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Crisi nel
Sud-Est asiatico

  RINASCE L’ANTI-IMPERIALISMO
  NEL SUD-EST DELL'ASIA

Indice

La crisi finanziaria, esplosa in Asia l’estate scorsa, non accenna a placarsi, né smette di riversare foschi bagliori sull’intera economia mondiale. L’Occidente ha già ridotto di un terzo le previsioni di crescita per il ’98, ma, soprattutto, non s’è liberato del terrore di una diffusione del panico sui mercati finanziari e della recessione generalizzata che comporterebbe nel giro di poco tempo. L’azione di spoliazione dell’imperialismo ai danni dei paesi del sud-est mette in moto una reazione contro di lui da parte delle masse oppresse e sfruttate dell’area. La direzione in senso coerentemente anti-imperialista e anti-capitalista delle loro lotte potrà essere assicurata solo se il proletariato occidentale scenderà in campo al loro fianco, riufiutando di essere complice, o spettatore passivo, dell’aggressione che le "proprie" borghesie conducono verso le masse del sud-est asiatico e di tutto il terzo mondo.

Negli ultimi mesi l’attenzione di governi e istituzioni finanziarie occidentali si è concentrato sulle sofferenze (crediti inesigibili) del sistema bancario del Giappone, ufficialmente attestate sui 77 mila mld di yen (580 mld di dollari). Per americani ed europei la soluzione è di lasciar fallire banche e aziende giapponesi e, per questo, premono per "liberalizzare" l’economia giapponese, e costringerla ad abolire ogni protezione al sistema aziendale. I fallimenti, anche di grandi finanziarie, sono, in realtà, cresciuti molto in Giappone l’anno scorso, ma è ancora poca cosa. Il Giappone, da parte sua, cerca di resistere a quelle che lo stesso governo definisce timidamente "ingerenze straniere", e potrebbe essere tentato, invece, di liquidare i titoli del tesoro Usa (320 mld $) o parte del suo investimento finanziario nel mondo (800 mld $). La fuga di yen dal sistema finanziario mondiale, costringerebbe la Fed americana e le altre banche centrali ad alzare i tassi, aumenterebbe il costo del denaro, manderebbe a picco le borse di tutto il mondo: la bolla finanziaria esploderebbe spalmando i suoi miasmi su tutto il pianeta.

Vero è che il Giappone è la cassaforte del mondo. Si calcola che il risparmio giapponese ammonti a 9.200 mld $ (qualcosa come nove volte l’intero Pil italiano). L’Occidente euro-americano aspira a metterci le mani sopra, sia per fargli assorbire una gran parte della bolla speculativa, sia per attingervi capitali finanziari per alimentare i suoi propri guadagni. Il governo giapponese ha avviato la liberalizzazione dei suoi mercati finanziari, estendendo, dal 1° aprile, le possibilità delle finanziarie estere di operare all’interno del paese. Significativamente per illustrare questo "big bang" una tv è ricorsa a immagini dello sbarco americano del ’45 e ai dipinti delle cannoniere occidentali che il secolo scorso lo costrinsero ad aprirsi al commercio occidentale. Un recupero di sentimento nazionalistico deve essere certamente in atto da quelle parti e si unisce a un sostanziale rifiuto a "salvatre il mondo" aumentando i consumi ai danni del risparmio, nonostante i 5 pacchetti fiscali varati in pochi mesi dal governo per incrementarli.

Nel frattempo la società giapponese vive un profondo sbando. I governi che si succedono sono sempre più precari e indecisi, avvolti da scandali e dal discredito interno ed esterno. Anche le istituzioni "tecnocratiche" ritenute finora il perno del successo dell’intero sistema, come il potentissimo Ministero delle Finanze e la Banca Centrale, vacillano sotto la scoperta di corruzioni diffuse, come lo scandalo "no-pan shabu shabu", dal nome dei locali con le cameriere senza mutande in cui i funzionari del ministero andavano a sollazzarsi a spese delle società oggetto del loro controllo fiscale.

