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35 ore

COSI’ COME IMPOSTATA DA RIFONDAZIONE,
LA "BATTAGLIA" PER LE 35 ORE NON PORTERA’
NESSUNA REALE RIDUZIONE. I PADRONI INTANTO…

Sulle 35 ore, dalla Germania

 

Nel clima da pantano che caratterizza l’attuale situazione politica italiana, non potevano mancare le "35 ore". A "sinistra" vengono presentate come una vittoria operaia che è possibile ottenere non con una vera lotta - Dio ce ne scampi! - ma grazie ad un governo che rispetta gli accordi parlamentari. Strana "conquista", però, quella che invece di porre un freno al continuo peggioramento della condizione dei lavoratori, diventa un’occasione per il rilancio dell’offensiva borghese. Qualcosa effettivamente non torna e se ne iniziano a render conto anche molti proletari. Ripercorriamo rapidamente gli ultimi fatti.

Con la presentazione del disegno di legge governativo sulle 35 ore la Confindustria abbandona il tavolo di confronto con il governo (seguita da Federchimica nella trattativa per il rinnovo del contratto nazionale dei chimici). L’irrigidimento delle posizioni confindustriali non viene dalla paura che il governo Prodi-Ciampi – sotto il presunto "ricatto" di Rifondazione – voglia imporre una legge antipadronale di drastica e generalizzata riduzione dell’orario di lavoro. Come ha spiegato bene a nome del governo il sottosegretario alla presidenza Micheli: "Sulle 35 ore non possiamo fare altrimenti, c’è un accordo tra i partiti di maggioranza. Ma la Confindustria non ha nulla da temere da questo provvedimento". Vale a dire: dobbiamo sì pagare un prezzo al PRC per il sostegno dato all’azione "risanatrice" del governo e a quello che si appresta a dare sul Dpef, ma non vi preoccupate, è solo un costo di facciata, una concessione virtuale. Inoltre, dal disegno di legge - che non prevede la parità di salario! - all’approvazione definitiva molte cose possono cambiare… e chi ha forza finchè i guiochi si svolgono nelle mefitiche aule parlamentari? Dato anche che gli stessi "rappresentanti dei lavoratori" riconoscono come sacrosante le necessità competitive delle imprese? Il proletariato o la borghesia? Lavoriamo piuttosto per fare della riduzione dell’orario legale un’occasione per un ulteriore sfondamento in direzione della flessibilità della prestazione lavorativa e di un utilizzo più intenso degli impianti, a tutto vantaggio del capitale, s’intende!. Con queste premesse il ritorno all’intesa non può tardare.

Non per questo la "rottura" tra governo e Confindustria va letta come una banale "messa in scena" per fregare i lavoratori. Le resistenze padronali contro la legge sulla riduzione dell’orario di lavoro sono reali e sono dettate dalla volontà di non cedere assolutamente nulla (neanche quel poco di formale cui pensa il governo) sulle condizioni di lavoro proletarie e, soprattutto, puntano ad ottenere il massimo possibile in tema d’intensificazione e flessibilizzazione dell’orario di lavoro, e di riscrittura delle regole del ‘93 sulla concertazione, per una ancor più profonda sottomissione degli interessi proletari al capitale. La situazione economica internazionale non lascia spazio ai vecchi metodi "democristiani" - riproposti in sedicesimo dall’accordo Prodi-Rifondazione - sempre volti al tentativo di tenere assieme tutti senza scontentare nessuno. È stato questo il segnale che la grande borghesia ha lanciato al governo: la necessità di "entrare in Europa per rimanerci" esige a breve una "cura da cavallo" che imporrà decisioni "dolorose" non più rinviabili, il governo si deve assumere le sue responsabilità.

La "rottura" di Confindustria mira, dunque, a condizionare ancor più fortemente a destra il quadro politico. La richiesta è che il governo spinga a fondo l’acceleratore nell’azione di risanamento del deficit, di ulteriore flessibilizzazione e frantumazione del mercato del lavoro (sull’esempio della Gran Bretagna ieri della Thatcher e oggi di Blair), di ridimensionamento complessivo della condizione e delle aspettative operaie.

