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LE LOTTE DEI DISOCCUPATI
E L’INTERVENTO DEI RIVOLUZIONARI

Indice

Disoccupati e precari meridionali, e quelli napoletani in particolare, hanno recentemente conquistato le prime pagine dei giornali e dei TG. Il gran parlare delle loro lotte non ha però favorito tra i proletari, soprattutto del Nord, la comprensione di cosa sta veramente accadendo (anzi!). Cerchiamo qui di fornire qualche elemento "dall’interno" del movimento, indicando realisticamente luci e ombre di queste lotte, ma anche come la nostra organizzazione vi si rapporta. Si tratta di un "concreto" banco di prova per testare l’attitudine dei rivoluzionari a sapersi "sporcare" le mani anche in situazioni "complicate" (come sempre, in fondo, saranno), senza usare le difficoltà -specifiche e di "fase"- quale alibi per sottrarsi ai propri compiti politici, limitandosi, magari, a un intervento solamente ideologico ed esterno, in attesa che le masse "capiscano" e si presentino "pure" a bussare alla porta dei rivoluzionari. Ma anche senza lasciarsi prendere la mano dalle "situazioni contingenti"; evitando di illudersi sulle "scorciatoie" per conquistare il movimento proletario alla prospettiva rivoluzionaria, ma che inevitabilmente portano i rivoluzionari a essere conquistati dalla prospettiva immediatista e antirivoluzionaria del "minimo sforzo".

Va subito detto che il risalto dato dai media è stato assolutamente sproporzionato rispetto alla realtà. Il movimento di piazza, infatti, ha riguardato sostanzialmente solo Napoli, con qualche spunto significativo a Palermo e Roma, dove però si trattava essenzialmente di proletari inseriti in progetti di Lavori Socialmente Utili o Lavori di Pubblica Utilità. Se si considera che in tutto sono 160 mila (concentrati prevalentemente al Sud), si può vedere come solo una quota molto limitata s’è messa in movimento, mentre la stragrande maggioranza resta legata alle confederazioni sindacali, le quali si guardano bene dall’organizzarli, mobilitarli e unificarli, e mantengono un rapporto di pura delega e promesse più o meno clientelari con cui tenerli sotto controllo e ben separati tra loro. Solo in alcune occasioni (scadenze di progetti e finanziamenti, pressioni sul governo per "interventi a favore dell’occupazione"), essi sono chiamati massicciamente in piazza.

Una vera organizzazione e mobilitazione dei disoccupati esistono solo nell’area napoletana e, seppur numerosa nelle varie articolazioni, è ben lungi dal coinvolgere la maggioranza dei senza lavoro presenti sul territorio.

L’amplificazione data alle mobilitazioni napoletane e il "dibattito" sull’emergenza lavoro che ne è seguito è alquanto interessata e ha tre obiettivi fondamentali solo in apparenza contraddittori: a) battere la grancassa a sostegno dell’introduzione di misure per una definitiva deregolamentazione del mercato del lavoro e del completamento dell’attacco alle residue rigidità proletarie; b) impedire la generalizzazione di queste esperienze e la saldatura con altre lotte proletarie, presentandole come lotte di aspiranti parassiti, o, addirittura, manovali della delinquenza organizzata; c) determinare un clima favorevole alla repressione.

La campagna ha avuto un discreto successo per le intrinseche debolezze del movimento, che rimandano alle difficoltà attraversate dalla classe operaia nel suo complesso, al loro inevitabile peso sulle caratteristiche del movimento e quindi al relativo isolamento in cui si muovono le lotte.

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La nascita di un nuovo movimento di lotta…

Come organizzazione, pur consapevoli delle difficoltà e dei limiti necessariamente presenti, di fronte a una spinta reale per una ripresa dell’organizzazione e della mobilitazione dei disoccupati, non abbiamo avuto esitazioni ad appoggiare le lotte ed esserne parte attiva con un intervento tanto esterno quanto interno al movimento. Nostri compagni sono stati presenti fin dalla fase costitutiva di un significativo pezzo del movimento concretizzatosi nel Coordinamento di Lotta per il Lavoro. Con il supporto di alcune avanguardie proletarie che avevano già partecipato all’esperienza del Comitato contro le Compatibilità, si è cercato da subito di dare un’impronta generale e unitaria alla nuova organizzazione.

