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PUNTI DI FORZA, DEBOLEZZE E PROSPETTIVE
DEL MOVIMENTO SINDACALE NELLA COREA DEL SUD

Per il marxismo, in quello che sta succedendo nel Sud-Est asiatico è contenuto un duplice segnale: da un lato quello sull’aggravamento della crisi sistemica in cui va impantandosi il capitalismo internazionale, dall’altro lato quello sulla contraddittoria riemersione dell’unico soggetto sociale -il proletariato- capace di dare una soluzione (che non potrà essere che rivoluzionaria) della crisi di cui sopra. Su questo secondo versante è estremamente significativa la nuova tornata di lotte che si è avuta in Corea del Sud nei mesi scorsi.

Una prima risposta di classe alla cura "consigliata" dal FMI

Come già accaduto in America Latina, in Africa e nei paesi dell’Est europeo, anche nella crisi sudcoreana la concessione del prestito (57 miliardi di $) da parte del FMI e delle altre istituzioni finanziarie internazionali è stato il prologo di un duro attacco al proletariato indigeno. Vista l’incapacità di quest’ultimo di respingerne i primi colpi (v. che fare n.46), la borghesia interna e occidentale avevano cominciato a sperare di poter mettere sotto torchio i lavoratori coreani senza grossi contraccolpi sociali. Si sono tuttavia dovuti ricredere presto: proprio gli effetti sociali della loro iniziale e momentanea vittoria hanno alimentato la ripresa della mobilitazione proletaria.

Al 2% a fine ‘97, la disoccupazione è infatti balzata in primavera al 7% (1), falcidiando l’occupazione nelle piccole e medie imprese (e quella femminile in particolar modo). La comparsa dello spettro della disoccupazione di massa in un paese che quasi non conosceva cosa fosse il licenziamento, l’assenza di un sistema pubblico di assistenza sociale, la momentanea impotenza del movimento di resistenza sindacale, la minaccia dell’estensione dei tagli occupazionali alle grandi imprese hanno insinuato tra le fila proletarie insicurezza, concorrenza (soprattutto tra lavoratrici e lavoratori) con la conseguenza di indebolire ancor di più l’organizzazione sindacale. Quanto, dopo qualche mese di aggiustamento strutturale, fosse diventata difficile la situazione per i proletari della Corea del Sud, lo indica, più di ogni altro dato, il vertiginoso aumento del numero dei suicidi, passati dal vecchio al nuovo anno da 10 al giorno (in maggioranza studenti bocciati o non ammessi all’università) a 30 al giorno (in gran parte madri e padri di famiglia).

In questo clima di arretramento e sfilacciamento, con -leggiamo in un documento del sindacato KCTU- sinistri "segnali di disgregazione sociale", il movimento sindacale ha avuto la forza di darsi un colpo di reni e di tentare una nuova risposta generale. A maggio il KCTU ha convocato un congresso straordinario nel corso del quale è maturata la decisione di avviare una nuova ondata di mobilitazioni per costringere il governo ad aprire la trattativa sui seguenti punti: cancellazione della legge sui licenziamenti varata a febbraio, riduzione dell’orario di lavoro da 44 a 40 ore come mezzo per bloccare l’emorragia occupazionale, costituzione di un vero fondo statale contro la disoccupazione da finanziare con la riduzione delle spese militari e la tassazione progressiva dei profitti, rescissione delle collusioni tra potere politico e potere economico, partecipazione delle organizzazioni sindacali alla gestione delle ristrutturazioni aziendali, ricontrattazione dell’accordo col FMI.

Lo sciopero del 27-28 maggio (120mila partecipanti) è stato il primo momento in cui il KCTU ha cominciato a prepararsi alla nuova prova di forza. Esso è stato seguito da una campagna di sensibilizzazione presso i vari settori della popolazione lavoratrice in vista dello sciopero generale a tempo indeterminato previsto per il 10 giugno. L’accettazione del governo di riaprire ai primi di giugno il tavolo negoziale non ha fatto sospendere lo scontro. Anzi, ha indotto governo, imprese e sindacato a giocare al meglio le proprie carte sul vero terreno sul quale si decide l’esito di una trattativa: quello dei rapporti di forza. Il governo ha ordinato l’arresto di centinaia di responsabili sindacali. La Hyundai Motor (e, a catena, altri grandi gruppi) ha annunciato un esubero di quasi 5.000 lavoratori. La KCTU, da parte sua, ha mantenuto lo sciopero del 10.6: arrivato a coinvolgere nel giro di qualche giorno 158mila lavoratori, esso è stato tuttavia interrotto perché l’iniziativa non era riuscita a estendersi al di fuori delle grandi imprese e anche qui aveva destato preoccupazioni tra i lavoratori di aggravare la già critica situazione del paese. La difficoltà s’è ripetuta a metà luglio, quando lo sciopero, partito da 22 stabilimenti metalmeccanici (55 mila lavoratori coinvolti), è stato costretto di nuovo a refluire.