Non è un caso, allora, che dopo le uscite di Confindustria, la cosiddetta "fase due" del governo (il "risanamento" accompagnato al miglioramento della condizione dei lavoratori) richiesta da "sinistra" e sindacati scompaia (se mai c’è stata) dall’agenda di Prodi, che non perde tempo a chiarire: "Se qualcuno mi volesse costringere ad aprire i rubinetti della spesa per creare occupazione, me ne vado". Il messaggio è chiaro: non esiste nessuna "fase due", anzi va rafforzata l’opera di "risanamento" (e questo rivolto non solo a Rifondazione ma anche a quelle forze come il PDS e i sindacati, che avevano chiesto di iniziare la fatidica e sempre rimandata "fase della ripresa e dell’occupazione").

È quello che D’Alema (e tutta la "sinistra") cerca di nascondere. Infatti, anche quando parla di "sviluppo e rilancio dell’occupazione", lo fa sapendo che si sta formando "un mercato del lavoro di tipo asiatico-americano" (ovvero assolutamente selvaggio), che al massimo ci si deve proporre di "controllare". Di qui l’invito a Cgil, Cisl e Uil ad "avere più coraggio" e a mettersi decisamente su questo terreno, traendone fino in fondo tutte le conseguenze.

La ricucitura tra governo e imprenditori era, dunque, inevitabile, non necessitando né di un passo indietro del governo, né, tantomeno, di Confindustria. Prodi ha semplicemente chiarito quello che già tutti sapevano: "La riduzione d’orario dovrà avvenire senza danneggiare la capacità competitiva delle imprese. Questo lo sa benissimo (nel senso: lo condivide!) anche Bertinotti" (a Parma il 1/4/98). E’ chiaro che in questo quadro non solo non si arriverà a nulla sul terreno di un’effettiva riduzione d’orario, ma questa "battaglia" - così come è stata impostata fin dall’inizio - minaccia di volgersi nel suo esatto contrario, in quanto ha dato spunto a Confindustria e alla borghesia tutta per portare ancora più a fondo il processo di liberalizzazione di orari (tipo gli accordi alla Piaggio e alla Magneti Marelli -v. pag. 18 -, con conseguente contrapposizione di occupati e disoccupati, v. riquadro), del mercato del lavoro (patti territoriali e contratti d’area da estendere a tutto il Meridione, in modo da creare una sorta di porto franco, con ampie deroghe alla contrattazione nazionale, che risaliranno in breve tempo tutta la penisola, con buona pace del contratto nazionale) in una corsa senza limiti al ribasso della forza lavoro (i padroni chiedono di poter gestire la contrattazione direttamente coi poteri locali - i famigerati sindaci - e con i sindacati territoriali, scavalcando la contrattazione nazionale) con l’inevitabile sfilacciamento dei residui elementi di unità della classe.

Ma tutto questo non basta. Confindustria strappa un ulteriore risultato. A braccetto col governo ottiene la disponibilità di Cgil, Cisl e Uil a riscrivere le regole del ’93 sulla concertazione, col preciso scopo di assestare un colpo al contratto nazionale. I temi della verifica dell’accordo del 23 luglio? Maggior decentramento dei sistemi contrattuali con ridimensionamento di quello nazionale e più spazio alla contrattazione aziendale, legata in modo più stringente ai vincoli della competitività e dell’andamento della singola azienda (all’interno di ciò si prevede per le grandi categorie, in primis quella dei metalmeccanici, lo scorporo sulla base delle "professioni"); maggiore flessibilità retributiva, con la possibilità di fuoriuscire dai contratti; una nuova organizzazione del tempo di lavoro. Insomma, la parola d’ordine è: flessibilità, flessibilità e ancora flessibilità!