Il Coordinamento sorgeva non solo, quindi, come espressione di disoccupati "puri", ma quale contenitore di varie figure del proletariato precario nel tentativo di andare in direzione di un movimento unico con una composizione tale da rendere più agevole la battaglia per superare in avanti le spinte particolaristiche che "spontaneamente" tendono ad affermarsi anche nelle file dei disoccupati.

Il Coordinamento si è rifiutato di mettere un tetto alle iscrizioni, per evitare il rischio di trasformarsi in una delle tante "liste" (con corollario di registrare la presenza alle scadenze pena l’espulsione), e di costituirsi in cooperativa, ma è partito con un lavoro di agitazione sul territorio che puntava all’estensione del movimento. In pochi mesi si sono costituite altre quattro sedi del movimento in città e nelle periferie più degradate. In breve tempo per la sua impostazione il Coordinamento di lotta per il lavoro diventava una delle realtà più significative e visibili in città, anche se la vertiginosa crescita avveniva in maniera squilibrata, coinvolgendo prevalentemente disoccupati, con scarso impatto tra gli LSU e altri precari, sui quali forte rimane il controllo sindacale anche a Napoli (a parte il caso degli ex-corsisti del vecchio movimento disoccupati di "Banchi Nuovi", entrati appunto a far parte degli LSU).

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… e i tentativi di estenderlo.

Insieme alla battaglia per dare un carattere generale e aperto, abbiamo insistito affinché il nascente movimento non vedesse le tendenze di precari e senza lavoro già esistenti come dei pericolosi concorrenti ma dei fratelli di classe in lotta per le stesse ragioni e, quindi, come una potenziale risorsa per rafforzare ed estendere la lotta.

Su nostra sollecitazione il movimento promuoveva la ricerca di un percorso unitario con gli altri spezzoni organizzati. All’appello rispondevano gli ex-corsisti (ora LSU di Napoli e Acerra), i rappresentanti dei 700 precari (da 11 anni!) del comune, il movimento dei lavoratori in mobilità, alcuni studenti e giovani legati ai Centri Sociali. Si dava, così, a un Coordinamento unitario contro la precarietà e la disoccupazione.

Le resistenze incontrate nel dare una caratteristica di "vero movimento unitario" fondato su un’unica piattaforma rivendicativa generale sono state maggiori poiché si trattava spesso di esperienze residuali, che in maniera più o meno esplicita si erano trasformate in liste di lotta chiuse su se stesse. Anche se, a parole, tutti concordavano sulla necessità della strada da noi indicata, nei fatti il Coordinamento era inteso come un organismo tecnico che di volta in volta stabiliva le mobilitazioni, soprattutto sulla base delle esigenze vertenziali dei vari pezzi del movimento. Una sorta di "agenzia di mutuo soccorso" per rafforzare le singole vertenze e avere a tal fine maggiore forza di pressione.

Questo era un innegabile passo avanti sul piano del coordinamento delle lotte, ma rischiava di diventare un ostacolo per un reale movimento unitario e per la sua estensione. Purtroppo le esperienze di lotte proletarie, e dei disoccupati in particolare, hanno dimostrato che le rivendicazioni particolaristiche, le vertenze specifiche, non sono un di più che arricchisce e rafforza il movimento, ma rappresentano la materiale negazione di un percorso generale, cristallizzano le forze, le mettono in competizione tra loro, nonché alla mercé delle forze politiche istituzionali. Concretamente: il tipo di propaganda, le scadenze e le modalità delle lotte, gli obiettivi da porre, tutto è influenzato dal prevalere dell’una o dell’altra opzione, e non è possibile percorrerle insieme perché esse non sono complementari, ma alternative tra loro.

