aiuto allo sviluppo federativo. Ma, e qui sta il punto!, proprio questa autonomia chiusa in un recinto nazionale, cui era inibita _per ragioni di "opportunità" nazionali- l'osmosi con l'elemento serbo e quello degli altri popoli jugoslavi, conteneva in sé i germi dei futuri conflitti. Gli albanesi padroni di sé stessi in casa propria nel Kosovo "in quanto albanesi" non potevano che marcare progressivamente la propria distanza da un regime che li cantonizzava di fatto chiudendo ad essi la porta dell'unità col restante della popolazione albanese dell'area. Non un difetto di autonomia locale, ma, "paradossalmente", proprio un eccesso di tale autonomia separata e chiusa entro i confini statali jugoslavi, portava al conflitto.

6) L'istituzionalizzazione definitiva della Jugoslavia quale insieme di stati semi-sovrani tenuti assieme da un debole filo federativo formale, così come sancita nella Costituzione del '74, ha ulteriormente aperto le porte alla separazione ed alla concorrenza interna tra le singole entità economico-sociali a sempre più marcata caratterizzazione nazionalista. Nata come tentativo disperato di tener assieme i singoli pezzi costitutivi del paese sotto la vecchia insegna partigiana di bratsvo i edinstvo (fratellanza ed unità), la Costituzione del '74 ha, al contrario, sancito il fallimento di quel generoso programma primitivo, inattuabile sotto la forma di tanti "socialismi di mercato" sottonazionali. Molto più prosaicamente, essa significava concorrenza e divisione lungo le linee dettate dalle leggi, giorno dopo giorno più invasive, del sistema capitalista internazionale. La crisi economica degli anni ottanta, in assenza di un punto di riferimento di classe, ha fatto precipitare i fragili equilibri ancora esistenti e, dopo la morte di Tito (ma non, come stupidamente affermano taluni, a causa di essa), essi sono infine saltati. Sotto la spinta delle sirene occidentali riattivizzatesi prepotentemente nell'area (soprattutto all'indomani del crollo dei muri di cartone sovietici) le singole repubblichette-banana se ne sono andate ognuna per la propria strada: dapprima, del tutto pacificamente, la Slovenia, poi, con qualche sussulto bellico, la Croazia e infine, in un bagno di sangue, la Bosnia-Erzegovina con la sola Macedonia riuscita a defilarsi senza altri traumi che… una diretta presenza militare occidentale a garantirsene il controllo diretto.

7) La sola componente serbo-montenegrina non si era lasciata prendere del tutto al laccio delle lusinghe e dei diktat occidentali, ma, ahinoi!, sulle basi di un puro e semplice ricompattamento nazionale serbo, senza più alcuna velleità, neppure da un semplice punto di vista borghese, di difesa della Jugoslavia unitaria nata dalla "lotta di liberazione nazionale". Questa dismissione dallo jugoslavismo non solo consegnava all'Occidente gran parte del paese, ma, come si è visto, si è mostrata impotente a risolvere i restanti problemi: primo, quello della promessa unificazione statale serba (con la parte serbo-bosniaca lasciata in mano al macellaio di Sarajevo ed ai suoi padroni d'Occidente e quella delle krajne croate direttamente consegnata al macellaio di Zagabria); secondo, quello della persistenza sul territorio "serbo" residuo di vaste minoranze nazionali _quella ungherese della Vojvodina e quella albanese del Kosovo- che non si vede perché debbano scindersi dalla vera Jugoslavia del passato per restare amorosamente legate ad una "nuova Jugoslavia" programmaticamente "serbista".

8) L'Occidente ha fatto sin dall'inizio di tutto per far esplodere quest'ultima contraddizione a proprio vantaggio. Fallito l'esperimento del serbo-californiano Panic, catapultato a Belgrado dagli USA per sostituirvi il riottoso Milosevic, non restava che usare come arma di pressione ed intromissione l'irredentismo delle minoranze nazionali "jugoslave" non serbe. Il fatto che sin qui la Vojvodina non si sia mossa affatto in questo senso e che per lo stesso Kosovo si sia dovuto pazientare parecchio mostra sino a quale punto esistessero le premesse per una risposta multinazione, jugoslavista, socialista alle mene dell'Occidente. Tutti i partiti politici di Belgrado, e non il solo Milosevic, hanno lasciato cadere tale premessa, se si esclude qualche velleitario tentativo iniziale della Lega dei Comunisti (su basi, però, vanamente nostalgico-titoiste e quindi destinate allo smacco). Nell'89, in particolare, Milosevic aveva chiesto ed ottenuto dalle altre componenti nazional-statali, ancora formalmente unite alla Jugoslavia, la revoca dell'autonomia pressoché totale del Kosovo, accampando per questo a motivi anche solidi, vale a dire la crescente opera di discriminazione antiserba operata dai ras di Pristina. Lubiana e Zagabria avevano accettato di buon grado tale revoca dopo aver già negato al governo federale i fondi per lo sviluppo del Kosovo, considerati una "distrazione" dalle "finanze locali". (Sulla rivista della minoranza secessionista italiana sloveno-croata, Panorama, si ammetteva che Belgrado non poteva rassegnarsi a non essere né padrona e neppure in grado di controllare un proprio territorio; ma lo facesse Belgrado senza carichi per le altre "comunità nazionali"!)