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Stringere il cappio al collo della Cina

Mentre i grandi stati speculatori si palleggiano la miccia accesa nella speranza che la bomba cui è collegata esploda in mano altrui, sono tutti rigorosamente allineati nel riversare il più possibile le loro difficoltà ai danni dei paesi oppressi dal loro dominio e dal loro sfruttamento. Continua, così, l’aggressione alla Cina, i cui rappresentanti l’Occidente ben accoglie alla sola condizione che promettano le più veloci ed efficaci "riforme liberalizzatrici", che aprano definitivamente l’immenso territorio, le sue risorse naturali e umane, all’insaziabile vampirismo finanziario e produttivo del capitale occidentale. Il sistema relativamente ancora "chiuso" dell’economia cinese sta, per ora, reggendo alle conseguenze più dure della crisi asiatica. La resistenza alla svalutazione della moneta locale ha consentito di evitare ulteriori difficoltà a tutta l’area, ma le prospettive della modernizzazione sono, comunque, fortemente messe in discussione. Le fonti cui la Cina può attingere risorse per finanziarla tendono a prosciugarsi. Le difficoltà valutarie ridimensionano il rubinetto-Hong Kong, e lo stesso canale delle esportazioni vacilla, in quanto ben il 60% di esse era diretto all’area del sud-est, oggi non in grado di assorbirle più per via della crisi.

In risposta alle difficoltà, la Cina è costretta, da un lato, a ridurre la "cautela" del processo di apertura dei suoi mercati, e dall’altro a incrementare il reperimento delle risorse interne, aggredendo le sacche di parassitismo e inefficienza che si annidano nell’apparato produttivo statale e nello stesso apparato burocratico di stato e partito. Il 15° congresso del Pcc ha varato una campagna di snellimento delle burocrazie e con lo slogan "Abbasso gli uomini della ciotola d’oro che succhiano il sangue del popolo" ha programmato licenziamenti a milioni. Allo stesso tempo ha deciso di accelerare la privatizzazione delle aziende (30 milioni i lavoratori "eccedenti"), che comporterà licenziamenti in massa e aumento dello sfruttamento operaio.

Il processo di ulteriore "stretta" produce e produrrà tensioni sociali sempre più violente. Già nel ’97 le proteste operaie si sono contate a centinaia e il filosofo "riformista" Xiao Gonqin prevede, in un intervista al Corriere del 2.4 che: "nei prossimi anni gli operai saranno le vittime delle riforme economiche" e aggiunge che "la situazione diventerebbe incotrollabile se gli intelletuali si unissero ai lavoratori e li organizzassero". Non è che la paura dell’organizzazione operaia di classe, che può essere prodotta solo dagli operai stessi e dal contributo dei veri comunisti e non certo dagli "intellettuali" in quanto ceto sociale.

In ogni caso, nessuna politica di "cauta" liberalizzazione potrà soddisfare l’ansia imperialista di appropriarsi della Cina e le manovre per realizzarlo continueranno a intensificarsi, richiamando in campo la necessità di riprendere una coerente lotta anti-imperialista, di cui solo la classe operaia cinese potrà farsi interprete attraendo a sé le ancora sterminate masse contadine, e liquidando, su questa via, i conti anche con ogni linea di compromesso con l’imperialismo perseguita dal Pcc e dalla borghesia cinese.

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Il saccheggio del sud-est asiatico

Nell’attesa di sfondare le resistenze cinesi, l’imperialismo occidentale è intento a continuare la spoliazione di tutti gli altri paesi dell’area. Uno a uno sono stati costretti a piegarsi alle ricette del Fmi: Thailandia, Corea del Sud e Indonesia hanno, nell’ordine, sottoscritto le "intese" con il Fmi per ottenere i suoi "aiuti". E quei paesi che non hanno avuto bisogno di richiedere l’intervento (come le Filippine e la Malaysia) si sono "spontaneamente" piegati alle sue ricette.

I miliardi di dollari prestati dal Fmi servono, in ultima istanza, a garantire unicamente i creditori occidentali. A garantire i prestiti già erogati, caricando sui bilanci statali l’onere di ripagarli, e imponendo, di conseguenza, agli stati politiche di bilancio "rigorose"; il che vuol dire ridurre la già scarsa spesa sociale e annullare ogni aiuto statale allo sviluppo delle aziende nazionali. In tal mondo la galassia di grandi e piccole aziende sorte nei decenni di crescita diventano bocconcini appetitosi per i famelici capitali occidentali. Alla Corea del sud si impone di abbandonare a sé stessi i chaebol consentendo alle aziende occidentali di smembrarli e di appropriarsi dei settori "produttivi". All’Indonesia si impone di abbandonare il progetto di auto nazionale, di aereo a reazione proprio e ogni altro investimento infrastrutturale.