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Le resistenze contro la tendenza di classe

Questo abbiamo tenacemente affermato, sollevando continue discussioni e proposte per rafforzare la tendenza generale (rivolgendosi agli altri settori del proletariato, in primis alla classe operaia) e unitaria (ben oltre gli attuali organizzati e la città di Napoli). Essendo il Coordinamento composto prevalentemente dai "dirigenti" dei vari movimenti, le resistenze ne risultavano amplificate. Le nostre proposte di assemblee di massa unitarie, per un confronto alla base sulle diverse ipotesi venivano contrastate con una logica, ben rappresentata da alcuni elementi del CARC napoletano, che non solo cercava di dare una dignità (si fa per dire…) politica e teorica alle istanze più arretrate e conservatrici nelle file degli ex-corsisti ora LSU, ma ricorreva ad argomenti qualunquisti come la critica all’OCI di voler "mettere il cappello" al movimento, imponendo le sue ricette "astratte" e "velleitarie", che attentavano all’autonomia dei singoli pezzi e alla pratica delle vertenze specifiche, unica via "concreta" e "realistica" di lotta alla disoccupazione.

Per questi rivoluzionari da operetta, "astratta" è la necessità di un movimento generale con piattaforma unica, "velleitaria" è la rivendicazione del salario garantito, il rifiuto della precarietà etc..

Che il disoccupato doc trovi più credibile e realistica la rivendicazione per sé e per la sua lista, accettando qualunque soluzione, dalla società mista alla più completa flessibilità e precarietà, questo è comprensibile, ma che dei presunti comunisti facciano demagogia assecondando tali spinte è vergognoso, soprattutto perché oggi "concretamente" padroni e governo, anche attraverso il disperato bisogno di lavoro di LSU e disoccupati, intendono far passare un’ulteriore aggravamento della precarietà e della flessibilità da utilizzare contro quel tanto di garanzie ancora conservate dalla classe operaia.

Non casualmente costoro si trovano a svolgere la loro campagna contro di noi e contro una linea di classe nel movimento, a braccetto con Rifondazione, che, dopo essere stata lungamente alla finestra, ha deciso di "investire" alcuni suoi militanti nel movimento per farne un supporto alla sua politica istituzionale sul lavoro e per curare da vicino un potenziale bacino elettorale. L’unica distinzione percepibile tra rifondaroli e carchisti è data dall’insistenza di questi ultimi a trasformare perennemente la lotta dei disoccupati in una "questione di ordine pubblico", non importa su quali obiettivi e con quali conseguenze sullo sviluppo e la tenuta del movimento negli attuali rapporti di forza.

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Per una lotta generale e fronteunitaria

Anche su quest’aspetto, senza mai rinunciare a forme di mobilitazione militanti e combattive, abbiamo posto il problema del rischio d’isolamento delle lotte dei disoccupati rispetto al resto del proletariato. Problema che può essere affrontato seriamente con un’adeguata azione di propaganda sulle ragioni e gli obiettivi della lotta, ma soprattutto evitando di prestare il fianco alle critiche interessate della stampa borghese che presenta il movimento indistintamente come corporativo (lottano per sé, a discapito di altri disoccupati) e come approfittatori (vogliono "il posto", non un lavoro). In particolare in una situazione come la napoletana dove lavoro nero e precario sono una quota decisiva dell’occupazione, la lotta contro la disoccupazione deve necessariamente accompagnarsi a una battaglia contro la diffusione di flessibilità e precarietà, se si vuole farla percepire come una cosa che riguarda direttamente gli operai occupati, che essi hanno interesse a sostenere e far propria, invece di guardarla con sospetto e diffidenza come gli suggeriscono stampa borghese, partiti istituzionali e sindacati confederali.

Da qui la nostra insistenza per mettere il rifiuto della precarietà al centro della battaglia del movimento, e, insieme al salario garantito, la rivendicazione di lavoro stabile difeso dai contratti nazionali di categoria e della drastica riduzione dell’orario di lavoro.

Un altro motivo della centralità di tali obiettivi è la presenza delle tante liste sponsorizzate dalla destra ufficiale e "sociale", ma anche da forze di governo (come Dini o Di Pietro!). Con obiettivi limitati o "realistici", tali liste risultano molto più credibili, avendo "santi" nelle istituzioni e soprattutto perché, con la disponibilità a sintonizzarsi con le esigenze del mercato si offrono direttamente quali soggetti disponibili per i progetti del "nuovo" lavoro proposti dal governo e dal capitale. La politica delle tante vertenze non è per niente alternativa a quella di queste liste, ma è solo elemento di ulteriore concorrenza e divisione con la base di questi movimenti che, salvo rare eccezioni, è composta da figure sociali simili a quelle del Coordinamento contro la precarietà. Rispetto a loro è necessario un atteggiamento fronteunitario che miri a staccarli dagli attuali padrini politici e dai corrotti dirigenti per rafforzare ed estendere il movimento su posizioni classiste.