È questo il quadro assai preoccupante che ci sta dinanzi. Oramai non tiene più neanche quella politica della concertazione al ribasso, quei graduali arretramenti contrattati che secondo "sinistra" e sindacato dovevano servire a preservare dal peggio il proletariato ed evitare i conflitti sociali.

E dire che solo poche settimane prima, Bertinotti aveva avuto il coraggio di scrivere su Liberazione (20/3/98): "Il tema della riduzione dell’orario di lavoro è entrato in una vera e propria fase operativa. Un risultato prezioso… (reso possibile dalla) determinazione del centrosinistra a rispettare gli impegni assunti e a superare le incertezze delle ultime settimane… il ddl sulle 35 ore viene a rompere (?!!) un quadro finora largamente favorevole agli interessi imprenditoriali". Lo si è proprio visto quanto fossero in difficoltà i padroni di fronte alla "brillante" iniziativa di Rifondazione! Solo la "sinistra" poteva credere (… vuol far credere ai proletari!) che il governo Prodi (foss’anche "solo" sulla vicenda delle 35 ore) stia dalla parte dei lavoratori.

Ora che i capitalisti italiani e i mercati internazionali suonano la campana per un nuovo affondo antiproletario, si troveranno il terreno spianato proprio dall’opera del "centrosinistra". Quel che si prepara è un aperto scontro di classe, a scala generale come di categoria (con i prossimi rinnovi contrattauali). La vera questione è come ci arriva la classe operaia, quale politica deve mettere in campo.

Qual è la politica di Cgil, Cisl e Uil? Innanzi tutto la difesa della stabilità del governo e il mantenimento della pace sociale. Agli operai viene chiesto di stringersi con maggior forza attorno al governo Prodi, innanzi tutto per rendere competitivo il sistema Italia e attrezzare il paese alla sfida che la concorrenza capitalistica internazionale pone. È da qui che nasce la posizione sindacale sulle 35 ore: si teme la perdita di competitività delle aziende e dell’economia nazionale nel caso si andasse a una riduzione generalizzata (ossia non contrattata solo laddove è conveniente per stabilire nuovi sistemi di turnazione). Su questo il dissidio. Ma, in fondo, non esiste una contrapposizione di principio tra sindacati e Prc. Entrambi concepiscono la difesa operaia come dipendente dalla difesa delle aziende sul mercato globale: i primi "coerentemente" cercano di non coltivare illusorie aspettative, che se coerentemente portate avanti metterebbero in discussione il quadro sociale; il secondo vorrebbe, invece, far coincidere la riduzione d’orario con l’interesse delle aziende e del capitalismo, in quanto ridurrebbe la disoccupazione e aumenterebbe i consumi.

Nessuno si richiama allo scontro sui reali interessi di classe, contrapposti da cima a fondo a quelli borghesi. In questo contesto è comprensibile la freddezza che il tema incontra tra la massa dei lavoratori. Possono davvero sostenere una rivendicazione che attacca in modo così deciso il profitto quei partiti e sindacati che hanno un tabù riverenziale verso di esso? Possono mai sostenere una riduzione d’orario a tutto vantaggio del lavoratori quelli stessi che propugnano nella classe la necessità di sostenere l’imprese e contribuire al risanamento? E se le imprese vanno sostenute, perchè metterle in difficoltà con le 35 ore? E’ la base stessa su cui questa lotta si fonda che le dà scarsa credibilità agli occhi dei lavoratori: sua pretesa di voler conciliare gli opposti (ridurre lo sfruttamento operaio senza intaccare il profitto). Una vera lotta per ridurre l’orario di lavoro può darsi all’unica condizione di non farsi carico di alcuna compatibilità con il profitto. Questa la verità nuda e cruda. E non a caso il proletariato ha ottenuto le riduzioni significative dell’orario di lavoro solo nei momenti in cui ha lottato per sé, per i suoi interessi di classe, senza preoccuparsi dei danni che avrebbe fatto alle imprese e all’economia nazionale, quando si è posto su un terreno rivoluzionario, evocando, di conseguenza, ben altro terrore e ben altra reazione da parte della borghesia che le alzate di scudi di un Fossa!

