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Nazioni e nazioni mancate, in Europa

Per il marxismo "le nazioni sono un inevitabile prodotto e una forma inevitabile dell’epoca borghese dello sviluppo sociale", per riprendere un’espressione di Lenin: la nazione "è la categoria storica dell’epoca del capitalismo ascendente". Sotto questo aspetto le lotte d’indipendenza nazionale dell’Ottocento europeo hanno rappresentato un fatto eminentemente rivoluzionario, tanto per la borghesia ascendente che per il nascente proletariato, alleato di essa nell’opera di recisione dei vecchi e sorpassati vincoli feudali all’imperativo "comune" dello sviluppo sociale. La realizzazione dello stato nazionale non fu, però, di tutti i popoli presenti sulla scena, visto che non si tratta di un "diritto", ma di una prova storica di forza, di capacità rivoluzionaria. Marx dice chiaramente: accanto ai popoli rivoluzionari vi sono anche popoli "senza storia", popoli arretrati e/o addirittura controrivoluzionari (ed è una constatazione di svolgimenti storici materiali, non di criteri biologici, non di gerarchie "ideali" di razza: ne prendano nota coloro che impudentemente parlano del "razzista Carlo Marx"!). Coi Croati ed altri, gli albanesi fanno parte di questi popoli materialisticamente non in grado di darsi a tempo ed a modo un proprio "risorgimento nazionale", e spesso o abitualmente si son trovati alla coda delle diverse reazioni europee contro l’insorgenza rivoluzionaria borghese e proletaria.

La fase rivoluzionaria della costituzione degli stati nazionali arriva storicamente in Europa al suo termine nel 1871, con la Comune di Parigi che solleva il proletariato di Parigi "non solo contro il regime abbattuto ma contro tutta la classe borghese anche repubblicana e capitolarda, come contro la forza reazionaria prussiana"; qui si afferma concretamente l’antagonismo proletario contro cui si coalizzano tutte le forze della conservazione borghese e della reazione preborghese, da qui data il "trapasso che da quel momento pone ai comunisti in Europa il solo diretto traguardo storico della dittatura proletaria" (A. Bordiga, I fattori di razza e nazione nella teoria marxista). Non si nega con ciò "il sopravvivere, alla grande epoca delle guerre di indipendenza e di sistemazione nazionale con carattere borghese rivoluzionario, di gran numero di casi in cui nazionalità minori sono soggette a Stati di altra nazionalità", ma si vuol affermare che, con l’entrata nell’epoca imperialista, ogni guerra borghese soggiace a dirette finalità imperialistiche e che non vi è più spazio per un’utile alleanza rivoluzionaria borghesia-proletariato entro determinati confini "nazionali". La guerra nazionale va trasformata in guerra civile.

Alla data 1914 non è, certamente, che non sussistessero tuttora questioni acute. Le forze borghesi le sollevarono ampiamente, ognuna per i propri interessi e contro i propri nemici, ma la guerra, dettata "dalla contesa economica tra i vari grandi Stati capitalistici nella spartizione delle risorse produttive mondiali", non aveva niente a che fare con la soluzione di quelle questioni per quanto si fingesse di commuoversi, ad esempio, sui destini della povera Serbia martoriata et similia, e ad onta di tutti i succesivi programmi wilsoniani di "democratica definizione dei diritti dei popoli". Le imbelli borghesie "nazionali" dei piccoli paesi aspiranti ai propri "storici diritti" si acconciarono a farlo delegando a questo o quel fronte imperialistico le proprie sorti e coartando a ciò i propri proletari sfruttati. La risposta dei comunisti a questo gioco al massacro a pro dell’imperialismo non poteva essere che quella data dai compagni serbi di allora: nessun "fronte nazionale" con la borghesia interna, nessun tipo di resistenzial-nazionalismo alla coda dell’imperialismo, ma sabotaggio della guerra da ambo i lati, in unità coi fratelli proletari delle altre nazioni coinvolte nel macello, guerra civile contro il proprio nemico interno nella lotta contro il generale fronte imperialista, divenuto oramai di ostacolo allo sviluppo sociale.