In più occasioni il Coordinamento di lotta per il lavoro, su nostra sollecitazione, ha indirizzato inviti all’unità con questi precari e disoccupati attaccando nel contempo le illusioni di cui erano preda. Il risultato migliore si è ottenuto quando, a seguito di una feroce carica e arresti subiti da una di queste liste, il movimento ha preso una posizione di incondizionata solidarietà, promuovendo manifestazioni unitarie di protesta contro le cariche e per la liberazione degli arrestati. Preoccupati dalle spinte unitarie che iniziavano a manifestarsi, i dirigenti di queste liste, dopo pochi giorni, hanno promosso una vera e propria aggressione di piazza con il supporto di mazzieri fascisti, per riattizzare le divisioni e la contrapposizione. Il "paradosso" è che, nell’occasione, proprio alcuni dei "feroci antifascisti" del CARC hanno promosso un "accordo al vertice" con gli squallidi capetti di queste liste per "fare la pace", provocando diffuso malcontento e ostilità tra i disoccupati che erano stati vittime dell’aggressione.

Problema analogo si è posto nei confronti di quell’enorme massa di LSU legata alle confederazioni. Nonostante le difficoltà materiali per contattarli, per la dispersione dei luoghi in cui lavorano, si è cercato di sfruttare tutte le occasioni per sollecitare un processo di organizzazione e mobilitazione, soprattutto, nelle poche occasioni in cui il sindacato li chiamava in piazza. Le difficoltà sono state enormi in quanto il sindacato fa di tutto per conservare e rafforzare la separazione (come dimostra la sostanziale accettazione del decreto Prodi, v. scheda), ma anche perché nelle file del movimento tali difficoltà finivano per diventare un alibi per giustificare la scarsa volontà di ricercare l’unità con loro. Il maggior contributo a ciò l’hanno dato i vari sindacati alternativi (Cobas, Flmu, Rdb) che, avendo qualche piccolo settore di LSU organizzato in proprio, si sono sempre opposti a cercare le occasioni di mobilitazione unitaria.

L’episodio più clamoroso è stato in occasione della manifestazione nazionale sull’occupazione indetta a Roma il 20 giugno dai confederali. Le sigle sindacali "alternative" indicevano per lo stesso giorno una manifestazione nazionale a Napoli. Abbiamo fatto tutti i tentativi affinché questa fosse spostata ad altra data, spiegando le ragioni per cui era importante che il movimento fosse presente a Roma con le proprie autonome posizioni, ma tutte le altre sigle di movimento e sindacali sono state contrarie, o, al massimo, agnostiche.

Il Coordinamento di lotta per il lavoro decideva di partecipare a entrambe le manifestazioni e una sua delegazione a Roma spiegava, con striscione e un volantino, le ragioni della sua presenza e gli obiettivi del movimento. Ovviamente l’impatto di una piccola delegazione è risultato modesto, e si è persa un’ottima occasione per lanciare un segnale verso gli altri precari e proletari anche del Nord lì presenti, che hanno un’immagine distorta delle lotte napoletane, per la disinformazione della stampa e dello stesso sindacato. Inutile dire che l’occasione ha rappresentato il pretesto per altri attacchi tanto velenosi quanto impotenti nei confronti della nostra organizzazione, accusata stavolta di farsi portavoce di una linea "filosindacale", proprio da parte di chi, come buona parte del sindacalismo formalmente, organizzativamente, alternativo, condivide con il sindacalismo confederale tanto aborrito la logica delle compatibilità.

