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Scandalo doping

PER LO SPORT, QUELLO VERO!

Indice

Ciclismo, calcio, sci, pallacanestro, atletica, ippica... Il coperchio è saltato. La pentola del grande sport è piena di doping. Pur di resistere alla fatica e vincere, gli atleti non esitano a far uso di epo. Pur di aumentare la potenza muscolare, non ci pensano su ad ingurgitare grandi quantità di creatina e testosterone. Pur di mantenere il sangue freddo richiesto dalle prove "decisive", non si sottraggono all’assunzione di prodotti, come i beta-bloccanti, che rallentano il battito cardiaco e favoriscono l’auto-controllo. Questi "trucchi" comportano il rischio di subire lesioni permanenti o di morire prima del tempo? Questo modo di condurre l’attività sportiva può portare a un profondo squilibrio psichico?... Sì, questi rischi esistono davvero, tant’è che la velocista statunitense Griffith è "inspiegabilmente" deceduta qualche mese fa a 38 anni, le percentuali di atleti morti a causa di malattie cardio-circolatorie o sprofondati nel tunnel della tossico-dipendenza sono nettamente superiori a quelle medie... Ma cosa importa? La vittoria ad ogni costo, questa è la legge...

Ma come, l’attività sportiva non dovrebbe essere nobilmente estranea a questi ignobili "trucchi"? Non dovrebbe essere quanto di più contrapposto all’adozione di comportamenti dannosi alla salute umana? Non dovrebbe permettere di conseguire una più solida salute psico-fisica? Eh sì, dovrebbe... Oggi, però, le cose stanno diversamente. Colpa degli atleti, della loro venalità e corruzione? Sicuramente questi signori non sono stinchi di santo, ma al fondo rappresentano solo rotelline spersonalizzate al servizio (ben remunerato!) del mostruoso complesso che ha realmente in mano il mondo dello sport, un complesso fatto di industrie farmaceutiche, centri di ricerca biomedica, medici, dirigenti delle società sportive, pezzi dell’apparato statale (CONI e servizio sanitario, per esempio), investitori-sponsor di ogni settore economico. È questo complesso che spinge gli atleti all’uso delle sostanze dopanti. Perché? Perché esso, "promuovendo" lo sport, non si prefigge affatto di soddisfare il bisogno umanissimo di praticare un’attività nella quale siano fusi l’educazione fisica e il gioco. Come tutte le imprese e come tutti i monopoli capitalistici, esso ha di mira ben altro scopo: quello di utilizzare l’attività sportiva per fare soldi. A qualsiasi costo. Anche a quello di uccidere gli sportivi e lo sport.

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Il fascino discreto del doping

Prendiamo gli sponsor (da cui -tanto per dirne una- arriva la metà delle entrate delle società di calcio): essi si presentano come munifici elargitori di denaro, in realtà il loro è un investimento per smerciare meglio i prodotti che "normalmente" mettono sul mercato (bevande, abbigliamento sportivo, ecc.). La pubblicità funziona, però, solo se i propri atleti sono continuamente alla ribalta e se lo fanno con prestazioni sempre più "sensazionali", con la conseguenza che i ritmi agonistici diventano difficilmente sopportabili senza il supporto della medicina sportiva, e quindi del doping. Ma se c’è chi alimenta la domanda, c’è anche chi sostiene a tutta birra l’offerta. Promuovendo l’uso di sostanze dopanti nel "grande sport", le imprese che le producono trovano in esso un campo di sperimentazione e una meravigliosa vetrina da cui far pubblicità, affinché queste sostanze siano usate dalla massa degli sportivi dilettanti (almeno 7 milioni in Italia, di cui più della metà giovani al di sotto dei 24 anni) oppure, all’esterno del mondo dello sport, dalla "gente comune", costretta a competere su un diverso terreno di "gioco", quello del lavoro e della vita quotidiana.

Né è da dimenticare chi guarda con favore al doping perché sa che esso è un ottimo strumento per oliare e mantenere in piedi un meccanismo, quello dello sport, che oltre ai profitti economici ai suoi padroni assicura anche un prezioso profitto politico a tutti i capitalisti e alle loro istituzioni statali: lo spettacolo sportivo, infatti, è uno dei mezzi con cui chi ha in mano il potere economico e politico "educa" i lavoratori e i giovani ad introiettare e rispettare quelle regole necessarie a perpetuare lo stato di cose presenti, prime fra tutte quelle della competizione, del nazionalismo, del culto del grande uomo, della coesione sociale interclassista. Due squadre di calcio che si affrontano sul campo, non vivono l’obiettivo di superarsi a vicenda e la generosa carica agonistica da esso richiesta col gusto di compiere una bella prova, e di goderne insieme a un pubblico di spettatori che sono anche "potenziali avversari": no, oggi c’è solo il disumano impulso a superare l’avversario costi quel che costi, a far "sbavare" -costi quel che costi- un pubblico passivizzato e/o da passivizzare, un pubblico che, composto in misura non piccola da salariati, proietta e compensa nel culto dei suoi beniamini la propria impotenza e le proprie frustrazioni.

