Dobbiamo aprire questo articolo ponendo una pregiudiziale.
Noi siamo, o perlomeno cerchiamo in tutti i modi di essere, aperti al massimo
verso gli interlocutori che ci interessano indipendentemente dal grado "in
sé" di distanza che ce ne separa ad un momento dato. La "battaglia delle
idee" non è una battaglia tra entità fisse, ma entra nel gioco di un movimento
dialettico in cui le "idee" si modificano in rapporto al modificarsi dei
dati materiali oggettivi di riferimento (e a questa stregua agiscono a loro volta da
fattore soggettivo di cambiamento).
C'è, persino nei nostri dintorni, chi addirittura ci accusa di essere troppo aperti verso
questa o quella realtà, naturalmente senza mai entrare nel merito di cosa diciamo e come
operiamo.
Il difetto di questi criticoni è proprio quello di non intendere le leggi della
dialettica, del movimento, ma di riferirsi ad una categoria idealistica, astratta e
perciò immutabile, delle posizioni in campo. E c'è anche di peggio: quando si cerca di
trattenerci dal discutere con soggetti troppo lontani da noi temendo che possiamo
contaminarci, si dà a credere che esista una graduatoria di vicinanza o meno delle varie
posizioni altrui alle nostre, e questo è puro gradualismo riformista, ancorché rivestito
di "purismo". Il marxismo non ha parenti prossimi cui guardare, così come non
ha estranei da cui guardarsi in astratto. Esso è unitario ed unico e combatte sulle sue
proprie esclusive gambe per sé, ma guardando alla dinamica possibile del movimento
su cui intervenire. In questo senso, ad esempio, possiamo e dobbiamo discutere (e lo
facciamo anche in questo numero, come sempre) col proletario leghista entrato in una certa
dinamica positiva _per noi (e se noi
)- senza doverlo considerare "troppo
lontano" da noi in rapporto, putacaso, a certo rifondarolismo impantanato cui
soccorrerebbe il riferimento "comunista" come etichetta. Non ci sono compagni in
senso pieno, cioè compagni della battaglia marxista, fuori di noi e fuori da una
dinamica di scontro reale di classe. Compagni si diventa quando ci si schiera e si
è schierati, e conta poco o nulla, in questo caso, il marchio di fabbrica con cui ci si
presenta al pubblico in partenza. Dirsi compagni (e farselo dire) senza esserlo sul serio
val peggio che zero.
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Il nostro primo interlocutore, al presente
E veniamo alla pregiudiziale preannunziata. Nel caso di questa sporca guerra
imperialista il criterio su cui cerchiamo degli interlocutori è quello sopra esposto, e
lo chiariamo subito in pratica. Il nostro interlocutore vero al presente è colui che,
qualsiasi altra cosa "pensi" e in qualsiasi modo si autodefinisca politicamente,
sente _in primo luogo- ribollire il proprio sangue di fronte al crimine in atto e
vuole effettivamente combattere per mettere fine a questo crimine. È colui che,
perlomeno, comprende, o può essere portato a farlo, che la mano assassina è
quella del grande capitale imperialista d'Occidente. È colui che avverte nella vittima
"lontana" dell'aggressione imperialista, un fratello a lui vicino, con
cui solidarizzare sulla base di interessi comuni di lotta anti-imperialista. Tutte le
necessarie chiarificazioni del caso vengono dopo ed in conseguenza di questa base
di partenza. Se questa base c'è si può e si deve ragionare, si può e si deve dare
battaglia politica, a cominciare dalla teoria, perché su di essa si costruisca il nostro
edificio. Ma se questa testa e questo sangue, soprattutto, mancano, ogni parola
sarebbe superflua.