Se la corsa imperialista agli acquisti cresce, in coerente applicazione della massima di Rotschild secondo cui "bisogna acquistare quando il sangue corre nelle strade", cresce, di concerto, anche la coscienza dell’oppressione imperialista. Un leader musulmano dell’Indonesia l’ha felicemente sintetizzata: "Il colonialismo non è più un’occupazione straniera, ma la destabilizzazione e il controllo dell’economia. Gli stranieri si stanno comprando una parte dell’Indonesia" (Corriere, 8.2).

Segnali del montare del nazionalismo giungono da ognuno dei paesi coinvolti. Sempre il Corriere (il 5.2) segnala che la Thailandia scopre sentimenti antioccidentali e antiamericani, che "c’è come la sensazione di una gigantesca truffa, di un neocolonialismo imposto con le armi delle borse, al servizio di Sua Maestà il dollaro", che le proteste e disordini si diffondono e con essi avanza una sorta di "mani pulite" contro personalità della moda, dello spettacolo e politici furbi con il fisco, fino al punto di denunciare come immorale l’ingaggio di tecnici stranieri per preparare gli atleti per i Giochi Asiatici.

In Indonesia, l’accordo con il Fmi è stato percepito come una umiliazione nazionale. Amien Rais, leader della seconda organizzazione musulmana del paese (28 milioni di aderenti) ha dichiarato: "E’ stato come offrire la schiena al potere straniero". Lo stesso Suharto, al potere da 32 anni grazie a una sanguinosa repressione (oltre 500.000 morti) delle forze anti-imperialiste del Pki e dii Sukarno, beniamino a lungo delle cancellerie occidentali, ha tuonato contro il complotto straniero che "ha creato ad arte" il crollo della rupia e della borsa "per distruggere il nostro sviluppo economico degli ultimi 30 anni". Difronte ai suoi tentativi di ridurre le pene da pagare per gli "aiuti" del Fmi s’è guadagnato feroci rimbrotti dei suoi estimatori imperialisti, che hanno "scoperto", all’improvviso -dopo averli a lungo foraggiati e protetti-, i suoi metodi dittatoriali e i favoritismi ai familiari. Le conseguenze che un tal campione trae dall’analisi anti-straniero sono naturalmente ancora più anti-operaie delle premesse: ordini alla polizia di reprimere ogni movimento di protesta, giudicato alla stregua di un aspetto dello stesso "complotto" straniero.

E di proteste di massa in Indonesia ce ne sono state moltissime. Disoccupazione raddoppiata in pochi mesi, salari ridotti al minimo, e la svalutazione della rupia che ha impresso una corsa vertiginosa ai prezzi dei generi di primaria necessità e dei combustibili per uso domestico, hanno causato l’esplosione della vera e propria rabbia popolare, che si è scatenata contro i negozianti, ritenuti responsabili degli aumenti dei prezzi. La maggioranza dei negozi sono gestiti da indonesiani di origine cinese. Di conseguenza, i negozi saccheggiati erano per lo più di proprietà di questi. Ciò è stato sufficiente per far dire alla stampa nostrana che stava montando in Indonesia un’odio anti-cinese. In realtà, gli indonesiani avrebbero molti buoni motivi per non amare i cinesi locali, che furono deportati dagli invasori olandesi allo scopo preciso di gestire commerci e affari, assumendo la funzione di agenti dello sfruttamento coloniale olandese ai danni dell’Indonesia. L’odio che si sono guadagnati con questo ruolo ha testimonianze antiche (un libro del ’14 uscito nell’allora Siam s’intitolava Gli Ebrei d’Asia) e motivi attuali (molti cinesi sono anche usurai e in alcuni villaggi eliminare il cinese spesso significa cancellare, dall’oggi al domani, i debiti dell’intero villaggio). Ma che la rabbia abbia preso a obiettivo solo i cinesi e le loro ricchezze è sicuramente falso, tanto che lo stesso il sole/24 ore del 12.2 è costretto a citare, per esempio, una manifestazione contro l’aumento dei prezzi e i privilegi dei politici al potere nel centro di Giakarta, per bloccare la quale la polizia ha effettuato ben 140 arresti, mentre la stessa borsa subiva un vero crollo a causa, questa volta, della paura del diffondersi di disordini sociali e politici.

