Anche nelle prese di posizione e nelle manifestazioni antibelliche "più
degne" sfugge un elemento essenziale. Ci si mobilita contro la guerra antiserba (e si
invocano tutte le possibili scappatoie ad essa, una peggiore delle altre: ONU, Papa,
posizione autonoma dell'Europa e dell'Italia, tregue pasquali in attesa delle tregue
natalizie
), ma si finisce per considerare questa guerra una cosa che riguarda
direttamente solo loro, gli altri, fatta salva la preoccupazione -prontamente
smentita dalla NATO e da D'Alema- che qualcosa di brutto possa capitare, di riflesso,
anche a noi (noi Italia, noi "popolo italiano"). La prospettiva più
fosca evocata, ma come spettro incombente sul futuro, è che questa guerra possa
allargarsi, trasbordare dai suoi confini serbi e, quindi, finisca per coinvolgerci.
Noi diciamo chiaramente: questa guerra ci ha già coinvolti senza alcun bisogno di
ricadute militari dirette. Ci ha già coinvolti in quanto proletariato, e questo
vale non da oggi, ma perlomeno sin dai tempi dei primi attacchi all'Iraq.
In che senso? Nel senso che la colossale macchina di controllo, dominio, oppressione e
massacro del mondo "terzo" deriva dalle impietose necessità del capitalismo
imperialista di far fronte alla propria crisi strutturale scaricandola sulle masse
oppresse dei paesi dominati/controllati, ma, insieme, tentando di scaricarla sulle masse
proletarie delle metropoli. Rispetto al vecchio imperialismo succede qualcosa di più: non
è più oggi possibile saccheggiare una parte del mondo ed offrire in cambio, ad un
proletariato metropolitano succube dell'imperialismo, delle briciole. Al saccheggio degli
"altri" non può più corrispondere una sistematica elargizione di briciole qui
da noi. La globalizzazione ha stretto a tal punto il mondo in un'unica morsa che occorre
oggi aggredire direttamente le postazioni del proletariato di qui. Sono definitivamente
tramontati gli orizzonti del welfare state generalizzato, il lavoro si precarizza e
si flessibilizza a dismisura, i diritti sindacali e politici dei lavoratori vanno
progressivamente restringendosi; la manodopera esterna diventa direttamente
"concorrente" con quella interna, sia sotto l'aspetto della
"delocalizzazione" delle industrie locali in paesi più appetibili sia sotto
quello dell'immigrazione (ricattata) nelle metropoli a deprimere i preesistenti standard
di qui.
Si pensi solo al massiccio afflusso di immigrati che questa guerra ci porterà
inevitabilmente in casa (senza tener conto del ben più massiccio esercito di
neo-schiavizzati là per pompare sovrapprofitti a pro delle nostre industrie). Non è che
nel segnalare questo problema, evitato da tutti gli altri, la Lega si sbagli. Si
"sbaglia" quanto ad analisi e prospettive. Sino all'altro ieri ci si poteva
illudere col dire "aiutiamo i derelitti in casa loro". Oggi questi derelitti
sono inesorabilmente sospinti in casa "nostra", o comunque ci condizionano
stando in una casa che, di fatto, non è più la loro. Non esistono porte chiuse per le
"immateriali" corporations che da ultimo Bossi ha riscoperto. Non
esistono più "patrie" cui l'"immateriale" capitale
"nazionale" possa ritenersi vincolato. Esiste uno schiacciamento del
proletariato che si gioca sugli scenari internazionali e solo su di essi può essere
affrontato. Si deve capire che la sorte dei serbi e dei kosovari ci riguarda direttamente,
tasche e testa, e che un tale fatto deve essere colto in quanto elemento di unificazione
antagonista di classe. Il lavoro e la società "padane", italiane, ma anche
statunitensi (per dire!) si sono definitivamente svelte dal loro ristretto ambito
nazionale chiuso. Bossi ha avuto il merito di capire che "la cosa ci riguarda
direttamente"; ma ciò significa una pietra tombale sopra un preteso sistema padano
"autonomo", significa dover riconoscere che la famosa borghesia padana va da
un'altra parte rispetto agli interessi del "suo popolo", che ognor più è
intrecciata agli interessi del grande capitale globalizzato e che la vantata solidarietà
col popolo serbo (e kosovaro, aggiungiamo noi) significa, per forza di cose, solidarietà
internazionalista di classe contro il capitalismo mondiale o non significa niente.
Anche senza che siamo direttamente coinvolti in un conflitto diretto, nostri fantaccini
contro l'indomito popolo serbo (e le migliaia di volontari che si troveranno al suo
fianco, a cominciare dai russi, contro un'aggressione anche contro di essi rivolta), le
conseguenze di questo conflitto pesano, già dal '91, e sempre più peseranno in casa
nostra. E dalla guerra "immateriale" a quella materiale il passo sarà breve.