Chi, di fronte all'aggressione NATO, si attarda a soppesare i demeriti reciproci di
Clinton e di Milosevic mettendo sullo stesso piano l'imperialismo e la sua vittima e
condiziona la sua (eventuale) opposizione all'operazione NATO alla precondizione di far
fuori "anche" Milosevic non ha sangue comunista nelle vene. Chi finge di far la
voce grossa contro la NATO reclamando l'"indipendenza" dell'Italia dagli USA
rifiutandosi così di riconoscere i motivi imperialistissimi che fanno del nostro paese
non una tenera pecorella smarritasi dietro le sirene USA, ma un lupo criminale (ancorché
dai denti più deboli di quelli del capobranco) vitalmente interessato all'oppressione
internazionale dei popoli "terzi", e non riconosce la prima verità marxista
fondamentale _e cioè che il nemico principale è in casa nostra- non ha sangue
comunista nelle vene. Chi si appella ad un'ONU reintegrata nei suoi diritti violati, al
Papa, alla resipiscenza della nostra "sinistra" e del nostro parlamento per
ristabilire la "pace" e non vede la necessità, invece, di una guerra di
classe contro l'imperialismo in grado di unificare il fronte proletario internazionale
al di là dei confini di stato in cui esso si trova diviso e schiacciato, non ha, nel
migliore dei casi, né sangue né testa degni di questo nome, e senza bisogno di aggettivi
in aggiunta; o, altrimenti, è un cosciente affittato al nemico.
L'attuale "sinistra", italiana ed internazionale, trabocca di simili individui e
ciò dimostra solo il grado di decomposizione cui essa è giunta e nella quale ha lavorato
a trascinare il proletariato. La putrefazione del riformismo ci impedisce di interloquire
coi liquami di tal fatta. L'embrione potenziale di un'uscita da tale putrefazione
non si potrà mai più, e in nessun caso, manifestare attraverso dei riaggiustamenti di
rotta in seno al vecchio riformismo: i vertici di esso sono irrimediabilmente e
definitivamente passati al nemico; la sua residua base di classe potrà riacquisire
la propria dignità di classe solo entrando in verticale conflitto con costoro in vista di
una riorganizzazione delle proprie file. Non sarà, dall'oggi al domani, la
formalizzazione del partito comunista rivoluzionario (e men che mai automatica), ma siamo
già alla dimostrazione che non si potrà più vivere come prima; non lo potrà il
riformismo, non lo potranno le masse. E questo avvicina, sempre in potenza, la nostra
soluzione.
Non è un caso che i segni più interessanti (in quanto preannunzi del futuro) non sono
venuti, in questo caso, da nessuna delle varie formazioni della "sinistra"
classica, ivi comprese le cosiddette minoranze rivoluzionarie, ma dal tessuto proletario
della Lega, come esaminiamo in altra parte del giornale. Non che la Lega
"superi" il vecchio riformismo nel nostro senso: essa, semplicemente, lo ha raccolto
in eredità rapportandolo alle incombenti sfide del futuro nel mentre le sue forme
tradizionali si mostrano incapaci dell'unico riadattamento possibile, quello social-sciovinista,
imperialista-"operaio". Il merito oggettivo della Lega è quello di
segnalare che una partecipazione ed una mobilitazione proletarie per le
"riforme" è oggi possibile unicamente a patto di affrontare la sfida con il
colosso imperialista anglo-americano (ed israeliano) sulla base di una strategia unificata
di "popoli" in armi e senza alcuna delega ai poteri forti nazionali (tanto forti
contro il proletariato quanto deboli nei confronti degli USA); si cambi il termine
"popoli" con quello di proletariato e si sostituisca alla chimera
nazional-capitalista-popolare padana l'obiettivo internazionalista del comunismo e saremo
alla nostra soluzione. Diametralmente opposta, va da sé, rispetto a quella dei Bossi, ma
sul terreno di scontro mondiale da essi riconosciuto ed accettato, che è lo stesso sul
quale noi ci misuriamo: rimessa in discussione dell'ordine capitalista mondiale attuale
nel suo complesso; rottura col centro dell'imperialismo attuale; nessun richiamo a regole,
codici etc. etc. in chiave più o meno parlamentare, ma appello alla lotta aperta;
necessità, su queste basi, di un fronte internazionale combattente. Da questi
cardini, su cui la Lega imposta la sua battaglia (certamente antisocialista) e su cui noi
impostiamo la nostra (per il socialismo), si sono defilate le vecchie
"sinistre".