Forti segnali di nazionalismo partono anche dalla Corea del Sud dove associazioni di cittadini chiedono ai passanti di non comprare prodotti esteri, costringendo i commercianti a nasconderli, e le marche automobilistiche americane registrano crolli delle vendite del 25 (Chrysler) e del 50% (Ford). La mobilitazione nazionalista ha portato alla raccolta di circa 50 tonnellate d’oro per aiutare il paese a procurarsi le divise per far fronte al debito estero.

Ma sintomi di risveglio nazionalista ve ne sono un po’ dovunque in Asia, compresa l’India, con il successo elettorale del Bjp, che si richiama al nazionalismo indù, e con la riscoperta della parola d’ordine dell’indipendenza anti-inglese "swadeshi", ossia autoderminazione, autosufficienza.

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La fucina dell’anti-imperialismo

L’acuita oppressione imperialista è la causa immediata del risveglio del sentimento nazionalista, e assieme a esso si risveglia anche il terrore di esplosione di rivolte anti-imperialiste nell’area. Il capo delle forze armate americane del Pacifico ha espresso -il manifesto del 8.2- il timore che l’Indonesia possa essere sconvolta da gravi disordini e da un’ondata di antiamericanismo, tali da compromettere il libero passaggio delle navi Usa dal Pacifico all’Indiano e quindi verso il Medio Oriente. J. Schlesinger, ex ministro della difesa Usa, riconosce che l’America tende a realizzare i suoi propri interessi a danno di quelli altrui. R. Reich, ex ministro del lavoro di Clinton, lamenta che il business Usa si preoccupi solo di realizzare il massimo profitto nel minor tempo possibile ai danni dei paesi deboli. The Wall Street Journal evita di attaccare l’uno e l’altro e ammette che le società americane cercano "come avvoltoi" di acquisire imprese e banche in Asia (Corriere, 16.2).

La paura del diffondersi di sentimenti e rivolte antiamericane e antioccidentali non paralizza certo i sacerdoti dell’imperialismo e gli scherani al suo servizio, i quali, da un lato, lanciano velenosi strali contro il nazionalismo risorgente nell’area roteando la clava minacciosa della riduzione degli "aiuti" e quella più convincente delle porta-aerei, e, dall’altro, cercano di soffiare sul fuoco delle diatribe regionali e dello scontro interno tra i vari paesi, salutando con ipocrita mestizia le campagne anti-immigrati di Thailandia, Malaysia e Singapore, che puntano a liberarsi di milioni di birmani e indonesiani affluiti negli anni della crescita, e le manifestazioni anti-cinesi dell’Indonesia.

Le borghesie locali maneggiano,in realtà, le politiche anti-immigrati per cercare di deviare (anche nell’interesse dei loro diretti padroni imperialisti) il risorgente nazionalismo delle masse contro i vicini più o meno prossimi per smussarne le spinte anti-imperialiste. Dagli effetti fratricidi di questa politica si può venir fuori solo con una ripresa della fratellanza di classe al di là delle frontiere, e, quindi, solo saldando l’unità di lotta contro il comune oppressore imperialista e i governi locali che vi sono asserviti. Un’opera di ricomposizione politica e organizzativa cui può mettere mano solo la classe operaia. Quella locale assumendo su di sé il compito di contrastare apertamente l’imperialismo, dandosi, nel contempo, un preciso programma di difesa dei suoi interessi di classe, e proprie autonome organizzazioni. Quella occidentale schierandosi a fianco del proletariato asiatico, sostenendolo nella sua lotta, dissociandosi dalle politiche di oppressione imperialista praticate dalle proprie borghesie, e lanciando, anzi, contro di esse e contro l’intero sistema capitalista la sua dichiarata guerra di classe.

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Il proletariato asiatico alla prova

Il proletariato occidentale è, per il momento, "in tutt’altre faccende affaccendato", vede come il fumo negli occhi la prospettiva di dichiarare guerra al capitalismo, preferisce seguire i Blair, i Prodi, i D’Alema e i Bertinotti nella rinnovata illusione di potersi acconciare senza troppi danni per sé nel nuovo mondo che il capitalismo prepara, o, quando avverte l’urgenza di cambiamenti radicali lo fa seguendo sirene reazionarie, alla Bossi o alla Le Pen. In alcun modo sviluppa una attenzione fraterna verso il proletariato asiatico, dalle cui vicende si sente lontano, se non arriva, addirittura, ad augurarsi che dalle sventure di quello possa guadagnare qualcosa esgli stesso. Anche quella "sinistra" che aveva salutato le precedenti lotte in Corea come segnale dell’opposizione all’odiato "neoliberismo" si ritrae dal dare, oggi, qualunque appoggio ai fermenti che provengono dall’Asia, e ne prende le distanze criticandone schifata le tendenze nazionalistiche.