Le micidiali illusioni attorno all "governo amico" e ai comuni interessi borghesia-proletariato, sono pagate a prezzo sempre più caro dalla classe operaia. L’attuale governo di "sinistra" sta portando avanti una politica di profonda divisione della condizione operaia, che incrina l’unità organizzativa e di lotta dell’intera classe e sta pericolosamente allargando il fossato tra proletari del Nord e del Sud, tra regione e regione, tra azienda e azienda, tra occupati presunti "garantiti" e giovani realmente precari, disoccupati, immigrati.

E’ a questa politica che va dato uno stop! Battersi per la riduzione dell’orario di lavoro non può essere disgiunto dalla ripresa di una vera resistenza all’offensiva concreta della borghesia, su tutti i campi. Non può prescindere dalla necessità di coinvolgere nello scontro l’insieme delle categorie e tutto il proletariato. Non può prescindere dal ricercare un fronte internazionale di lotta (sviluppando i legami oggettivi prodottti dallo stesso capitalismo, v. riquadro sulla Fiat in Brasile). Per questo è fondamentale divincolarsi dall’illusione di poter difendere insieme interessi proletari e interessi delle aziende, e rompere, dunque, con l’insieme della politica riformista.

Sulle 35 ore, dalla Germania

"Una volta, quando c’era meno lavoro, i capi tuttalpiù dovevano pensare a cosa farti fare. Ora ti dicono di stare a casa un paio di giorni e poi, quando torni, sei messo di nuovo sotto, lavori tutta la settimana e poi, ancora, il fine settimana perché devi recuperare il tempo non lavorato prima..."; "Tra noi in fabbrica c’è rabbia: ogni giorno cambiano gli orari, non sai mai quante ore ti toccheranno la settimana successiva, se ci sarà la notte o no, se il prossimo sabato sarà libero o si dovrà lavorare...".

Cronache consuete dalla piccola fabbrica non sindacalizzata di un paese povero? Nient’affatto. Sono solo due voci di delegati di due fabbriche della "ricca" Germania. Già, la stessa Germania presa a esempio dalla "sinistra" nostrana ...

E dire che l’introduzione delle 35 ore lì ha rappresentato l’obiettivo per cui nel 1984/85 la classe operaia ha lottato duramente, imponendo alla controparte il peso della propria forza organizzata.

L’attacco padronale e la criminale responsabilità del riformismo - fermo nell’accettare sempre più le compatibilità aziendali e nazionali e dunque la flessibilità - hanno ribaltato i risultati di questa vittoria, potenzialmente unificante per il proletariato, portando ad una selvaggia disgregazione della classe operaia: individualizzazione degli orari, banche del tempo con possibilità di accumulare fino a 300 ore in meno o in più, compensazione oraria su base annuale o pluriennale, ridefinizione anche bisettimanale degli orari da rispettare...Un vero e proprio inferno, in cui i lavoratori, presi individualmente, vengono consegnati alle esigenze di produzione, senza la possibilità di delimitare tempo di lavoro e tempo libero, in un’incertezza accresciuta dal fatto che le direzioni aziendali utilizzano questa flessibilità per estromettere ed emarginare i lavoratori "meno produttivi" e meno disposti a ubbidire ciecamente oppure selezionando le aree in cui dovrà lavorarsi di meno, e creando differenziazioni salariali che incidono pesantemente sulla divisione operaia all’interno di una stessa fabbrica.

Questa dunque la realtà sulle 35 ore "realizzate" in Germania dopo una vera lotta. (Figurarsi cosa sarà qui da noi senza mobilitazione). Un’inversione di tendenza può venire solo dalla risposta che il proletariato, a scala internazionale, saprà dare all’attacco che il capitale sta sferrando alla sua unità. Ai comunisti il compito di trasformare la rabbia esistente nella classe operaia in critica e lotta alla politica riformista che ha portato a questa situazione.

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