A questo punto il padronato, fiutando il momento propizio, ha affondato la lama. Vengono fatti partire i licenziamenti alla Hyundai Motors (2.700 su 32.000 dipendenti), poi alla Daewoo (3.000 su 20.000) e infine alla Mando (1.090 su 4.500). La risposta operaia è pronta, splendida: i lavoratori (è quello che succede, per esempio, alla Hyundai Motors e alla Mando -componentistica per auto-) occupano gli stabilimenti insieme con le proprie mogli e i propri figli, compiendo in tal modo un passo verso la ricomposizione delle fila proletarie oltre le divisioni di sesso e generazionali. Tuttavia il fatto che la lotta rimane divisa al livello aziendale e non riesce a trascrescere in un movimento unitario generale, permette alle imprese di chiudere separatamente le varie vertenze, e così la borghesia sudcoreana, pur cedendo qualcosa sul piano immediato, porta a casa il grosso risultato politico di aver (per adesso) sventato il rischio di una generalizzazione dello scontro di classe (2).

Al termine della prova di forza aperta dallo sciopero del 27 maggio, la classe operaia coreana è quindi costretta a indietreggiare ancora, con qualche ferita anche nel suo nucleo centrale. Ciò non è avvenuto tanto per mancanza o insufficienza di combattività. La debolezza scontata dal movimento sindacale sudcoreano sta piuttosto in un limite politico, che proviamo a delineare di seguito sulla base di un documento del KCTU dell’8 giugno e con la cautela di chi, qui in Occidente, ha ricevuto notizie di questa grandiosa prova della classe operaia coreana attraverso sparse e confuse informazioni.

Il FMI: per il proletariato sudcoreano, un nemico o un potenziale alleato?

Del tutto legittimamente per il movimento operaio di un paese oppresso qual è la Corea del Sud, il KCTU si propone di migliorare la condizione dei lavoratori attraverso la modernizzazione economica del paese e il suo inserimento nel "primo mondo". Non per brama di dominio sugli stati restanti, ma per parificare le condizioni proletarie sudcoreane a quelle del proletariato occidentale.

Dopo alcuni mesi di applicazione, la cura "consigliatata" dal FMI si è rivelata essere contraria a questa aspirazione del proletariato coreano. Di qui la volontà del KCTU di tornare in campo prendendo di mira non solo il "proprio" governo e le "proprie" imprese, ma anche i "consiglieri stranieri". Nel documento KCTU citato è scritto: "Il programma di austerità del FMI che si basa sul rialzo dei tassi d’interesse, il taglio delle spese pubbliche e i licenziamenti tende ad aggravare la crisi del paese con un eccessivo restringimento delle attività economiche. Tale critica può anche non toccare il FMI, la cui principale preoccupazione è di proteggere i mercati finanziarii internazionali e di massimizzare la capacità di restituzione dei debiti dei paesi in crisi. E’ ben noto che il FMI mette gli interessi della comunità finanziaria internazionale prima di quelli dei paesi in crisi".

Sembrerebbe che il KCTU abbia individuato il vero artefice dello stop conosciuto dalla Corea del Sud nel suo tentativo di balzare dal "secondo" al "primo" mondo, e delle convulsioni in cui essa è caduta. E sembrerebbe che, in conseguenza di quest’analisi, il KCTU sia pervenuto a individuare l’unica strategia in grado di far avanzare la nazione e i lavoratori coreani: quella legata alla prospettiva dello sbaraccamento del sistema capitalistico internazionale. Le cose tuttavia non stanno così: non lo rileviamo per dire che la lotta condotta in Corea non vale un fico secco, bensì per individuare i muri che questo reparto proletario -e quindi il proletariato mondiale tutto- è chiamato dall’oggettività a buttare giù.

Le cose non stanno così, perché innanzitutto il KCTU non ha un’analisi della crisi coreana diversa da quella "corrente", quella cioè alimentata dalla spontaneità del mercato e dall’azione cosciente delle centrali economiche, statali e mass-mediatiche occidentali. Per il KCTU il tentativo della Corea del Sud di inserirsi nel gotha dei paesi industrializzati (con tutto ciò che di benefico ciò avrebbe implicato per i lavoratori coreani rispetto agli sfruttati dei paesi del terzo mondo) è fallito non per effetto della morsa asfissiante dei mercati internazionali, ma a causa della fragilità delle chaebols, e delle collusioni tra potere politico e potere economico.

Che queste collusioni siano reali, che i proletari coreani vogliano fare i conti con l’apparato di dominio che li opprime direttamente, che percepiscano gli effetti dannosi sulla propria classe di una struttura economica nazionale extravertita, tutto ciò è più che sacrosanto. Questa struttura e i suoi corollari istituzionali sono però parte integrante del sistema capitalistico mondiale, per cui le inefficienze e le arretratezze del sistema delle imprese coreano sono la conseguenza non di gap locali bensì dell’ipertrofia di sviluppo del capitalismo occidentale. E’ giusto dire -ad esempio- che le chaebols non si sono dotate di un sufficiente polmone bancario, e che ciò rappresenta una palla al piede per il pieno decollo dell’economica coreana, ma ciò è solo l’altra faccia della medaglia dell’ipersviluppo del sistema bancario occidentale. Non si può mettere mano a un anello della catena senza spezzare l’altro.