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Il nostro referente è quello di sempre: il proletariato.
Noi non cambiamo il nostro referente, sia ben chiaro. Non "preferiamo" la
Lega e non "ricusiamo" chi tuttora sta ancora dalla parte del
"riformismo". Tantomeno intendiamo rivolgerci solo a chi ha già oggi
"capito" ad esclusione della "massa bruta", come se potesse bastare
alla lotta contro la guerra e contro il capitalismo l'adesione dei "coscienti".
Il nostro referente è sempre uno e sempre quello: il proletariato intiero, la
massa del proletariato. Diciamo unicamente una cosa, ben chiara e forte: che il terreno
dello scontro di classe a venire non si potrà dare sulle basi "tradizionali"
del vecchio riformismo, trapassato dalle promesse di un pacifico sviluppo capitalista allo
schieramento guerrafondaio dietro l'imperialismo ed alla messa in atto qui, nella società
metropolitana, dei suoi "valori" (liberalismo schiacciasassi contro il
proletariato). Si darà sul terreno di scontro segnalato dalla Lega che, però, dovrà
essere rovesciato di segno. Su questa trincea più avanzata dello scontro si devono
piantare le nostre bandiere una volta spazzato via l'equivoco leghista micidiale di una
"lotta dei popoli" con tutte le classi "nazionali" in un sol mucchio
per fronteggiare l'imperialismo in nome dei propri diritti "capitalistico
nazionali". La Lega va combattuta e battuta su questa trincea, ed a questo chiamiamo
i proletari dei vari partiti "operai"-imperialisti. Pensare, invece, di batterla
perché "è di destra" restando al di qua della sfida che essa lancia,
rifiutando lo scontro con l'imperialismo, affidandosi a possibili resipiscenze "di
pace" da parte del riformismo, invocando l'ONU dei briganti etc. etc. significa
soltanto avere la testa volta all'indietro, significa fungere da retroguardia del
nemico.
Meglio Bossi o Cossutta, per dire? Noi non "preferiamo" nessuno dei due, ma il
primo ci dà modo di affondare la lama della posizione (e dell'organizzazione) marxista in
un movimento -essenzialmente proletario- che si muove, che lotta; il secondo si oppone ad
ogni movimento reale su cui poterlo fare agendo due volte da nemico della nostra
classe. Bossi porta in piazza contro la guerra dei proletari cui utilmente rivolgersi;
Cossutta rappresenta solo un immondo cumulo di merda sopra poltrone governative
insanguinate: può far la finta estrema di ritirare i suoi ministri dal governo, ma
assicurando in compenso il suo appoggio ad esso per evitare che "venga la
destra". La destra, cornutissimo figuro che non hai neppure fatto in tempo a
scrollarti di dosso i crimini dello stalinismo di cui sei stato complice unicamente per
sporcarti di quelli della NATO!, la destra è già venuta, ha già vinto. O non hai
contato i voti di FI, di AN, del Kossiga con cui avevi giurato di mai collaborare, per
D'Alema-Clinton? Non hai visto Napolitano flirtare da Vespa con Fini in nome del
cacciariano "superamento delle barriere destra-sinistra" quando si tratta di
guerra? E se si tratta di pace cosa cambia?
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Una guerra per gli albanesi del Kosovo? E come si fa a crederci?
Il ritornello che questa guerra si fa per la libertà dei kosovari viene ripetuto
ancora solo per quella larga manica di deficienti o prezzolati che ne sentono il bisogno
per schierarsi a favore di essa o, comunque, di non schierarsi sul fronte di lotta
anti-imperialista.
Questa infame menzogna, per nostra fortuna, è tuttavia in fase di superamento. Essa
corrispondeva alla fase uno dell'intruppamento del pecorame, allorché ancora occorreva
ammorbidire le coscienze per portarle a pro del massacro bellico. Oggi le cose si cantano
più chiare perché stiamo decisamente entrando nella fase due, quella della mobilitazione
pro-imperialista aperta.
