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LA "FASE DUE" DEL GOVERNO PRODI :
ATTACCO PIU’ A FONDO AL PROLETARIATO

Indice

La "fase due" è iniziata con un maggiore spostamento al centro del quadro politico nazionale, cui corrisponde un’accelerazione dell’attacco contro il proletariato. Fedele interprete delle "richieste dei mercati", il governo Prodi, respinge le attese dei lavoratori per un secondo tempo di "riforme". I DS e il Prc -lungi dal preoccuparsi per aver deprivato il proletariato d’ogni capacità di organizzazione e di difesa contro l’attacco borghese- sono tutti presi gli uni a salvaguardare un ruolo di primo piano all’interno del gioco istituzionale, gli altri ad agitare il supposto peso delle proprie deleghe parlamentari. Entrambi, comunque, sempre più trascinati nel vortice di un’accelerata convergenza al centro e a destra, a far proprie con remore sempre minori le necessità del capitale nazionale.

Raggiunto il traguardo dell’euro, il governo è stato sollecitato dalla "sinistra" ad avviare una "fase due". Pur con toni differenti, il Prc e i DS vorrebbero indirizzarne l’azione verso il lavoro e l’occupazione, senza vanificare i risultati di risanamento finanziario. La "verifica" è stata fissata in contemporanea alla legge finanziaria. Mentre il Prc attende (con trepidazione esistenzialistica) il "momento della verità" e i DS il momento di dimostrare che la loro presenza nel governo è veramente utile per i lavoratori, il duo Prodi-Ciampi non attende niente e nessuno e la "fase due" l’ha concretamente avviata, inanellando fatti e dichiarazioni che hanno confermato in pieno la direzione anti-proletaria del governo.

Il segnale più chiaro è venuto proprio sull’occupazione. Il governo ha ribadito con forza la priorità del bilancio: niente assunzioni nel pubblico impiego, né allargamento della borsa per l’occupazione al Sud. La "lotta alla disoccupazione" per Prodi consiste nel massimo di flessibilità e precarietà della forza-lavoro e nell’estensione delle agevolazioni alle imprese. E poiché disoccupati e precari si sono ostinati, invece, a lottare per un lavoro non de-regolamentato, la polizia di Prodi gli ha riproposto la musica governativa a suon di botte e arresti. Stessa musica, al suon di manganellate, per i lavoratori che manifestavano a difesa del posto di lavoro, della Belleli a Roma e della Postal Market a Milano. Serie di atti inequivoci contro la classe operaia di un governo impegnato a stendere ai piedi del padronato un tappeto dorato su cui far marciare accumulazione e profitti.

Il volto di classe ferocemente antiproletario il governo l’ha mostrato, poi, fino in fondo scagliandosi contro gli immigrati. La polizia del governo "amico dei lavoratori" ha aperto ripetutamente il fuoco contro la protesta degli immigrati ammassati nei lager di stato. L’ingresso nell’euro significa anche questo: l’Italia deve carognescamente far rispettare le clausole di Schengen.

Per ultimo, ma non meno importante, il governo, dopo aver plaudito (a posteriori) alla conclusione "pacifica" dell’ultimo "braccio di ferro" Usa-Irak, s’è dichiarato pronto a punire militarmente Saddam, se non avesse rispettato l’accordo, e freme e scalpita per nuove aggressioni oltremare, questa volta nel Kossovo. Ecco il "governo amico"! Ecco la "fase due"!

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Un governo allineato ai diktat dei mercati

La politica del governo Prodi è stata sin dall’inizio di dare continuità all’attacco antiproletario dei governi precedenti. Se n’è distinto per il ritmo meno incalzante e per il coinvolgimento della sinistra ai fini di mantenere un quadro "concertativo" per renderlo più digeribile per i lavoratori. Così ha assicurato al fronte borghese il risultato principale che attendeva: narcotizzare le forze di classe, renderle passive e dimentiche della propria forza e capacità di difesa contro gli attacchi del capitale.