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Gli ostacoli all’unità di classe

Che i sindacati confederali temano invece una corretta attitudine fronteunitaria si era potuto constatare già allo sciopero generale campano del 20 marzo, dove buona parte del movimento era stata presente (autoesclusi solo i sindacati "alternativi"). Con il supporto della polizia, chiamata praticamente a svolgere il servizio d’ordine interno al corteo, si è cercato in tutti i modi di impedire la partecipazione dei senza lavoro (a una manifestazione contro la disoccupazione!), o di relegarli, ben staccati, alla coda del corteo. Con un buon lavoro di agitazione e di contro-informazione verso gli altri settori proletari presenti si è riusciti a impedire la manovra puntando anche sulla sorpresa e il malcontento dei manifestanti nel vedere, nel mezzo del corteo, centinaia di celerini cercare di impedire il "contatto" dei lavoratori con i disoccupati (presenti tra l’altro con divertenti coreografie contro il futuro di precarietà riservato dai padroni e dagli stessi programmi sindacali ai lavoratori).

Il Coordinamento di lotta per il lavoro ha cercato di lanciare segnali in tutte le direzioni, dalle fabbriche, in lotta o meno, allo stesso sindacalismo alternativo, per estendere e generalizzare la lotta contro la precarietà e la disoccupazione. In occasione delle mobilitazioni degli LSU palermitani furono spediti vari fax di solidarietà e di richieste d’incontro, per il tramite delle Rdb, che si sono guardate bene dal favorire il contatto. Nonostante ciò, alla manifestazione a Roma sotto il Ministero del Lavoro del 24 aprile, specificamente per gli LSU, il Coordinamento partecipò in massa proprio per ricercare stabili contatti e aprire un confronto sulla necessità di un movimento unitario, riscuotendo nella base discreta disponibilità. Ma i vertici di queste organizzazioni, interessati solo alle tessere, non meno dei confederali, hanno sempre nicchiato. Anche loro non vanno oltre una sommatoria di vertenze locali, spingendosi, al più, per quanto riguarda rivendicazioni a carattere generale -che hanno la pura funzione di fiore all’occhiello- alla richiesta di assumere gli LSU nel pubblico impiego (senza nemmeno specificare a quali condizioni e cosa ne sarebbe degli altri precari) e a quella del "reddito minimo garantito" (anche qui senza chiarirne l’entità e quanto, e in cosa, si differenzi dalle proposte del governo).

Come si vede, alle difficoltà oggettive sul terreno di una pratica unitaria e classista della lotta dei precari e dei disoccupati, si sovrappongono quelle soggettive messe in atto da governo, istituzioni locali, partiti e sindacati istituzionali, che, attraverso l’uso accorto da un lato della repressione e dall’altro delle promesse verso i singoli pezzi di movimento cercano in tutti i modi di contrastare la formazione di un movimento unitario. Ma anche le varie tendenze politico-sindacali "alternative" danno il loro decisivo apporto oscillando tra attitudini avventuriste e/o settarie ma al fondo tutte profondamente riformiste e moderate, permeate come sono, al di là della fraseologia "radicale", della logica del "possibile", cioè del "compatibile" con le esigenze del capitale.

In queste condizioni ha quasi del miracoloso che nel Coordinamento di lotta per il lavoro continui a prevalere, pur tra non poche difficoltà, la tendenza classista da noi sostenuta. Se l’insieme del proletariato non riprende una strada di riscossa delle sue ragioni e organizzazione di classe, è prevedibile che la stanchezza, la sfiducia in una tendenza generale e classista finiranno per prevalere, lasciando, magari, il campo a un ritorno del "vertenzialismo particolaristico". Eventualità alla quale come organizzazione ci stiamo preparando, chiarendo a noi stessi e ai disoccupati che, pur rimanendo parte del movimento non potremmo, come militanti comunisti, più assumerci i compiti di direzione e di responsabilità avuti sinora.

Nel frattempo come sezione cerchiamo di dare un supporto alla battaglia condotta dall’interno dai nostri compagni, ma soprattutto di svolgere un lavoro di orientamento politico sulle questioni più generali: dalla denuncia di ruolo e funzioni delle istituzioni borghesi, alla necessità dell’unità delle forze di classe disoccupate e occupate, al rapporto tra le varie classi sociali, dal ruolo imperialistico dello stato e del capitalismo italiano, alla necessità per i proletari di separare le proprie sorti da loro e dare un orizzonte internazionalista alle proprie lotte come condizione imposta dalle dimensioni e dalla posta in gioco nello scontro tra capitale e socialismo.