A questa data non abbiamo sentore ancora di un riveglio sociale e politico delle popolazioni albanesi, sia nel loro insieme che, tanto meno, del Kosovo a sé. Quanto a quest’ultimo, va ricordato che ancora nel ’26 la sua popolazione non toccava il mezzo milione ed era costituita da "colonizzatori" albanesi incoraggiati a fissarsi su queste terre sotto il dominio turco, legati a filo doppio da essi senz’ombra di un’identità e tanto meno di una qualche velleità d’indipendenza nazionale.

La costituzione di una Jugoslavia indipendente nel ’19 si diede principalmente non in forza di fattori "risorgimentali" endogeni, per quanto vivo fosse stato negli ultimi decenni il risveglio di una coscienza nazionale unitaria degli slavi del sud, ma in base alla ridefinizione imperialista dell’area balcanica, nel senso che non fu frutto indipendente dell’azione di una vera e propria borghesia nazionale rivoluzionaria e di un movimento insurrezionale popolare.

La "conquistata" indipendenza jugoslava sanzionava quindi un’aspirazione nazionale reale degli strati più avanzati dei popoli jugoslavi, ma avveniva di fatto sotto il segno del dominio e del controllo imperialista, delegando alla borghesia centralistica serba il compito di farsi mandataria di essi, ciò che accentuava necessariamente tutti i conflitti di classe e nazionali all’interno del nuovo stato formalmente indipendente. La soluzione di tali problemi passava, perciò, di competenza al movimento proletario di classe jugoslavo sul terreno del conflitto antiborghese interno e internazionale nel quadro unitario disegnato dall’Internazionale Comunista. L’aspirazione jugoslavista, per non restare nel regno delle chiacchiere, doveva tradursi in azione di classe contro la duplice cappa dominante borghese; la questione del riscatto e della dignità nazionali dei popoli jugoslavi si poneva su un terreno internazionalista di classe.

Il tracollo dell’Internazionale stalinizzata fece mancare quest’alea storica, né il debole movimento proletario jugoslavo, nonostante le sue eroiche prove di presenza rivoluzionaria, poteva surrogare "in proprio" quanto, con lo stalinismo, andava inesorabilmente perduto a scala generale. Alla prova della seconda guerra mondiale, come abbiamo in precedenza richiamato, i "comunisti" di tutta la Jugoslavia si trovavano costretti a dismettere l’insegna internazionalista di classe per risollevare in termini "rivoluzionari" la bandiera patriottica lasciata cadere nel fango dalla propria borghesia (per usare un’espressione togliattiana presa sul serio da Tito). Lo fecero con forza, mettendo a frutto una più che ventennale esperienza di lotte di classe che avevano in qualche modo unito assieme proletari e sfruttati di ogni nazionalità in un fronte fraterno, ma derogando dal compito comunista rivoluzionario internazionalista -e non daremo ad essi di ciò la colpa principale!- per assumersi, entro lo stretto straccetto jugoslavo, dei compiti risorgimental-borghesi in ritardo inquadrati all’interno dei fronti imperialisti in conflitto.

L’opera di surroga della borghesia latitante presentò, così, anche quei tratti borghesemente "definitivi" in quanto progressivi, rivoluzionari, di cui s’è detto e persino dei tratti "proletari", di classe. Con ciò noi non consacriamo affatto una qualche virtù del "socialismo" titino; al contrario, vediamo in ciò la riprova di un potenziale di classe dissipato e usato in controsenso rispetto ai suoi scopi, col risultato ulteriore, e inevitabile, di una cancellazione dalla scena di ogni residuo classista e, con ciò, di una nuova e più pesante sottomissione della Jugoslavia ai giochi dell’imperialismo, aggravata dall’estromissione dalla scena stessa d’ogni e qualsiasi permanenza del proletariato in quanto classe per sé. Con la logica conseguenza del riaggravarsi di tutti gli squilibri economici, sociali, politici, nazionali interni e la reviviscenza, messa a coltura su questo letamaio, delle peggiori forme di reazione d’ogni tipo. Il bratsvo i edinstvo resistenzialista serbo-kosovaro non poteva, su queste basi, che metter capo alle attuali disconoscenze di parentele e agli attuali scontri "nazionali". Così la mancata soluzione della questione jugoslava ha portato con sé, come coda inevitabile, la riesplosione della questione-Kosovo. Ma non come miccia di una vera guerra di liberazione "nazionale" (ormai inattuale e impraticabile), bensì come innesco o di una più profonda aggressione imperialista a tutti i popoli dell’area o della soluzione comunista internazionalista di tale questione.

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