Ora una serie di fattori internazionali e interni spingono il governo ad accelerare nella direzione e nell’indirizzo programmatico antiproletari. Nel precedente che fare spiegavamo perchè l’ingresso nell’Euro fosse anche un’esplicita dichiarazione di guerra contro i lavoratori europei. Nel frattempo, l’effetto boomerang della "crisi asiatica" ha iniziato a far vacillare l’economia dei paesi ricchi e ha reso impellente la necessità di passare dalle dichiarazioni ai fatti. La Confindustria ha richiamato all’ordine classe politica e governo. Dopo l’opposizione sulle 35 ore, il padronato contrattacca e raddoppia il piatto, mettendo in discussione l’accordo del ’93 con la proposta d’abolire i due livelli di contrattazione per assestare un altro serio colpo alla funzione del contratto nazionale. Il governo è chiamato a fare la sua parte per garantire condizioni di massima flessibilità dei salari e della forza-lavoro, fino alla "libertà" di licenziamento, proseguire nel risanamento dei conti pubblici, tagliando le spese di carattere "sociale", per incrementare, invece, il sostegno all’accumulazione e ai profitti.

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Cossiga in azione per scalzare la "sinistra" dal governo…

L’incrudimento dell’attacco impone, però, di fare i conti con le aspettative dei lavoratori sui ritorni della "fase due". E implica, di conseguenza, un congruo chiarimento con i partiti "di sinistra", che, impegnati innanzitutto a convergere sulle necessità dell’Azienda Italia, nondimeno rappresentano quelle aspettative proletarie, che proprio loro hanno canalizzato, passivizzandole, nella malsana fiducia al governo "amico". L’alternativa presentata alla sinistra è netta: deve avanzare velocemente nella riforma del suoi programmi (piegandoli ulteriormente alle logiche del mercato) e dei suoi assetti organizzativi (liberandosi di ogni residuo dell’influenza dei proletari in quanto classe). Oppure, le sarà dato, senza ringranziamenti, un rude "ben servito". Anzi, la pressione per l’ulteriore "modernizzazione" della sinistra viene esercitata direttamente col dispiegamento delle grandi manovre per darle il "ben servito".

L’inizio è stato di Cossiga, è proseguito con il rilancio dell’azione in proprio di Di Pietro, e ha dato i primi frutti con il flop della Bicamerale.

Il fine di Cossiga è dichiarato: dare transitoriamente i propri voti a Prodi in sostituzione di quelli del Prc (come avvenuto per allargare la Nato a Est), rendendo visibile un’"altra" maggioranza; puntare strategicamente a un diverso assetto bipolare, che veda le forze di centro (da FI al Ppi, passando per Dini e Prodi) unificate (anche attraverso il ridimensionamento di AN) e contrapposte alla sinistra. Insomma si tratta sia di cacciare dalla maggioranza parlamentare i "comunisti", sia di cacciare dalle stanze del governo gli ex-"comunisti".

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… Di Pietro segue a ruota…

Quanto alle iniziative dipietresche, non è un caso se il suo movimento referendario sia partito a ridosso delle disavventure della Bicamerale per le riforme istituzionali. Questa commissione doveva riformare la costituzione e lo stato in chiave di centralizzazione delle istituzioni, per ridare efficienza alla macchina statale al servizio dell’accumulazione, garantire stabilità e rapidità all’azione di governo (sottraendole ai veti dei partiti e soprattutto alla contrattazione con la rappresentanza istituzionalizzata della classe lavoratrice). Il risultato della Bicamerale era, poi, necessario per fornire gli strumenti per ricondurre a un progetto nazionale unitario le mille spinte centrifughe e localistiche che attraversano la penisola. I DS e D’Alema assegnavano al positivo esito della commissione un forte valore di sanzione dell’attuale assetto bipolare (e della propria centralità nell’Ulivo). Ma mesi di trattativa hanno prodotto un pateracchio confuso e inservibile che la borghesia ha abbandonato senza rimpianti, inferendo, nel contempo, un duro colpo alle illusioni diessine di essere ormai assurti a fulcro (con il beneplacito dei "poteri forti") di un nuovo assetto politico.

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… ma un vero partito della borghesia non appare all’orizzonte.

Le "grandi manovre" per dare il benservito alla sinistra sono, insomma, in corso, ma mentre è chiaro il loro intento di ulteriore de-strutturazione della sinistra (e, quindi, di quel che rimane di organizzato della classe operaia) non emerge, invece, alcun coerente piano di strutturazione di un partito borghese, con un organico programma di rilancio del capitalismo nazionale, con effettivi che gli diano voce e gambe nella società, in grado di irregimentare la piccola borghesia, di centralizzare le risorse nella competizione internazionale e di affrontare a viso aperto uno scontro con il proletariato. Lo stesso fallimento della Bicamerale ha lasciato sul campo, più urgente che mai, la necessità di riforma dello stato. Tutti i soggetti e le manovre messi in campo sono utili ed efficienti a de-strutturare, nessuno a costruire. Non all’altezza del compito è il "polo di centro" cossighiano, più che altro variegata armata di ben noti faccendieri. Né all’altezza è lo stesso Di Pietro.