In un articolo sul Corriere di Ernesto Galli della Loggia (la loggia sionista!) si
chiamano finalmente le cose col loro nome. Tanto di cappello (in attesa di poter
rispondere con altri mezzi)! Riassumiamo. La motivazione umanitaria deve essere messa da
parte una volta per tutte. Del destino dei kosovari può importarci un fico secco, così
come non c'importa un bel nulla dei palestinesi _specie se il cuore batte da una certa
parte-, dei kurdi, che anzi contribuiamo a cannoneggiare, e di qualsiasi altro popolo
oppresso. Nel caso specifico, poi, sappiamo benissimo che in nessun caso il Kosovo
potrebbe essere semplicemente "restituito" ai kosovari, visto che non abbiamo
neppure restituito l'Albania agli albanesi. Bisogna dirlo chiaro e netto: quel che ci
preme sono i nostri interessi economici, politici, militari. I Balcani sono stati
rimessi in subbuglio e noi, noi Italia di santi, navigatori ed eroi, da Mussolini a
Baffetto, dobbiamo metterci mano per non restar tagliati fuori dalla rispartizione
dell'area. E diciamolo con altrettanta franchezza: se combattiamo a fianco della NATO non
è neppure qui perché abbiamo un'"idealità" superiore da difendere al di sopra
dei nostri confini, ma perché la partecipazione ci serve per non lasciare ai nostri
alleati l'intero affare. Stando nella NATO difendiamo gli interessi dell'Europa, e
dell'Italia in particolare, anche rispetto agli USA nel solo modo che l'imperialismo ci
concede.
Sulla rivista Limes, poi, questi temi sono ulteriormente sviluppati in chiave
"geopolitica" (un altro modo per dire imperialista) e con toni molto
"scientifici", quindi senza ulteriori preoccupazioni di demagogia umanitaria,
buona solo per i dementi. La stessa Albania, vi si legge, non può essere lasciata a sé
stessa, e noi abbiamo dimostrato di non volercela affatto lasciare. Essa, come altri stati
"sovrani" nati dalla dissoluzione indotta della Jugoslavia, deve essere trattata
per quel che vale, e cioè come un nostro protettorato. Figuriamoci il Kosovo! Ne
prendano nota quei "patrioti" albanesi che da Gad Lerner si vantano di aver
brindato a champagne per i bombardamenti "liberatori" USA!
Anche il tentativo, sin qui largamente riuscito, di sganciare il Montenegro da Belgrado
non ha proprio nulla a che fare con ideali di "democratizzazione" tant'è che la
prima "democrazia" che vi abbiamo portato è stata quella della delle nostre
mafie, del contrabbando etc. etc. Ma l'opera di questi battistrada serve ad un obiettivo
ben preciso: "Quando la situazione si sarà stabilizzata (!), per il Montenegro la
via principale d'integrazione con l'Occidente rimarrà il Mediterraneo, con lo sviluppo
dei rapporti transfrontalieri con altre regioni e paesi legati dal confine marino.
Potrebbero così aprirsi nuove prospettive e nuovi mercati specialmente per il
Mezzogiorno e alcune regioni, come la Puglia, potrebbero candidarsi come porta d'Europa
per l'economia balcanica". "Per noi imprenditori del Sud qui ci sono ottime
opportunità", chiosa un imprenditore pugliese, e mafie e cannoniere ben vengano a
realizzarcele!
È "curioso" leggere, tra le pagine dedicate alla nostra missione imperiale
nell'area, la candida ammissione che gli albanesi del Kosovo godevano di standard di vita
senz'altro superiori a quella degli albanesi di Albania (uno stato che non è uno stato,
vi si dice, ma un incontro-scontro di clan tribali: il che spiega perché debba essere
protettorato!). Ed ancora la particolareggiata ammissione che il Kosovo di fatto godeva di
una larga autonomia sostanziale che lo stesso Milosevic si apprestava ad allargare
ulteriormente, tanto da permettere a Rugova di far eleggere "illegalmente", ma
non clandestinamente, un proprio parlamento e di farlo tranquillamente funzionare assieme
ad ogni altra forma amministrativa (dai tribunali agli uffici imposte, tanto per dire).