Lavoro che ha dato qualche frutto se un piccolo nucleo di precari e disoccupati ha sentito il bisogno di un confronto più ravvicinato con l’organizzazione per affrontare appunto le questioni che vanno al di la dello scontro immediato e quotidiano in cui sono coinvolti.

 

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Un esempio di (dis)informazione di classe

In questi mesi, oltre alla repressione "ordinaria", con arresti cariche e pestaggi polizieschi accompagnati dalla pioggia di denunce contro compagni e proletari dei movimenti di lotta, si è dispiegata un’odiosa campagna di calunnie e provocazioni. Un’escalation di articoli sui giornali, dichiarazioni di politici, sindacati, "esperti" (…meglio se "sessantottini") e persino di monsignori pratici della "questione sociale" (a proposito, il caso del cardinalone colto con le mani nel sacco della speculazione finanziaria -non importa se usuraia o meno per il codice borghese che, in materia, distingue con il cesello per non dover ammettere che sono la stessa cosa- mostra a quale livello di inestricabile connessione sono giunti chiesa e capitale, e a quale livello di... genuflessione nei confronti della prima sia giunta la "sinistra" pur di difendere il secondo). Tutti a rappresentare la lotta e i movimenti alla stregua di anacronistiche jaqueries o di fatti criminali degni della peggior cronaca nera.

Le danze di questa perfida campagna le ha aperte il Corriere delle Sera con un articolo a firma di D’Avanzo, che non tentava nemmeno di spacciare da "inchiesta sul campo" la sua "velina", ma prendeva spunto esplicitamente da un rapporto della Digos napoletana. Nella sua ricostruzione di oltre 15 anni di lotte vengono messi assieme diversi avvenimenti e protagonisti, differenti fasi politiche e cicli del movimento, tentando di accreditare la tesi che la vicenda politica dei disoccupati organizzati è sempre stata ispirata e diretta da capipopolo nostalgici/retrò di Masaniello, da loschi figuri legati a questo o quel centro politico-affaristico o, peggio, da esponenti dei clan camorristici operanti in città, che in questo modo cercano di mettere a carico dello stato (e quindi dei lavoratori) il mantenimento dei propri "guaglioni". Gli attuali LSU e disoccupati in lotta discenderebbero direttamente da quelle esperienze, e, al pari di chi li ha preceduti "pretendono" con la "violenza" e la "prevaricazione" un posto stabile riproponendo una logica di puro assistenzialismo clientelare.

Ma, se qualche lavoratore, avendo osservato le manifestazioni dei disoccupati, sospetta che non si tratti sempre e solo di malavitosi e fascisti più o meno riciclati, il nostro ne ha pronte per tutti i gusti e, guardando alla "sinistra" ma fermandosi al solo movimento degli ex-corsisti, denuncia la stessa logica prevaricatoria e i rischi di "pericolose infiltrazioni" eversive. L’invito all’intervento del ministro dell’interno più che a quello del lavoro è a questo punto sott’inteso. Del resto non ne aveva bisogno poiché sullo stesso giornale il segretario napoletano diessino chiedeva a gran voce "l’intervento dello stato per mettere fine al pericoloso intreccio tra vecchi professionisti del movimento disoccupati e pezzi della criminalità organizzata". Al coro non si è sottratta nemmeno Rifondazione che per bocca del suo capogruppo alla regione dichiarava: "Ci sono degli elementi eversivi nel movimento? Intervengano le forze dell’ordine".

Nello stesso periodo il manifesto pubblicava alcuni articoli-inchiesta sulla geografia del movimento di lotta per il lavoro a Napoli, che non andavano molto lontano dai luoghi comuni riproposti dagli altri giornali borghesi. Tutto l’universo del movimento è ricondotto alle liste di lotta tanto a destra che a sinistra, mentre si tace della battaglia controcorrente condotta del Coordinamento di lotta per il lavoro e si da spazio unicamente ad aspetti di costume, di folklore …o apertamente reazionari. Si trova il tempo e lo spazio per riportare le opinioni dei soggetti più ambigui presenti nelle lotte, alle quali si alterna il controcanto di rappresentanti del sindacato confederale, senza mai riportare il punto di vista dei settori più combattivi e politicamente più avanzati del movimento. Ci si poteva aspettare di meglio da un foglio che è tra i principali sponsor di Bassolino, del sindacato istituzionale e dell’Ulivo in generale?