Costui ha rilanciato il referendum per l’abolizione della quota proporzionale. All’incapacità della classe politica, Di Pietro risponde sollecitando "dal basso" una mobilitazione di popolo, per imporre le riforme per via referendaria. La sua proposta di ridurre presenza e ruolo dei partiti (per sgombrare il terreno da una specifica rappresentanza politica della classe lavoratrice) offre ai grandi gruppi economici la possibilità di portare al successo, più e meglio, chi li aggrada. Ma contiene il grave inconveniente che l’erosione del collante unitario, comunque espresso dai partiti nazionali, favorisca la tendenza alla frammentazione localistica della politica e delle sue rappresentanze. Salvo che non appaia, appunto, un nuovo partito in grado di rigenerare il collante. Ma la sostanza ultra-reazionaria del disegno dipietresco è segnata, proprio in questo, da un evidente limite: pur facendo leva con successo sull’antipartitismo, chiama in campo un movimento che non c’è. Evidentemente tra i "valori italiani" per i quali si spende Di Pietro non è in auge quello della militanza politica borghese, se l’ex-magistrato, dopo qualche giorno ai banchetti, invita i DS ad appoggiare il referendum e a "evitargli la fatica di raccogliere le firme"…

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La "strana" alleanza Bossi-Cossiga

A questo insieme di manovre se ne è aggiunta, di recente, un’altra: la possibile alleanza Bossi-Cossiga. Se si realizzasse, lo sbaraccamento dell’attuale quadro politico diventerebbe più facile e repentino. Già con la Bicamerale la Lega ha dimostrato la sua dirompente forza guastatrice. Unendosi all’altro guastatore i risultati potrebbero davvero moltiplicarsi. Per l’Udr il vantaggio consiste nel trovarsi a fianco una più nutrita pattuglia parlamentare e, soprattutto, un partito in grado di mobilitare settori reali di massa, e di massa anche proletaria, cosa che consentirebbe di accerchiare la "sinistra" aggredendola dall’alto e dal basso (concorrenza, almeno al nord, sul terreno di chi meglio raccoglie le istanze operaie). Non meno importante sarebbe l’alleanza per la Lega. E’ vero che proponendola Bossi fa un passo indietro nella sua agitazione contro i "poteri forti" che detengono il potere tramite lo stato centralista, ma è, del pari, vero che lo scopo dell’alleanza è di aiutarli a disfarsi della sinistra, del governo Prodi, e dell’attuale assetto bipolare che tiene tuttora in piedi la sempre più precaria unità dello stato italiano. Questo il vero obiettivo bossiano: non una rinuncia all’indipendenza della Padania, ma un riporre provvisoriamente nel cassetto la strada della secessione per tentare una divisione contrattata dello stato. Una Padania nata per questa strada sarebbe diversa da quella promessa da Bossi in un punto: nascerebbe in accordo con i "poteri forti" e non contro di essi. Ma, d’altronde, una Padania contro i "poteri forti" era semplicemente un argomento di propaganda a uso accalappiamento di proletari. La Padania non potrebbe mai fare a meno di quel poco di grande industria ancora esistente al nord e si dovrebbe, prima o poi, accordare con essa, anzi, precisamente, subordinarsi a essa più dello stesso stato italiano. Così come non potrebbe mai ingaggiare una vera lotta contro la finanza internazionale e lo stesso Vaticano. Tanto vale, allora, cominciare, da subito, a costruire le basi dell’accordo.

Se oggi Bossi propone un diverso percorso è anche perché la tensione secessionista sembra scemare intorno alla Lega: l’ingresso nell’euro ha depotenziato uno dei "momenti-grilletto" su cui contava per la secessione; la piccola e media-borghesia del nord pur stanca della pressione dello stato centralista, non si libera della paura di una precipitazione "rivoluzionaria" della situazione. Ma lo scopo dell’indipendenza rimane ai vertici del programma leghista, così come lo strumento-secessione potrà tornare in auge sotto l’eplodere di nuove tempeste. E di tempeste sull’orizzonte finanziario, politico e militare dell’intero pianeta se ne preparano di sempre più minacciose, mentre le ragioni strutturali, economiche, culturali dell’unità italiana continuano a indebolirsi senza sosta, come l’aumento inarrestabile del divario nord/sud testimonia.