9) Presa nel vortice della crisi economica, e poi anche bellica, la dirigenza di Belgrado si trovava così costretta in Kosovo sia ad esercitare un controllo "dall'esterno" dal punto di vista nazionale (benché con tutti i possibili guanti di velluto, come s'è detto sopra parlando delle larghissime autonomie di fatto lasciate all'elemento albanese) sia a stringere i cordoni della borsa, sempre più vuota, per sopperire al sottosviluppo della regione. Quello di sostanziale che si può rimproverare a Milosevic non è tanto la repressione diretta contro i kosovari, le cui "vittime" in effetti si contano sulle dita, ma la separazione istituzionalizzata nei loro confronti, l'appello al serbismo ortodosso quale antemurale nei confronti del "turco mussulmano" kosovaro, la rinunzia ad ogni programma unitario (sia pur mini) "jugoslavista". Il che ha significato sì stringere le masse serbe attorno alla "comune" bandiera populista e pluriclassista (vale a dire borghese) della Serbia per annullare nel "popolo" ogni residuo di coscienza ed organizzazione classiste, ma ha portato a consegnare, complementarmente, le masse "popolari" kosovare ai peggiori "loro", "comuni", rappresentanti nazionalisti e, per questo tramite, a chi di questi ultimi, in Occidente, tira realmente i fili.

10) La domanda che persino taluni pretesi "comunisti" si pongono ("Che cosa avrebbe dovuto fare Belgrado per risolvere equamente la questione del Kosovo?") è, marxisticamente, del tutto destituita di fondamenta. Se si intende che Milosevic o chi per esso avrebbe dovuto dare maggiori autonomie al Kosovo, noi replichiamo: di queste autonomie ce n'erano già in abbondanza, ma se ce ne fossero state dieci volte tanto non si sarebbe fatto alcun passo in avanti verso la "pacificazione". Il problema non consiste nel grado di autonomia nazionale formale, che presuppone separazione nazionale di popoli su basi borghesi di fatto, ma nella unità sostanziale di classe (del proletariato, del contadiname, del piccolo produttore) contro l'insieme delle proprie rappresentanze politiche istituzionali, contro la manomissione dell'Occidente e per il socialismo. ("Piccolo" problema che si presenterà anche da noi, in "Padania"). Questo è ciò che nessun Milosevic, nessun Draskovic, nessuna Lega titoista, purtroppo, poteva neppure immaginarsi di fare. La questione del Kosovo, come s'è visto, aveva trovato una sua provvisoria soluzione nel corso della seconda guerra mondiale su una trama di questo tipo, ancorché sfilacciata e stravolta. La potrà trovare oggi solo misurandosi sino in fondo con gli ulteriori sviluppi dell'imperialismo e facendo sino in fondo i conti con le inconseguenze e gli snaturamenti del titoismo, non rifugiandosi in evanescenti piani costituzionali, tanto più impotenti quanto più "equi". Chi, da "comunista", recrimina sulle intransigenze e le repressioni _per lo più presunte- di Milosevic nei confronti dei kosovari tende a scansare precisamente questo tema di fondo per autonomizzarsi definitivamente dal marxismo.

11) Con lo smembramento della Jugoslavia e la messa in castigo della federazione serbo-montenegrina colpevole di non svendersi all'Occidente le condizioni del Kosovo hanno subito una ovvia precipitazione: con la stessa Belgrado messa economicamente al muro dai briganti imperialisti e con tutti i problemi derivanti dalla massiccia fuga in Serbia di popolazioni cacciate (quelle rimaste vive!) dalla Croazia e dalla Bosnia di cui farsi carico, col collasso delle attività economiche preesistenti a causa dell'embargo assassino imposto dall'Occidente, non si poteva di certo pretendere che proprio e solo al Kosovo dovessero aprirsi ponti d'oro. Su questa situazione di disagio, giovandosi del non coinvolgimento dei kosovari in una causa un tantino solo "jugoslavista", ha fatto perno l'imperialismo per tramutarla in ghiotta occasione di guerra "popolare". Se voi kosovari ve la passate male, si faceva intendere, è perché rimanete uniti ad una Serbia scomunicata dal "consorzio civile". Se ve ne staccherete potrete gustare tutte le delizie dell'Occidente. Non solo non spetta a voi farvi carico di quella parte di sfollati "stranieri" che Belgrado vorrebbe assegnarvi, ma ogni serbo che sta in casa vostra deve essere considerato un vostro nemico che v'impedisce di ricongiungervi all'Occidente che vi aspetta a generose braccia aperte.