Come sorprendersi allora della diffusione del doping? Come sorprendersi della complicità diretta in tutta questa faccenda di quei pezzi dello stato deputati alla guida delle attività sportive?

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"Tutti dopati"

Oggi si punta il dito sugli atleti o al massimo sul marcio mondo dello sport. Spesso per dire o per lasciar intendere che il resto della società e delle istituzioni statali è immune dal cancro del doping. E invece è vero proprio il contrario. Quanti proletari prendono sostanze chimiche o alcoliche per reggere nella competizione a cui sono sottoposti nella vita quotidiana e nel lavoro? Ed essi non sono inoltre costretti a sorbirsi ogni sorta di sostanze dopanti "spirituali"? L’idolo dello stadio non è tra queste? E anche tra gli strati medi, quanti sono quegli individui che non assumono sostanze (dagli integratori, alle scorpacciate di vitamine, agli ormoni di vario tipo) per apparire "scattanti ed efficienti"?

Non è allora fuori luogo dire che (pur con le differenze di spesa e di modalità connesse alla classe sociale di appartenenza) "siamo tutti dopati". Dopati da una società che considera l’uomo come mezzo e che lo costringe a compiere prestazioni inumane, possibili solo con l’artificiosa pompatura delle sue possibilità. Dopati da una società che spinge a questo perché pone alla base della sua attività produttiva non la soddisfazione dei bisogni umani, ma il profitto, l’accumulazione di crescenti quantità di denaro. Esagerazioni? E allora: c’è molta differenza tra il dirigente calcistico che, dopo qualche sconfitta, entra nei suoi spogliatoi e ordina agli allenatori di dopare i giocatori, e il manager capitalistico che pur di vendere le sue auto e vincere la concorrenza aumenta oltre i limiti del possibile i ritmi di lavoro dei suoi operai? C’è molta differenza tra i manager del calcio e quelli delle aziende agricole nelle quali, per piazzarsi bene nel "campionato" del mercato mondiale, si dopano le mucche al punto tale da farle diventar "pazze"? Al fondo, differenze non ce ne sono. La legge, l’infame legge è la stessa. Ed è dal mondo "sano" dell’economia tradizionale che essa s’è diffusa e ha permeato di sé ogni sfera della vita sociale. Anche quella dello sport, naturalmente nei modi che le competono.

Non è un caso che anche lo sport dilettantesco sia marcio, che sia un bacino di coltura del doping e talvolta dopato esso stesso. Non solo perché è da lì che si reclutano i giovani o i bambini che diventeranno le "stelle" dello sport-spettacolo, per cui chi vi partecipa è facilmente risucchiato nel meccanismo di rincorsa del "successo", finendo per accettare tutto quello che può aiutarlo in tal senso (con le rispettive famiglie, nella gran parte dei casi, a oliare quel meccanismo piuttosto che a frenarlo). Ma anche perché l’inquinamento non risparmia neanche la larga fetta di coloro che fanno sport senza aspirare a questo salto. Non si tratta di un ristretto numero di individui, ma del 20% di operai e del 50% di giovani d’età compresa tra i 15 e i 24 anni. Essi si dedicano, spesso con ammirevole passione, a quest’attività per mantenersi in salute o tentare di superare una malattia, per conoscere e stare insieme ad altre persone, per divertirsi, per mettere in movimento come si deve una muscolatura intorpidita da un lavoro ripetitivo, deformante, snervante. In queste esigenze e desideri non ci troviamo niente di male, anzi; così come non consideriamo affatto un’illusione l’aspettativa di trovare nello sport un’attività che può realizzarli. Perché lo sport è tutte quelle cose messe insieme. O meglio, potrebbe esserlo, se... se esso venisse praticato in un modo completamente diverso da quello corrente.