In ogni caso se l’alleanza Cossiga-Bossi rende più facile l’emarginazione (e lo scompaginamento) della sinistra, anch’essa non risolve il problema principale di fondare una coerente prospettiva nazional-borghese. D’altro canto anche la Lega non è detto che possa affrontare una fase di accordi e compromessi con consumati intrallazzatori alla Cossiga senza subire mutazioni profonde. Ma un suo ipotetico fallimento non salverebbe l’Italia dai rischi di disgregazione. Alla bisogna nuovi soggetti politici spunterebbero da un terreno già abbondantemente concimato (anche dall’azione leghista) interpretando il loro ruolo per realizzare uno scenario quasi sicuramente più catastrofico della "semplice" spartizione Padania/Italia.

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I DS si riparano … con un’ulteriore svendita delle istanze dei lavoratori.

Il grande capitale italiano ha utilizzato a fondo il contributo che veniva dalla dismissione ulteriore dell’ex-Pds e dalla "desistenza" da ogni lotta e progetto autonomo operaio da parte di Rifondazione. Oggi il fronte borghese inclina a voltare pagina, regolando i conti con il Prc e circoscrivendo il ruolo degli stessi DS, o se è disposto a concedere una proroga del credito è all’unica condizione di un’ulteriore svendita delle istanze della "sinistra" (altro che "svolta riformatrice"!).

I DS hanno accusato il colpo. Già in maggio D’Alema avvertiva: "Compagni, si annuncia tempesta. Vi consiglio di mettere il cappotto". Più in là, quando lo scenario della "fase due" si andava dipanando, ha aggiunto: "Neanche noi possiamo avere un secondo tempo senza riforme dopo gli sforzi del risanamento". Ma, coerentemente con tutto il percorso precedente, i DS ben presto sono corsi ai ripari semplicemente prendendo atto della situazione e accelerando corrispondentemente la propria svendita di ogni residua istanza "di sinistra". "Al contrattacco moderato - è ancora D’Alema che parla- non risponderemo con una sterzata a sinistra dell’asse della maggioranza. Sarebbe come dire ai centristi: prego, accomodatevi". E, quanto ai diktat reiterati dalla Confindustria, il segretario dei DS si è via via dimostrato sempre più allineato: "Meglio negoziare un salario minore per offrire più possibilità di lavoro ai giovani, che perseguire l’intangibilità di una forma astratta del lavoro". Questi nuovi passi indietro non danno la garanzia di soddisfare le brame dei manovratori, che continueranno a richiederne altri, mentre lasciano sempre più senza cappotto i proletari, denudati di fronte all’attacco del capitale proprio da questa criminale politica.

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Il PRC verso il naufragio.

A proteggerli non servono, certo, i veli offerti da Rifondazione, dove si sta rinnovando, in condizioni ben peggiori, la lacerazione già messa in scena lo scorso autunno. Al momento in cui scriviamo non sappiamo se vincerà il "realismo" cossuttiano, per il quale qualsiasi petizione di svolta va commisurata alla necessità di tenere in vita "il migliore possibile" dei governi, oppure se alla verve bertinottiana sarà concesso qualche contentino per poter rivendicare "anche il più piccolo passo in avanti" in direzione della "svolta". Una cosa è certa: quand’anche ci fosse la spaccatura tra "governisti" e "anti-governisti" o una decisa e cumulativa pedata da parte degli alleati di centro, il Prc (o quel che ne resterebbe), dopo anni di desistenza e di disorganizzazione delle forze di classe, non sarebbe in grado di esprimere, quand’anche "all’opposizione", alcuna credibile prospettiva per il proletariato.

Per reinvertire la rotta occorrerebbe prendere atto dell’inconciliabilità d’ogni aspirazione operaia con gli interessi del capitale, rinunciare al vuoto parlamentarismo e smascherare il ruolo di classe del governo Prodi e degli alleati di centro. E soprattutto puntare sulla riorganizzazione della lotta operaia, dando a essa una vera prospettiva. Tutto questo Rifondazione non può farlo perché anche il suo orizzonte è inseparabilmente compreso entro il soffitto delle compatibilità del capitale nazionale. La dissoluzione organizzativa, la dismissione anche verbale d’ogni seria critica di classe (v. riquadro), sono il portato inevitabile dell’impotenza di chi pretende di riverniciare con colori popolari un capitale che nessuno spazio può concedere ai riformatori, anche i meno esigenti.