 

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Il governo Prodi e i lavoratori LSU/LPU

I lavoratori impiegati nei progetti di Lavori Socialmente Utili sono più di 150 mila, prevalentemente nel centro-sud. In maggioranza sono ex-operai espulsi dalle fabbriche negli anni ’80 e ’90, che, una volta terminato il periodo di cassa integrazione guadagni (CIG) e/o di mobilità, sono stati impiegati in varie attività della Pubblica Amministrazione, senza essere integrati negli organici e privi di qualsiasi tutela contrattuale. Col tempo, questo strumento si è esteso anche a proletari con lunga anzianità di disoccupazione, lavoratori tuttora in mobilità o giovani in cerca di prima occupazione.

Con il decreto legge 468 del dicembre ’97 il governo Prodi si prefigge l’obiettivo di liquidare definitivamente l’esperienza degli LSU (giudicata, all’unisono con i padroni e con il vertice del sindacato, una forma di assistenzialismo) e stabilisce le regole per il "ricollocamento" dei lavoratori coinvolti. Cosa prevede in sintesi il decreto?

Gli enti pubblici e locali potranno promuovere una serie di "progetti", tutti a tempo determinato. In particolare, progetti per lavoratori che percepiscono tuttora il trattamento di CIG o di mobilità; progetti formativi con attestato finale per l’accesso alle agenzie di lavoro interinale; progetti di Lavori di Pubblica Utilità (LPU) nei settori di cura e assistenza della persona, dell’ambiente e del recupero degli spazi urbani. Questi ultimi saranno affidati a quelle società miste, cooperative e agenzie del lavoro, che si impegneranno a occupare, per non meno di 60 mesi, almeno il 40% dei lavoratori inizialmente impiegati direttamente dall’ente promotore. Inoltre, il decreto dispone a favore degli LSU la riserva del 30% dei posti messi a concorso nella Pubblica Amministrazione.

Queste "soluzioni occupazionali" sono un’autentica beffa e un inganno per i lavoratori. Infatti, nella P.A. le assunzioni sono bloccate da anni e, con la mobilità territoriale e di settore introdotta da Bassanini, è possibile trasferire personale in enti con carenze di organici. Perché mai fare concorsi?

Inoltre, i vari progetti preparano mere "occasioni" (non posti) di lavoro, non per tutti, a termine e senza alcuna protezione contrattuale. Infatti, per aggiudicarsi i "progetti", le società dovranno essere in grado di offrire il servizio al minor costo possibile, riservando ai lavoratori bassi salari (il salario mensile previsto per tutti gli LSU/LPU è di 800 mila lire, senza contributi pensionistici, nè ferie e permessi pagati) e imponendo orari di lavoro "albanesi" (condizioni in via di generalizzazione come dimostrano le lotte delle lavoratrici delle ditte di pulizia di ministeri ed enti pubblici e dei lavoratori precari del trasporto aereo che hanno scioperato l’8 agosto scorso a Roma e Milano contro l’abuso dei contratti a termine da parte delle aziende aeroportuali).

Con questo decreto il governo punta a eliminare l’aspetto di ammortizzatore sociale e a predisporre strumenti utili ad avviare il processo di privatizzazione di una serie di attività della P.A., introducendo, così, la flessibilità e il precariato anche all’interno del pubblico impiego. Ai lavoratori, invece, si getta un osso con l’obiettivo di mettere disoccupati e precari in concorrenza tra loro, seminando divisione e contrapposizione.

Cgil-Cisl-Uil fanno proprio il criterio del "progetto" (sostitutivo dell’accesso a un vero posto di lavoro), che è alla base del decreto, e si guardano bene dall’organizzare la lotta dei lavoratori contro la politica del governo. Organizzano invece gli LSU/LPU in cooperative, incoraggiando così i lavoratori a mettersi in concorrenza l’uno contro l’altro nella "caccia all’appalto". Molti lavoratori LSU/LPU, di fronte agli effetti del decreto, a questa politica dei vertici confederali e sotto il ricatto della perdita del posto di lavoro alla scadenza del progetto, vengono passivizzati dalla linea sindacale di accettazione del meno peggio.

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