Dove stava il difetto, dal punto di vista delle banche e delle cancellerie occidentali?
Nella chiusura di queste riforme di fatto all'interno di un quadro statale jugoslavo
ermeticamente chiuso alla manomissione diretta dell'Occidente. Ragion per cui un Rugova
(dopo aver fatto anche lui da battistrada) doveva passare la mano all'estremismo
secessionista, utile non a "liberare" il Kosovo e, magari, a ricongiungerlo ad
una "grande Albania", ma ad aprire ancor più decisamente la strada ad ulteriori
protettorati occidentali, e possibilmente italiani, nell'area.
L'ambasciatore USA Vershbow chiaramente annunciava: "Se dovessimo intervenire con la
forza, il principale obiettivo sarebbe certo Milosevic; ma la nostra non sarebbe affatto
un'azione a sostegno degli albanesi e del loro programma politico". L'UCK, insomma,
è stato messo in piedi, superarmato e diretto politicamente dagli occidentali, ma non si
sognasse di giocare in proprio! Le pedine servono al gioco del re e in questo senso vanno
utilizzate.
L'UCK è stato messo in campo precisamente per impedire che la situazione del Kosovo
"ristagnasse", che le rivendicazioni albanesi nel Kosovo non rimettessero in
gioco i confini che all'imperialismo interessa far saltare. Esso è servito da arma
primaria proprio contro i vari Rugova, che pur non sono degli stinchi di santo, per
annullare la dialettica sociale tra quelle popolazioni e costringerle a ricompattarsi
nazionalmente per fini puramente "irredentistici" a servizio dell'imperialismo.
Le prime, "brillanti", operazioni dell'UCK sono state rivolte precisamente
contro i "collaborazionisti", gli elementi cosiddetti "passivi", cioè
non pregiudizialmente schierati a favore dei giochi NATO, e non c'è dubbio alcuno che
molti dei massacri di albanesi del Kosovo portano la firma dell'UCK a tal fine. Un
particolare istruttivo: la nostra "libera" stampa si era già sbracata a
denunziare lo sterminio dei "moderati" ad opera di Belgrado, a cominciare da
Rugova e dai suoi più stretti collaboratori; poi si è visto che Rugova e gli altri sono
vivi in quanto la polizia serba li tiene sotto la sua protezione e, tra l'altro, chiedono
la cessazione dei bombardamenti. E da chi vengono protetti? Dai colpi dell'UCK e della
NATO a cui essi, dopo aver svolto la loro parte, non servono più, sono d'intralcio.
Non ci stancheremo mai, questo è sicuro!, di denunciare la stupida politica di Milosevic
che erge un muro tra serbi e kosovari. Proprio queste vicende mostrano sino a qual punto
una diversa politica (una politica comunista) potrebbe infiammare unitariamente lavoratori
serbi e kosovari e scardinare nel Kosovo la possibilità stessa di un
"ricompattamento nazionale" fissando anche lì (come lo dovrebbe fare
unitariamente in Serbia) un fronte sociale e politico di classe. Al di fuori di
ciò ogni prospettiva di soluzione pacifica del problema del Kosovo è inesorabilmente
esclusa, dal momento che essa non è una semplice questione nazionale interna, ma una
questione più generale, internazionale, di classe che riguarda e attraversa la Serbia
stessa e il mondo intero. I confini nazionali non possono essere né difesi né meglio
ridefiniti oggi dal momento che il vero confine è quello di uno scontro internazionale
di classe a cui rapportarsi.
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Usa contro Europa? Si, ma per la spartizione imperialistica del mondo. Una contesa tra briganti.
Una certa parte della nostra "sinistra" (assieme ad un'altra certa parte
della nostra borghesia più "indipendente") denunzia i pericoli della guerra in
atto sotto questo aspetto: si tratterebbe di una guerra che conviene principalmente agli
USA e da cui "sarebbe bene" che l'Europa si tirasse fuori, anche perché i suoi
costi verranno a ricadere su di noi, i suoi profitti saranno immagazzinati da Washington.