Una prima risposta già c'è.
Se ci limitassimo al quadro attuale in Occidente dovremmo amaramente concludere che una
risposta congrua alla guerra imperialista non c'è. In molti dei paesi europei, a
cominciare dalla Germania, si tace, quando non si approva (tanto non costa nulla
).
In Italia siamo appena a dei flebili vagiti di "protesta" per lo più
all'insegna di un inverecondo "pacifismo" di facciata, come quello dei
"beati costruttori di pace" cari ad Ingrao che vanno ad offrire ai militari USA
di Aviano dei ramoscelli di olivo. I nostri sindacati si preoccupano di evitare gli
scioperi in quest'ora "solenne", come diceva Benito, e proporre agli operai di
versare un'ora di salario per gli esodanti dopo che ad essi un mucchio di ore è già
stato strappato in silenzio per finanziare la guerra e provocare l'esodo. Tutto perso,
dunque? No, non è così.
Non lo è se si guarda alla rete sempre più larga e tenace del movimento contro la guerra
che si va tessendo nel cuore dell'imperialismo, gli USA, e sulle cui manifestazioni il
Pentagono ha posto il divieto di dar notizia. Tanto meno lo è in quanto, lì, le
condizioni degli sfruttati, etnicamente connotati tra l'altro, sempre più richiama
all'antagonismo di classe. Ma non lo è neppure qui, in Italia, dove nelle manifestazioni
vediamo facce fresche, una nuova generazione non programmaticamente infetta del
bolso riformismo del passato e che deve fare i conti coi propri destini sulle trincee
impietosamente disegnate dai presenti conflitti sapendo che non potrà starne fuori. E
sono facce fresche, quale che sia la loro età, anche quelle dei proletari che magari
accorrono al richiamo di Bossi con spirito militante cui manca "solo" la giusta
direzione.
Ma non lo è soprattutto se si guarda ai Balcani. Quando noi dicevamo che ciò che di
vitale stava nello spirito jugoslavista non era morto, non raccontavamo una favola.
Smaltita la sbornia nazionalista e vomitato l'assenzio della fiducia nelle magnifiche
sorti e progressive dell'Occidente, i proletari jugoslavi tendono a ricongiungersi.
Non sono solo i serbi a far quadrato tra loro, e in ogni caso, anche quando questo
avviene, la coscienza di dover far fronte ad un nemico mondiale, al nemico imperialista,
li costringe a porsi non più solo in quanto serbi, ma in quanto avanguardia di un fronte
mondiale di lotta scavalcando i confini illusori del milosevicismo a misura che i confini
dello scontro si vanno ridefinendo a questa scala mondiale. Il senso di esser tutti su una
stessa barca e di dover tutti lottare assieme coinvolge la Macedonia, il Montenegro
ipotecato ma non svenduto, la Bosnia, la stessa Croazia dove ci sono state manifestazioni
anti-NATO indissolubilmente legate alla protesta sociale anti-Tudjman, lambisce persino la
"tranquilla" Slovenia, non lascia fuori da sé gli stessi albanesi degni di
esser chiamati uomini (a differenza dei champagneggiatori presenti alle nostre TV),
trasborda in Grecia, allarma ungheresi, cechi e quei rumeni che stanno provando sulla
propria pelle cosa significhi e da dove parte la repressione antioperaia in atto.
Queste prime risposte da Est, che arrivano fino alla Russia, possono apparire poca e
debole cosa se rapportate alla estrema violenza dell'aggressione imperialista. Ma nel
valutarle non si deve prescindere dal fatto che appena dieci anni fa, a seguito del crollo
delle decrepite istituzioni staliniste e del relativo "modello" di sviluppo di
capitalismo "guidato", in tutti i paesi dell'ex-"socialismo reale"
prese piede a livello di massa, anche nel proletariato, una forte aspettativa
positiva verso l'apertura al mercato, verso la democrazia, verso il "modello
occidentale". E con questa aspettativa si diffuse la quasi-certezza che l'Occidente
avrebbe dato una mano a questa evoluzione "in avanti" della situazione dell'Est,
consentendogli di buon grado, magari con qualche dono d'incoraggiamento, di attingere i
livelli di sviluppo e di vita euro-statunitensi. Non ci si poteva attendere, quindi,
immediatamente, lo stesso tipo di sollevazione di massa che scattò ai tempi
dell'aggressione all'Iraq in un mondo, quello arabo-islamico, che era già da tempo in
rotta di collisione con l'imperialismo. E tuttavia il fatto di straordinaria importanza è
che il brutale attacco NATO ha seppellito una volta e per tutte, alla scala balcanica e
slava, l'infondatissima speranza di un aiuto disinteressato da Occidente, già messa
in dubbio dalle capacità usuraie e poliziesche esibite dall'Occidente in tante occasioni.