Oggi infatti, al di là della volontà o della consapevolezza individuale, lo sport amatoriale allena i proletari a ridare al corpo qualcosa di ciò che l’uso capitalistico delle macchine gli ha sottratto, ma solo per tornare a renderlo schiavo di esse, come e più di prima. Li allena a sopportar meglio lo stress da lavoro salariato. Allena loro e i giovani senza riserve ad assimilare (anche senza arrivare ai casi estremi del body building) la narcisistica ossessione del mostrarsi e del brillare nella fiera della vanità della società borghese... Insomma, un doping sociale: ecco cos’è lo sport amatoriale, anche quando non contempla l’uso di nessuna sostanza dopante.

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Per la rinascita dello sport!

E allora che fare? Tenersi alla larga dall’attività sportiva? Reprimere questo sacrosanto tentativo dei proletari di cercare nello sport un reattivo alla vita mortificante che sono costretti a condurre? Tutt’altro. Noi chiamiamo i proletari, la "gente comune", i giovani senza riserve a darsi da fare per arrivare a praticare lo sport in modo da realizzare davvero in esso il recupero e la maturazione delle proprie facoltà motorie e fisiche, lo sviluppo della forza della bellezza e della grazia del proprio corpo, l’affinamento -coi movimenti del corpo- di quelli del sentimento dell’intelligenza e del gusto, in contrapposizione all’abbrutimento cui conduce il lavoro e la vita nella società capitalistica. Ma tutto ciò, il proletario o l’oppresso non può conquistarlo come individuo "isolato ed egoista", bensì solo in quanto si riconosce e agisce come membro di una comunità. Quella che si forma nello e dallo sviluppo di un movimento di lotta contro il doping che imperversa nello sport odierno come in tutta la società, e contro i responsabili di esso. Un movimento che combatta la sottomissione dei proletari ai vincoli della competizione e del profitto, che metta al centro dei suoi sforzi la ricostruzione di una solidarietà di classe, oggi per difendersi dagli sfruttatori e dalle loro istituzioni statali, e domani, per arrivare a emanciparsi totalmente in un nuova società che ponga l’uomo come fine e non come mezzo, una società comunista.

In un simile ambiente di battaglia anti-capitalistica, in una simile "comunità", gli sport praticati negli appositi centri (quelli attuali permeati col nuovo "spirito" o più probabilmente quelli costituiti ex-novo sulla base di esso) contribuirebbero all’avvio della rigenerazione psico-fisica del proletario e dell’oppresso (giovane o meno giovane che sia) perché sarebbero un momento della riconquista della sua dignità di classe e di uomo, perché egli comincerebbe ad "usare" il suo corpo non come proprietà da esibire e contrapporre agli altri corpi-proprietà, bensì quale manifestazione e fonte di vita sociale da coltivare per il collettivo riscatto. Sì, quindi, alla pratica sportiva. Ma non come mezzo per essere inquadrati nella vita della società borghese, bensì come momento per difendere la propria salute e sviluppare quella coesione di classe che serve per organizzare meglio la lotta contro la società capitalistica.

Come OCI non inventiamo nulla sul tema. Riprendiamo, per quel che riusciamo a fare, la grande tradizione che hanno in questo campo il movimento operaio e il movimento comunista. Una tradizione che oggi sembra morta e sotterrata. In realtà è solo provvisoriamente congelata e messa in soffitta. Siamo consapevoli che al momento non ci sono ancora i coefficienti per farla "concretamente" tornare in campo. Non per questo però non rileviamo e non invitiamo a rilevare come questa esigenza di un diverso modo di fare sport, che richiama un diverso modo di vivere e di lavorare, cominci ad essere già sentita da alcuni settori della "gente che lavora" del Nord. Si tratta per ora di un’esile fiammella? Sicuramente, ma come sintomo di ben altra fiamma a venire. Tant’è vero che c’è già chi si fa rappresentante di essa, ancora una volta per deviarla, castrarla e metterla al servizio di un progetto reazionario. È la Lega Nord, la quale è da tempo passata alla creazione di nuove società sportive "sane e popolari" e ad autonomi tornei. Lo rileviamo con preoccupazione. Ma anche come dato (potenzialmente) positivo, in quanto vi vediamo confermata la nostra tesi sul fatto che coloro i quale ardono per la resurrezione dello sport dovranno contemporaneamente battersi per la resurrezione di una politica militante alternativa a quella "ufficiale". Una politica che non potrà essere rappresentata dal leghismo, ma solo dal comunismo. E per l’affermazione della quale c’è bisogno che i militanti comunisti contendano agli avversari borghesi (quello leghista compreso) anche il "terreno di gioco"… dello sport.

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