Si potrebbe addirittura ipotizzare che l'obiettivo reale di questa guerra, dietro le sue
apparenti giustificazioni formali, cui nessuno crede, sia costituito dall'Europa anziché
dalla Serbia, che ne funge da solo da mezzo.
Lo avevamo già sentito a proposito dell'Iraq; certo c'è del vero in tutto ciò.
Che gli USA tendano a destabilizzare il quadro dei Balcani per i loro sporchi interessi
mettendo nel contempo scompiglio in Europa, sovraccaricandola di costi
"impropri" e di contraddizioni di ogni tipo, in pratica impedendole di svolgere
una sua funzione concorrenziale autonoma, è un dato di fatto.
Quello, però, che da queste "analisi" non risulta è che l'alternativa non
potrebbe comunque essere quella di una "diversa politica" europea (magari una
"politica di pace") perché i termini ipotetici di un'autonomia europea in
questo campo consistono nella stessa necessità di operare in vista della
spartizione imperialistica del mondo in atto. Non dimentichiamo che i primi fautori della
dissoluzione della Jugoslavia sono state proprio le grandi potenze europee, a partire
dalla Germania, ma col coinvolgimento diretto anche dell'Italia, allorché gli USA
parevano tuttora stare alla finestra a guardare. L'Europa (quella vera, imperialista, e
non quella immaginaria, "semisocialista", alla Manifesto) ha aperto per
prima le ostilità contro i popoli balcanici illudendosi di poter svolgere la propria
parte in modo indipendente ed autonomo dagli USA. L'ha fatto assieme ad una Ostpolitik
rivolta verso la Russia, a qualche velleità iniziale di costituire un proprio esercito
"fai da te" e mille altre misure concorrenziali nei confronti degli USA. Ma l'ha
fatto da nano finanziario, militare e soprattutto politico. Gli appetiti
"indipendenti" non mancavano e non mancano; mancano zanne e denti sufficienti.
Chi questo non dice o nasconde è due volte servo dell'imperialismo, primo perché
non può in alcun modo contrastare il colosso USA nella sua azione acchiappatutto (e
distruggitutto), secondo perché chiama a solidarizzare con interessi
"specifici" europei non meno imperialisti nelle ambizioni e negli scopi e
nei metodi ad essi connessi. L'alternativa non è l'Europa, ma il proletariato europeo
contro l'Europa imperialista. Il nemico principale non è in casa d'altri, è qui.
Molto più seri di simili "sinistri" sono i fascisti alla Rauti. Costoro hanno
tutto il diritto di dire "per l'Europa contro gli USA" dal momento che lo dicono
in nome di un imperialismo europeo vitalmente saldato al retroterra russo (e, più
oltre, cinese), in nome dell'unità nazional-sciovinista, imperialista, tra le classi,
così come ha il diritto di dirlo un Bossi invocando uno "spazio padano" entro
uno "spazio europeo" di più ristrette, ma non diverse, ambizioni.
Ci tocca dire qualcosa anche a proposito di certe interpretazioni su questa falsariga che
hanno corso in certi ambienti "rivoluzionari" che osano, talora, persino
richiamarsi alle tradizioni della sinistra comunista.
Abbiamo letto da alcune di queste parti che, nelle guerre in corso, non c'entra l'Iraq,
non c'entra la Serbia, non c'entrano i popoli oppressi, i quali soffrono della
"sola" scomoda situazione di trovarsi piazzati in punti vitali dello scontro
inter-imperialistico, dal momento che l'unica realtà di tali guerre consiste in tale
scontro causato dalla "caduta tendenziale del saggio di profitto".
Noi credevamo, con Lenin e Bordiga, di sapere che lo scontro inter-imperialistico si fa
per e sulla pelle dei popoli del mondo, sulle loro terre votate alla spartizione ed al
macello. Credevamo di sapere che la caduta non tendenziale, ma effettuale di bombe su di
essi chiama i popoli direttamente coinvolti a ribellarsi e che questo è il fattore
decisivo in grado di rimettere in moto la guerra internazionalista di classe chiamando
alle proprie responsabilità le metropoli.