Il proletariato asiatico è, invece, costretto a fare i conti con la rinforzata aggressione imperialista, e sperimenta sul campo delle nuove battaglie la sua forza, l’affidabilità dei suoi programmi, il suo grado di organizzazione e di autonomia politica. Quello coreano, in particolare, è oggi nel centro dello scontro, sia per l’irruenza che l’offensiva capitalista ha assunto in Corea, sia perchè aveva da poco consumato un’esperienza di lotta e di organizzazione.

Nella scheda riferiamo degli avvenimenti ultimi in Corea. Da essi emergono indicazioni della massima importanza.

Il proletariato sudcoreano, come tutto il proletariato dei paesi oppressi dall’imperialismo, ha dinanzi un duplice nemico in quanto soffre di una duplice oppressione: quella della propria borghesia e, quella, ancor più dispotica, dell’imperialismo. La realtà stessa lo spinge a prendere coscienza della vera gerarchia dei nemici che ha di fronte, e, non a caso, chiede di contrattare direttamente con il Fmi e il governo americano. L’insieme delle rivendicazioni presentate dal Kctu contengono -al di là delle illusioni inevitabili per un’avanguardia operaia "spontanea", nel senso di non saldamente ancorata sul terreno del comunismo- in modo chiaro due elementi: obiettivi di difesa di classe in un quadro di difesa delle condizioni dell’intero paese dalle pretese di Fmi e Usa. Sono due condizioni indispensabili per fondare su di una base di classe una lotta davvero anti-imperialista. In questo quadro si colloca anche la spinta a esercitare un "controllo" sull’economia del paese, per non lasciarla nelle mani di una borghesia avida di guadagni, poco o niente "nazionalista", dedita alla rapina, all’inganno e alla corruzione (la rivendicazione di questo controllo non scandalizza i comunisti, che anzi sanno come questo sia un passaggio essenziale, dal punto di vista del proletariato, per porre la questione del potere su tutta la società, tanto nei paesi oppressi quanto in quelli metropolitani. La differenza nei due casi è che nei paesi oppressi il problema si pone, all’inizio, come "controllo" anche sulla borghesia, in quelli metropolitani si pone fin da subito come controllo contro la borghesia). Del pari si fa spazio la consapevolezza di dover lottare contro il parassitismo di queste classi e dello Stato. La crisi del capitalismo fa emergere con sempre maggiore chiarezza il conflitto tra chi produce e chi parassita, e che sono sempre i secondi a detenere le leve reali del potere. Contro di essi le classi che producono devono coalizzarsi per evitare di essere spennate e ridotte alla fame proprio per aver "prodotto troppo". La parte più combattiva del proletariato coreano non esita ad assumere su di sé anche questo aspetto della lotta, dandosi i propri obiettivi contro tutti "gli uomini della ciotola d’oro", siano essi "interni" o "esterni", burocrati dello stato o "imprenditori", cercando di distinguere tra questi ultimi tra piccoli e grandi, tra vittime della rapina finanziaria e agenti di essa.

Ma chi è l’avversario n. 1 di questo programma di classe anti-imperialista? Il Kctu si è rivolto direttamente al Fmi e al governo Usa. Ha individuato in queste due istituzioni l’origine dell’attacco cui è sottoposto il proletariato coreano, e almeno il Fmi ha accettato il "dialogo", costrettovi solo dalla forza e dalla risolutezza dimostrata un anno fa dal Kctu. E’ la prima volta che un fatto del genere avviene, e non importa che il "dialogo" sia stato del tutto formale e senza alcuna ricaduta concreta per il sindacato (se non in senso negativo, perchè il governo si è sentito comunque rinforzato dalle posizioni del Fmi). E’, comunque, la dimostrazione che solo organizzando la propria forza di classe si può intraprendere la lotta contro l’avversario imperialista, ben più potente di qualunque governo nazionale dipendente. E se c’è voluta la dura lotta dell’anno scorso per consigliare a un Camdessus di accettare un semplice incontro, lotte di ben maggiore ampiezza, organizzazione e determinazione saranno necessarie per contrastare le forze politiche, economiche e militari che l’imperialismo è in grado di scatenare per difendere la sua sopravvivenza.