Per il KCTU invece il sistema economico capitalistico coreano può essere modernizzato senza attentare alle relazioni economiche internazionali, solo che venga spezzato il potere delle chaebols, e in ciò vede addirittura la possibilità di contare sull’appoggio del FMI e dei capitali occidentali. Tant’è vero che-si legge sempre nel documento citato- laddove, come nei paesi europei, i capitali occidentali gestiscono direttamente le risorse del paese, le condizioni dei lavoratori sono migliori che in Corea: ad esempio, la percentuale della spesa statale destinata al welfare è pari al 30-40% mentre in Corea del Sud si ferma al 5-7%.

In tale disparità nelle condizioni dei proletari delle diverse aree geografiche, il KCTU non vede una conseguenza ineliminabile del funzionamento combinato e diseguale del capitalismo internazionale e un potente fattore di conservazione politica, ma la prova che -se gestiti correttamente- i meccanismi del mercato (e chi li sovrintende: il FMI) possono favorire un decorso della crisi favorevole al popolo e ai lavoratori coreani: "Il programma del FMI non è necessariamente cattivo per l’economia coreana, anzi le misure raccomandate possono farla maturare beneficamente. Purché esso tenga conto delle necessità del popolo coreano" e destrutturi i chaebols in modo da farne risultare un’economia gestita democraticamente e in modo benefico anche per i lavoratori.

Si tratta di un’ingenua speranza, dato che il FMI non può fare una politica per la Corea diversa da quella che fa oggi, e dato che esso può anche spezzare (come sta facendo) i chaebols coreani ma solo per addentare le carni dei lavoratori coreani con i ben più vampireschi chaebols occidentali. Un esempio di ciò i lavoratori coreani lo hanno appena sperimentato alla Mando, dove sembra che l’intervento della polizia, non voluto dai proprietari locali, sia stato sollecitato dai nuovi azionisti occidentali, i Rothschild.

Parlavamo sopra di "ingenua speranza". Essa è però vivificata da due elementi che spingeranno i proletari sudcoreani a darsi programmi più coerenti con le loro aspirazioni. Da una lato essa è supportata da una reale mobilitazione di classe, la cui inevitabile continuazione metterà alla prova gli illusori programmi attuali del movimento sindacale coreano, lo farà cozzare con le leggi incoercibili del capitalismo e, grazie a ciò, lo spingerà a riconoscersi nella necessità di doversi posizione su un terreno di rivoluzione anti-imperialista e anti-capitalista. Dall’altro lato, il ripetuto riferimento agli standard di vita del proletariato della Germania e alla indispensabilità dei capitali occidentali esprime la consapevolezza di non poter trovare la soluzione dei problemi dei lavoratori coreani se non in un orizzonte internazionale: da qui, una tensione "globalista" che può diventare la premessa per mettere in campo un (quanto mai necessario) fronte di lotta con i proletari occidentali contro un nemico riconosciuto come comune. Il che accadrebbe agevolmente, se il proletariato occidentale, lottando le politiche dei "propri" governi e dei "propri" banchieri, mostrasse cosa sta facendo il mercato anche dentro le metropoli e ne svelasse la cogenza delle leggi di funzionamento. Così purtroppo non è, e le difficoltà del proletariato coreano sono frutto prima di tutto proprio dell’isolamento internazionale in cui esso è lasciato.

C’è addirittura da rilevare, che, sotto sotto, il proletariato occidentale guarda con sollievo all’applicazione in Corea delle ricette del FMI, nella folle speranza che schiacciando il proletariato della Corea del Sud (e asiatico) possano esserci più briciole per sé. All’immediato ciò potrebbe anche essere vero. Ma al prezzo di farsi intruppare successivamente (come carne da macello) nell’aggressione economica e militare contro i proletari del continente asiatico. Lavorare per evitare quest’esito e per ritessere un filo proletario internazionalista tra Occidente e Oriente è il compito che ci prefiggiamo come OCI, e che abbiamo cercato di perseguire negli interventi sulla "crisi asiatica" che abbiamo compiuto nelle città in cui operiamo. Contando sul fatto che lo sviluppo della lotta proletaria nella Corea del Sud, l’ostruzione da essa realizzata dei piani occidentali agevolerà oggettivamente il risveglio e la disintossicazione del proletariato di "qui". Ed è per questo che, gioendo dell’instabilità che ciò riversa sui titoli di borsa, diciamo: abbasso l’ordine imperialista in Corea del Sud, evviva la lotta dei proletari sudcoreani!

Note

(1) Sono i dati ufficiali, che considerano non disoccupato chi ha lavorato almeno un’ora in una settimana! I sindacati stimano la disoccupazione almeno al 14%, cioè sono senza lavoro 4 milioni di persone.

(2) Emblematico quello che succede in due dei gruppi coinvolti. Il 24 agosto c’è un accordo alla Hyundai -respinto dalla union di gruppo- che prevede 277 licenziamenti e la sospensione dal lavoro per un anno per 1261 persone. I lavoratori della Mando, invece, rimasti isolati, vengono sgomberati con la forza della polizia...

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