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IL PROLETARIATO EX-JUGOSLAVO
E IL BISOGNO DELL’UNITÀ INTERNAZIONALE DI CLASSE

L’11 e il 12 giugno la Fiom ha organizzato a Venezia un incontro con i sindacati metalmeccanici di tutti i paesi nati dalla disgregazione della Jugoslavia (nonché del Kosovo) per un convegno sul tema "La Pace al lavoro". Ne ha riferito il manifesto del 13 e 17 dello stesso mese, da cui riprendiamo gli stralci virgolettati.
Lo scopo era di discutere del ruolo del sindacato nella transizione dalla proprietà statale a quella privata, ma inevitabilmente la discussione si è concentrata sui problemi drammatici che hanno dinanzi i lavoratori di quei paesi e ha fatto emergere elementi molto interessanti da un punto di vista di classe.

Innanzi tutto sul tema della guerra. La condanna di essa è stata meno general-generica del solito persino da parte dei sindacalisti nostrani, con Sabattini che si è sbilanciato a dichiarare che "gli atteggiamenti nazionalistici non hanno fatto mai bene al movimento operaio", dimenticando allegramente -ed evitando di rinnegare- quanto nazionalistica sia la politica del suo sindacato, sempre disponibile a subordinare gli interessi operai a quelli delle patrie imprese. I sindacalisti dell’ex-Jugoslavia sono andati ben oltre nel denunciare la guerra come uno strumento di penetrazione del capitalismo globalizzato che distrugge i diritti sindacali e precipita i lavoratori in condizioni in cui è possibile sottoporli a ogni ricatto.

Ancor più indicativa è la risposta alla domanda: il lavoro unisce o divide? Riportiamo quanto scrive il manifesto: "La risposta è comune: unisce, se i lavoratori sono organizzati e riescono a controllare il lavoro, se i loro sindacati si internazionalizzano come sta facendo il capitale e si rendono autonomi dai padroni, dai governi e dai partiti. Altrimenti, se il processo di globalizzazione viene subìto passivamente, il lavoro si trasforma in uno straordinario strumento di divisione: tra chi ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi ha più diritti, chi ne ha meno e chi non ne ha. Il capitale è mobile, parla ovunque la stessa lingua senza problemi etnici, viaggia senza lacci e approda nei lidi più favorevoli, dove ci sono mercati da occupare o forza lavoro da comprare al prezzo più basso. Senza controllo, senza regole e senza conflitto sindacale che tuteli la condizione operaia e i diritti di tutti, ogni territorio vergine conquistato verrà utilizzato contro gli altri territori".

Da questa constatazione imposta dall’esperienza dei pochi anni trascorsi dalla disgregazione della Jugoslavia nasce l’appello: "Dobbiamo parlare e batterci per gli interessi dei lavoratori, a prescindere dalle appartenenze etniche e dagli schieramenti politici". (Questo punto dell’appello è stato rifiutato soltanto dal rappresentante kosovaro, che ha, peraltro, cercato di promuovere un pronunciamento contro "la guerra dei serbi contro il Kosovo", ottenendosi la risposta di un sindacalista serbo "indipendente": "Dobbiamo unirci contro due regimi guerrafondai".)

L’unità di lotta dei lavoratori è, insomma, una necessità primaria, e per ottenerla si deve sgombrare il terreno dagli odi etnici sedimentati dalle borghesie locali e internazionali. Essa, però, da sola non è sufficiente a contrastare efficacemente la devastazione sociale e politica prodotta dalla globalizzazione del capitale. Bisogna che i sindacati s’internazionalizzino, che s’internazionalizzi la lotta: "Parlare di solidarietà internazionale tra sindacati e movimento operaio di paesi diversi rischia di restare soltanto una bella parola d’ordine, se non s’interviene nel processo di deregulation che, a livelli diversi, coinvolge tutti e provoca dumping sociale". Non all’occidente il proletariato ex-jugoslavo deve chiedere aiuto, "questo -dice un sindacalista bosniaco- l’abbiamo già fatto per far funzionare le fabbriche, ma non l’abbiamo ottenuto. In compenso ora viviamo sotto protettorato e le leggi, anche quelle del lavoro, vengono emanate dall’Alto commissario". E’ dal proletariato occidentale che deve arrivare l’aiuto. Un sindacalista serbo: "Mi aspetto un aiuto dai sindacati italiani e dal Fism (Federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici, n.). Se non arriverà, alla fine ci saranno solo macerie in Serbia e una classe operaia che era forte e qualificata si svenderà all’estero per quattro soldi. E’ questo che si vuole, salvo poi prendersela con gli immigrati senza diritti che portano via il lavoro ai vostri operai?".

Sul piano dell’analisi e su quello delle necessità tutto è al proprio posto. Altro conto è che dei bonzi occidentali, legati a filo doppio alle sorti del "proprio" capitalismo nazionale, e degli aspiranti, destinati a rimanere tali, bonzi dell’ex-Jugoslavia possano dare coerente applicazione alle premesse di cui sopra. Quel che conta davvero è che una massa crescente di lavoratori jugoslavi dipende sempre più direttamente dalla circolazione internazionale del capitale, sia in loco sia in Italia come supersfruttati, il che vuol dire che, a loro volta, i lavoratori italiani dipendono dalla "concorrenza" di questa manodopera a buon mercato e senza frontiere. E’ questa realtà a dettare la consapevolezza che tutti siamo unitariamente coinvolti e perciò dobbiamo unitariamente organizzarci.

Il movimento reale su cui il comunismo fonda il suo programma di partito s’avanza prepotentemente. L’internazionalizzazione delle lotte e dell’organizzazione proletaria non sono più una petizione, ma un passaggio concreto che parti crescenti del proletariato sono spinte a intraprendere anche solo per affrontare una seria lotta di difesa dei propri interessi immediati.

Con pari efficacia il "movimento reale" si incarica di dimostrare come sia inutilizzabile tutto l’armamentario che il proletariato aveva messo in campo in una fase che, oggi, si va completamente chiudendo, e senza alcuna possibilità di resurrezione. Il proletariato jugoslavo è costretto a rimettersi in movimento in uno scenario per lui completamente inedito e sconosciuto, per affrontare il quale non gli sono di alcun’utilità né le vecchie strutture, né i vecchi programmi. I nuovi capi sindacali "rappresentano" (a loro modo e con le loro "inclinazioni") questa realtà sindacale e politica radicalmente nuova, che non può darsi come prosecuzione della vecchia esperienza, non solo perché già fallita, ma soprattutto perché sono mutati gli stessi rapporti generali tra le classi che l’avevano permessa.

Così come il "movimento reale" insegna al proletariato ex-jugoslavo l’inutilità del bagaglio politico con cui ha affrontato i decenni dal dopoguerra all’89, allo stesso modo si sta incaricando di dimostrare a quello occidentale l’inutilità del suo bagaglio riformista, l’illusorietà di ogni speranza di poter convivere con il capitalismo, di poterlo costringere a un sopportabile compromesso.

Quella che s’annuncia è una guerra a tutto campo, cui il proletariato, per non soccombere, dovrà arrivare con il massimo d’organizzazione e d’indipendenza di classe del suo programma. La "spontaneità" del "movimento reale" sta già lavorando a porre tutte le condizioni perché ciò avvenga. Potranno essere messe a frutto solo se i comunisti svolgeranno nel miglior modo possibile il loro lavoro di battaglia teorica, politica e organizzativa.

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