12) Questa forma di risentimento nazionalista non ha dato, per lungo tempo, i frutti sperati. L'esempio offerto dalla vicina madre Albania "liberata" costituiva un deterrente sufficiente ad impedire ai kosovari di seguire le sirene dell'Occidente dal momento che il paragone tra condizione degli albanesi del Kosovo e quelli di Tirana giocava tutto a favore dei primi. Perciò occorreva mettere in piedi un esercito in grado di smuovere la "passività" ed il "moderatismo" delle popolazioni kosovare. Un esercito foraggiato, istruito e diretto dagli USA e dalle altre centrali imperialiste (prima delle quali la Germania, elettasi a sede del "vero governo kosovaro in esilio" e centro di raccolta di fondi anche attraverso la tassazione obbligatoria degli immigrati kosovari). La politica di separazione (non "pulizia") etnica di Milosevic ha dato manforte a questo gioco immondo. L'UCK, autentica banda di prezzolati esperti in loschi traffici di ogni genere, ha "regolato i conti" con chi, in Kosovo, non ci stava a prestarsi a questo gioco criminale senza nessuna possibile ricaduta positiva per la massa dei kosovari, e però non riusciva ad intravvedere una possibile via d'uscita alternativa (e questo proprio grazie a Milosevic). Ma neppure l'UCK, data la sua sporca pratica di interessi malavitosi da clan, ha potuto fare molto. A questo punto occorreva l'intervento diretto della NATO, e l'intervento c'è stato, come si è visto. Contro i serbi e contro i kosovari stessi in quanto popolo.

13) I bombardamenti NATO pongono il popolo kosovaro nella triste condizione di dover fuggire dalla propria terra o rimanervi da ospite-ostaggio di un popolo, quello serbo, dal quale sono tenuti separati e da cui sono avvertiti fallacemente come elemento ostile da "controllare", nella migliore delle ipotesi (la peggiore è quella di venir presi espressamente di mira da bande nazionaliste irregolari che profittano delle ragioni plausibili di risentimento serbo contro l'aggressione esterna per scaricarla sul popolo kosovaro in quanto tale). Una via d'uscita rimane, la sola: ed è che il proletariato serbo risollevi la bandiera dell'unità di tutti i popoli della (ex)-Jugoslavia nella lotta contro l'imperialismo in nome di quella fratellanza e unità sbandierata dal titoismo, ma che solo in una prospettiva socialista può trovare la sua realizzazione; è che il proletariato e le masse povere albanesi, di qualsiasi stato, si svincolino, nella stessa prospettiva, da un'illusione di "entrata in Europa" che la stessa esperienza di Tirana ha mostrato fallace (e che, tra l'altro, già ha provocato in Albania dei possenti moti di rivolta popolari contro il "nemico in casa propria" e l'Occidente); è che il proletariato delle metropoli sorregga questi sforzi schierandosi apertamente contro l'azione dei propri stati.

14) E proprio qui nelle metropoli, dove convergono masse di immigrati dell'una e dell'altra parte jugoslava premuti dalla sferza della necessità economica e dalla guerra, sarà possibile, per quel che ci riguarda, intessere momenti di dialogo e di unità di classe tra le parti unendole comunitariamente alla nostra stessa battaglia anticapitalista. Qualche esempio del genere l'abbiamo già sperimentato; si tratta di andare molto più speditamente avanti. Al tempo stesso, nel territorio della (ex)-Jugoslavia qualcosa si muove per ristabilire quei legami la cui perdita sempre più si avverte come frutto avvelenato dell'Occidente e grave jattura per tutte le popolazioni. Ognuno di questi momenti avvicina l'ora del riscatto. Noi comunisti siamo ovviamente, e doverosamente, per il sostegno incondizionato al popolo serbo contro l'aggressione NATO ed alla necessità di questo sostegno richiamiamo tutti, kosovari in prima fila. Ma, al tempo stesso, diciamo ai fratelli serbi che il più sicuro sostegno alla "loro" causa può venire solo dalla sconfessione della politica di Milosevic e che ad essi spetta prioritariamente, in certo qual modo, fare il primo passo verso i connazionali kosovari, anche i più arretrati. Un serbo da solo può fare qualcosa per rispondere all'immediato all'imperialismo, ma neppure tutti i serbi assieme potranno da soli risolvere il problema di fondo. Un serbo, un kosovaro, un italiano che si trovino assieme, uniti da un unico programma e da un'unica organizzazione comunisti costituiscono, in embrione, un esercito invincibile. E questo esercito noi lavoriamo a preparare!


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