Quando è, però, giunto il momento di una prova decisiva, si è rivelata la debolezza dell’impianto politico, programmatico e organizzativo del Kctu. I vertici hanno sottoscritto un compromesso deludente perchè, molto probabilmente, profondamente partecipi delle sorti della nazione al punto di sacrificarvi gli interessi di classe del proletariato, sia pure con una dignità tanto diversa da altri caporioni "democratici" e di "sinistra" di quei paesi (non parliamo dei nostrani per i quali il cedimento agli interessi nazionali delle proprie borghesi imperialiste non può costituire neanche un compromesso deludente ma solo un vero e proprio tradimento degli interessi di classe). Ma la vitalità classista del sindacato è stata immediatamente difesa da una sua larga parte che ha, dovuto, però, prendere immediatamente atto del suo isolamento e dell’incapacità di schierare un esercito adeguato alla bisogna. L’inadeguetezza non è tanto nei numeri, quanto nella risolutezza dei programmi.

Ciò che manca alla parte più combattiva del proletariato coreano è il saldo possesso (almeno in una sua avanguardia organizzata) di un programma comunista, la chiara coscienza di una prospettiva di abbattimento dell’intero sistema capital-imperialista. Con essa, con un’organizzazione sindacale e politica che la sostenga e la diffonda tra le masse, sarebbe più facile anche impostare quei compromessi che per un movimento operaio e anti-imperialista sono inevitabili nel corso del suo sviluppo. Il possesso di una chiara alternativa complessiva rinforza anche le prospettive della lotta immediata. La presenza di un partito comunista offre anche alle masse non comuniste la forza per sostenere con maggiore determinazione i loro interessi sul piano immediato sindacale.

Ma di questa mancanza non è ai proletari coreani che si può far colpa. Essi hanno dichiarato la loro lotta a un avversario tanto più potente e organizzato di loro, l’hanno dichiarata -non sembri esagerato perchè, al fondo, è esattamente così- alla coalizione degli stati e dei governi più potenti del mondo. Non è da soli che potranno mai abbatterla, e, quindi, è stato, in una certa misura, inevitabile che la massa del proletariato non si sia sentita partecipe del livello dello scontro cui i nuovi vertici del Kctu lo chiamavano, e lo hanno lasciato in un isolamento di cui il governo avrebbe approfittato sicuramente per dargli un colpo decisivo.

Per lottare contro la coalizione degli stati imperialisti necessita uno schieramento di forze che rendano credibile l’obiettivo e, soprattutto, c’è bisogno che quella coalizione sia davvero attaccabile, che non si dimostri, cioè, come una fortezza compatta e inespugnabile, ma che dal suo interno si manifestino forze disposte a indebolirla e ad abbatterla.

E’ da qui, insomma, dal proletariato occidentale, che deve partire l’aiuto fondamentale a sostenere la guerra anti-imperialista delle masse oppresse. E così, solo così, esse potranno, anche, cominciare a vedere e a credere che si possa e si debba non solo ricercare compromessi più dignitosi, ma lottare per il completo abbattimento dell’imperialismo. Non battersi per rendere più equo e democratico il sistema attuale, ma lottare per realizzarne uno completamente nuovo, il comunismo.

Il proletariato coreano e asiatico sarà sicuramente chiamato a nuove prove, sperimenterà sulla propria pelle come anche i compromessi "non dignitosi" siano per l’imperialismo carta straccia, e sarà sempre più spinto a dichiarare la sua guerra aperta all’imperialismo dal fatto stesso che l’imperialismo, da parte sua, sempre più apertamente glie la dichiara. Egli affronterà le nuove prove facendo tesoro anche delle sue attuali esperienze. Tocca anzitutto ai comunisti fare in modo che ai nuovi appuntamenti di lotta esso arrivi potendo contare sull’appoggio incondizionato del proletariato dei paesi imperialisti. Tocca ai comunisti lavorare affinchè il nazionalismo anti-occidentale sorgente in Asia venga considerato dal proletariato occidentale per quello che esso è, una potenzialmente micidiale arma contro il potere del capitalismo, contro il potere del sistema che sfrutta anche lui. Per questo non va demonizzato o schifato, ma aiutato a diventare sempre più coerentemente anti-imperialista e anti-capitalista. Il che può avvenire solo se il proletariato occidentale gli offre la sponda sufficiente a lanciare una lotta comune contro il capitalismo.

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