La deriva della "sinistra" non è senza conseguenze per il proletariato. Le dosi di narcotico iniettategli con la partecipazione al governo di DS e Prc hanno prodotto da un lato un’ulteriore diffusione nelle coscienze proletarie delle ragioni del capitale, del risanamento finanziario, del mercato, con il corrispettivo indebolimento di quella stessa coscienza di classe per il capitale, unica che il riformismo possa produrre. Dall’altro, nei settori che si sono sentiti delusi, s’è affermato un distacco dalle organizzazioni tradizionali politiche e sindacali, unito, però, a una sfiducia nelle proprie forze. Per ultimo, settori di classe operaia hanno cominciato a riporre le loro attese nella Lega. La borghesia può, insomma, essere soddisfatta del lavoro fin qui svolto: dinanzi a sé si erge solo il pallido ricordo di quella classe che nei decenni addietro, pur senza farla tremare mettendo a rischio reale il suo sistema produttivo, l’aveva, però, fatta penare spesso, costringendola a concessioni sui piani più disparati. Ma questa soddisfazione non ha un gran futuro. Gli strumenti e i programmi di una fase di conflitto di classe si vanno disperdendo assieme ai fondamenti strutturali di quel conflitto, ma l’azione del capitale getta già nuova legna nel fuoco mai sopito dello scontro di classe, e impone un conflitto dalle caratteristiche nuove, in cui gli spazi di compromesso scompaiono lasciando, per ciò stesso, il terreno a uno scontro dagli esiti radicali.

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Ricostruire l’organizzazione di classe

Ricostruire l’organizzazione di classe, sul piano sindacale e politico, è, dunque, un’esigenza con cui il proletariato deve già fare i conti. Può farlo solo se ricostruisce anche i suoi programmi, fondandoli non più sulla ricerca del compromesso con l’avversario o della riforma del capitalismo, ma sulla base dei suoi esclusivi interessi di classe, e, quindi, di una lotta a tutto campo contro il capitalismo.

Ricostruzione dell’organizzazione e rinnovamento dei programmi sono tutt’uno con la lotta immediata. Sono necessità che si pongono fin da subito, a partire da come si affronta la diffusione della flessibilità e l’attacco ai contratti nazionali.

La battaglia contro l’attacco del padronato si deve condurre rifiutando nuove picconate alle regole contrattuali frutto delle lotte dei decenni passati. Questa lotta si può dare, però, all’unica condizione di condurre una lotta analoga, sugli stessi obiettivi, contro la politica governativa, perché non avrebbe alcun senso conservare una griglia normativa per una qualche categoria, mentre dappertutto si diffonde la piena libertà per il padronato di sfruttare la forza-lavoro. E’ per questo semplice motivo che la lotta operaia deve saldarsi a quella dei disoccupati, contrastando l’azione del governo di scagliare gli uni contro gli altri.

Per lo stesso identico motivo la lotta deve estendersi anche a favore degli immigrati, per ottenere anche per loro il pieno rispetto di tutte le normative sindacali. Anche questa lotta non si può dare senza opporsi fino in fondo alla politica governativa in tema di immigrazione sotto tutti gli aspetti. Sia sotto l’aspetto che anche questo governo fa il possibile per conservare gli immigrati in una condizione di permanente ricatto, al fine di costringerli alle più penose condizioni di lavoro, sia sotto l’aspetto della politica internazionale: per liberare i popoli del terzo mondo dalla necessità di un "lavoro a tutti i costi" per sopravvivere, bisogna bloccare la politica di rapina dell’imperialismo occidentale, di depredamento delle risorse naturali e umane dei paesi oppressi. Politica cui il governo Prodi dà il suo fattivo contributo negli organismi internazionali e nelle alleanze militari cui partecipa e, con l’azione in proprio, dovunque riesce ad arrivare.

Alla deriva politica e organizzativa della "sinistra" il proletariato non può rispondere con l’indifferenza, perché ne pagherà lui stesso i costi maggiori, ma deve rispondere ritrovando tutte le sue vere ragioni di classe per affrontare un’offensiva capitalistica che non gli concede tregua. Potrà farlo non cercando di far risorgere quella sinistra e i suoi programmi, ma facendo, a sua volta, i conti con essa nel vivo di una battaglia sindacale e politica che non potrà mai sospendere.

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