Il sommovimento che in queste settimane si sta producendo dai Balcani alla Russia è di
grande profondità. Basti a provarlo un solo dato: l'inusitato protagonismo giovanile in
esso. Di giovani traboccano i cortei e le manifestazioni di Belgrado. Di giovani furenti
(e non soltanto serbi, si badi bene!) era composta la massa di dimostranti che a Skopje ha
bruciato l'ambasciata USA. Giovani sono in massima parte, e non "nostalgici" e
patetici vegliardi, i 45.000 russi pronti a partire volontari per la Serbia. Non è,
evidentemente, un discorso generazionale, mai, il nostro. La rivoluzione non chiede certo
di esibire i dati anagrafici. Nè ci sfugge che l'ideologia e spesso le organizzazioni
alla cui insegna si dà questa mobilitazione non sono di certo le nostre. Ancora una volta
la nostra attenzione è puntata sulla dinamica dei processi reali di dislocazione
delle classi su cui intervenire. E proprio da questo punto di vista è notevole che il
"mito occidentale" sia andato in frantumi, centrato in pieno dalla missilistica
NATO, anche e proprio tra quelle nuove generazioni, in cui più si era radicato. E questa
è un'ottima premessa per il prosieguo, l'allargamento, la radicalizzazione della risposta
di classe all'aggressione imperialista.
C'è poi un'altra osservazione da fare. Nonostante si sia da Washington tanto battuta la
grancassa sull'intervento a favore dei musulmani del Kosovo, non sono mancate
pronte prese di posizioni dal mondo arabo-islamico all'insegna, invece, della solidarietà
alla Serbia e al popolo serbo aggredito, con la chiara ripulsa della ridicola messinscena
yankee. I Gheddafi, i Saddam, la direzione degli Hezbollah libanesi, in modo un po' più
viscido lo stesso Iran del moderato Khatami, hanno inteso che non della sola Serbia si
tratta, bensì di tutti gli stati ribelli, di tutti _diciamo noi- i popoli ribelli, di
tutti gli oppressi del Terzo Mondo. E siamo certi, -ne abbiamo già i primi segnali
diretti anche qui in Italia-, che questa consapevolezza e questo schieramento crescerà
giorno dopo giorno, nonostante la propaganda imperialista, nelle sterminate masse islamiche
-è questo che a noi più interessa-. Così come è vero l'inverso. Il manifesto di
oggi 4 aprile ci informa (ah, se i suoi inviati e fotografi fossero un po' meno avari di
notizie vere, specie quando sono sul posto, come ad es. in Croazia!) che nella
manifestazione del 3 aprile a Belgrado sono comparsi "bandiere e slogan contro gli
attacchi all'Iraq"
Belgrado, Baghdad, Teheran
Shanghai, e ritorno
nelle metropoli: questo il cammino che la risposta di classe alla guerra imperialista
ha già intrapreso.
Cosa manca a tutto questo per approdare a qualcosa di definitivo? Mille volte l'abbiamo
detto. Manca che gli ultimi veli della menzogna lattemiele occidentale cada
definitivamente nel letamaio che si merita. Manca un'avanguardia comunista in grado di
alzare alta l'indicazione, teorica e pratica, dell'internazionalismo proletario
anti-imperialista, del socialismo. Ma come è sicuro che la prima condizione è destinata
a realizzarsi al più presto, altrettanto lo è la seconda, che ne saprà approfittare.
Questa guerra non è una fiction, ma una realtà destinata a mordere a fondo nelle
nostre stesse carni, un semplice preludio ad orrori che ci toccheranno direttamente da
vicino. E quando questo sarà, grazie al lavoro dei comunisti, non ci saranno più
litanie, interrogazioni parlamentari, elemosine, ma ci sarà armamento di classe. I
conti si regoleranno come solo si può e si deve: con lo scontro aperto col potere del
capitale, con questa macchina micidiale che ci spreme il sangue sul posto di lavoro per
poi spargerlo infine sui campi di guerra.
Democrazie occidentali = nazifascismo!
All' indomani della seconda
guerra mondiale il marxismo internazionalista bollò la vittoria alleata con parole
che risultarono indigeste alla massa degli sfruttati
di tutto il mondo. Altro che liberazione -disse- dell'Europa
dal nazi-fascismo e dalle sue
nefandezze contro i proletari e i
popoli oppressi (tra cui quelli
balcanici)! Le democrazie occidentali hanno sì sconfitto il nazismo
e il fascismo, ma ne hanno raccolto e
universalizzato l'eredità...