[che fare 47]   [fine pagina] 

Sindacati e rinnovi contrattuali

La classe operaia non può guardare con alcuna tranquillità al rinnovo dei prossimi contratti (34 per cinque milioni di addetti, compresi i metalmeccanici). Mentre è scontato che le richieste sindacali saranno più che moderate, è ormai chiaro che per il padronato saranno l’occasione per dare un ulteriore assalto a quel che rimane del contratto nazionale.

La parola d’ordine è una sola: flessibilità, nient’altro che flessibilità, sul piano degli orari, delle assunzioni come dei licenziamenti, su quello dei salari, da legare alla sola contrattazione aziendale per produrre un’ulteriore frammentazione della condizione e dell’organizzazione operaia. Il sindacato nella forma si dichiara contrario alla flessibilità "selvaggia" e vi contrappone la disponibilità a una flessibilità "contrattata". A furia di "contrattarla" il contratto è divenuto già un colabrodo inconsistente. Qualche esempio? Il contratto nazionale -si dice- va difeso ad ogni costo, ma poi si dà il via libera ai contratti d’area, ai patti territoriali, ecc. I minimi salariali sono inderogabili perché altrimenti si ritornerebbe alle "gabbie salariali", retaggio del passato? Ed ecco, in puro stile federalista, una miriade di accordi che concedono condizioni salariali e normative inferiori ai livelli contrattuali. No alla flessibilità in uscita sinonimo di licenziamenti a discrezione dei padroni? Ma i contratti a termine e di formazione lavoro, il lavoro interinale, l’apprendistato, le forme di precariato già concesse, non sono altro che possibilità di licenziamento a uso e consumo delle aziende. Per non parlare poi della questione degli orari: si riconosce che la settimana lavorativa media supera le 45 ore, con gli straordinari alle stelle, ma si concorda con Confindustria -in "cambio" del riconoscimento di un orario normale di 40 ore settimanali su base annua- la possibilità di orari giornalieri di 13 ore e un tetto annuo di 250 ore di straordinario!

Unico "risultato" di tutto ciò: in cambio del mantenimento formale delle "regole", una serie senza fine di cedimenti reali su tutto.

In questo modo non si ferma affatto il processo reale di rottura e frantumazione del tessuto operaio (in fabbrica come sul territorio), e, anzi, gli effetti di questo processo -consolidati e acquisiti dalla controparte e, quel che è peggio, oramai subiti come fatto normale anche dagli operai- indeboliscono, allentano e tendenzialmente distruggono i legami tra lavoratori predisponendo il terreno proprio alla forma "estrema" di flessibilità che da parte sindacale si vorrebbe evitare!

E’ con questa linea che il sindacato va alla verifica dell’accordo di luglio, accettando la proposta di patto sociale lanciata da Ciampi e incentrata sullo scambio investimenti-flessibilità, ed è con essa che va ai rinnovi contrattuali. Ciò che il sindacato chiede al governo "amico" è di smussare le pretese padronali più spinte, riconfermando il quadro della concertazione atta a prevenire lo scontro sociale. Non inganni la minaccia di sciopero generale "contro" il governo ventilata da D’Antoni, essa è finalizzata a spostarne l’asse ancor più a destra e a smuovere le residue resistenze della Cgil in materia di flessibilità, il tutto in nome dell’occupazione e del Mezzogiorno, nella prospettiva di un sindacato sempre più corporativo e, perché no, gestore in prima persona del lavoro che ha contribuito a precarizzare.

La politica di moderazione e concessioni continue, su tutti i piani, e il ritrarsi sempre più dal terreno della mobilitazione -per non mettere in pericolo la "stabilità" politica e sociale- non servirà a moderare il padronato né a proteggere il proletariato dalle tempeste del mercato mondiale, ma solo a indebolire, scompaginare, dividere il fronte di classe.

[che fare 47]  [inizio pagina]