È molto "bello" dire che, siccome l'unica realtà è quella della crisi
mondiale del capitalismo e dello scontro inter-imperialistico, la sola risposta plausibile
è quella del "comunismo mondiale". Ma chi salta allegramente al di sopra delle
sofferenze dei popoli colpiti, deciso a non prendersi alcuna responsabilità nei loro
confronti se ed in quanto non siano disposti a combattere per il "comunismo
mondiale" (qui da noi difeso arditamente da intrepidi
studiosi), rinunzia a
priori a fare di queste sofferenze e della ribellione cui esse chiamano la leva di una
vera lotta comunista. Ai popoli oppressi non si può chiedere di non battersi "se
non". Ad essi si deve chiedere di battersi sul serio perché solo una loro seria
lotta può dischiudere la possibilità di un indirizzo risolutore per cui battersi, che
non si dà in astratto, nelle Idee, ma nella solidarietà militante di cui noi, qui,
saremo capaci. E qui, nelle metropoli, battersi realmente per il comunismo non può darsi
al di fuori, o addirittura in contrapposizione, al battersi contro la NATO, contro il
nostro governo, contro le menzogne "pacifiste" nel movimento; non può darsi
senza un movimento che cominci dalla risposta agli effetti per risalire alle cause. Se non
vi piace il micronazionalista Milosevic (così come a noi non piace) sappiate che solo la
più vasta mobilitazione di massa in Serbia nella lotta contro l'imperialismo potrà
metterlo alle corde. Se non vi piace il nazional-imperialista D'Alema e il
nazionalistuccio riformista Bertinotti sappiate che solo la più vasta mobilitazione di
massa qui contro l'aggressione NATO in cui siamo coinvolti, quali che ne siano i contorni
iniziali, può aprire le porte ad analogo risultato. O la "verità" (triviale
rigurgito d'illuminismo?) sta chiusa nei "testi" da voi amorosamente custoditi?
E' vero quel che disse Bordiga: certa gente sfoglia i testi come fossero biglietti da
mille, o, aggiungiamo noi, dei santini con la promessa d'indulgenze plenarie.
Gente di questo genere, che rifiuta di sporcarsi le mani per salvare
l'anima, si
sporca due volte le mani, e quanto all'anima Dio l'abbia in gloria!
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Dallo smembramento della Jugoslavia all'inferno per tutti i Balcani e per il mondo intiero
A parole doveva essere una guerra "per gli albanesi del Kosovo" da
protettorare. In realtà, questa guerra riaccende il conflitto nell'insieme dell'area
balcanica.
Si era partiti dalla rivendicazione di una forma di autonomia illimitata del Kosovo entro
il quadro statuale jugoslavo con la "semplice" avvertenza che le stesse forze di
polizia di stato jugoslave dovevano rimanerne fuori provvedendo a tutto l'esercito della
NATO. Oggi chiaramente si dice che l'obiettivo è quello di staccare il Kosovo dalla
Jugoslavia per ricongiungerlo alla "madre patria" albanese. Senonché questo
preludio di "grande Albania" dovrebbe in primo luogo ridefinire il potere
"autoctono" di Tirana per armonizzarlo al meglio agli interessi USA (anche a
costo _com'è meritato!- di tagliar fuori dal controllo albanese la partnership europea,
e specificamente italiana). In seconda istanza, questa Albania grandicella dovrebbe poi
trovare modo di arrivare a "completarsi", magari secondo le carte di
rivendicazione "etnica" dei vari Berisha, UCK e della jena sionista Albright. Ne
verrebbe in primo luogo colpita la Macedonia, paese che, pur sotto controllo militare
diretto USA, si mostra colpevole di eccessivo pacifismo multietnico e scarsa propensione
al coinvolgimento nel conflitto imperialista. La cosa, poi, si proietterebbe sulla
Bulgaria e, soprattutto, sulla Grecia, già "avvertita" in occasione del caso
kurdo di star nel mirino USA e quello del suo fedele alleato turco.
A ciò si aggiunga il tentativo di coinvolgere la Vojvodina per offrirla come zuccherino
ed arma di ricatto all'Ungheria, che fin qui non si è mostrata troppo propensa a
sporcarsi le mani nella faccenda. (Ma se una tale sciagurata eventualità si realizzasse,
come non pensare all'estendersi di un revanscismo ungherese ai danni della Romania, e con
quali conseguenze?).
Ma, soprattutto, quel che sta succedendo ridà fiato a tutti i fuochi di guerra
momentaneamente sopiti in Bosnia-Erzegovina con rischi incontrollabili. Izetbegovic è
pronto a giovarsi della situazione per "ridefinire" i rapporti col popolo serbo
bosniaco, ma, allo stesso modo, Tudjman, approfittando del caos in corso, mira a
"ridefinire" quelli con i musulmani bosniaci. E via dicendo, in una spirale
senza fine.
La posta in gioco, d'altra parte, non sarebbero solo i Balcani chiusi in sé stessi e lo
scontro d'interessi su essi acceso tra USA ed Europa, ma la Russia stessa, di cui da un
bel po' si predica la fine imminente, ma di cui da sempre si teme il riscatto
(imperialista) ed il pericolo di una sua saldatura d'interessi economici e militari con
l'Europa. Allo stato attuale la Russia non è in grado di giocare ancora a carte scoperte,
e tanto meno lo è in quanto non lo è l'Europa, ma questa resta la grande incognita a
venire, soprattutto se si pensi all'oggettiva necessità che Russia e Cina hanno di far
fronte comune contro l'invadenza USA. Basti leggere quanto scrive il Manifesto sul
progetto del "Corridoio 8", "il grande progetto finanziato con miliardi di
dollari dal FMI
per la realizzazione di un asse di comunicazione est-ovest che
unisca la costa bulgara del mar Nero, attraverso Macedonia ed Albania meridionale,
all'Adriatico" con cui "si verrebbe a creare la seconda, decisiva, linea di
deflusso delle risorse energetiche di produzione asiatica
sottratta ad ogni
influenza russa" (27 marzo). I tentativi di "mediazione" russi con
Belgrado, per quanto minimalisti, sono stati presi a schiaffi dalla NATO perché, per chi
non lo sapesse, bisogna, attraverso la Serbia, colpire la Russia. Ma la Russia, noi
confidiamo, resterà un osso duro da mordere e, chiamata infine alla guerra aperta, saprà
rispondere come si deve.
C'è una "piccola" incognita in tutto questo gioco. La guerra facile dall'alto
non potrà mai raggiungere i suoi obiettivi senza completarsi con la guerra dal basso, sul
territorio. Persino in Iraq gli USA hanno potuto vincere facilmente la prima, ma, a
distanza di molti anni, non sono riusciti a conseguire i loro scopi finali non osando
posizionare sul suolo le proprie truppe e politicamente ("solo" questo,
per ora) Saddam ha vinto restando al suo posto e proponendosi come bandiera di riscatto
delle masse arabe oppresse oltre i confini del paese, nonostante tutte le no-fly zones.
C'è qualcosa di più forte delle interdizioni aeree e che si va diffondendo nonostante
tutti i divieti dall'alto. Bene. In Jugoslavia un attacco da terra costerebbe ben più
caro, e in molti se ne rendono conto. Apprendiamo che in USA sono già in vendita dei
giochi elettronici sulla guerra contro la Jugoslavia. Noi ci aspettiamo che i giochi si
facciano a terra, e sul serio, e poi si vedrà. Vedremo allora una quantità di fessi
elettronizzati doversi misurare con un nemico vero, faccia a faccia, dovendo magari
spostarsi dalle zone di "turismo di guerra" in quel di Aviano per beccarsi delle
sacrosante pallottole in faccia e tanta gente, oggi rassicurata da D'Alema sull'assenza di
rischio per gli italiani, dover rischiare sul serio. E ci aspettiamo che finalmente i boys
americani, reclutati in primo luogo tra i desperados neri e latini, si debbano
chiedere a questo punto per chi è fatta questa guerra.
Venite a terra, ragazzi, venite, vi aspettiamo con ansia!