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Il pantano dell’Italietta del Duemila: Rifondazione

La Confederazione Comunisti/e Autorganizzati:
IL "PARTITO" COME LIBERO PATTO ASSOCIATIVO
TRA INDIVIDUI/E AUTONOMI/E E SOVRANI/E,
OVVERO: AL PEGGIO NON C’E’ MAI FINE...

Indice

Vecchi e nuovi delusi della "deriva riformista" di Rifondazione si sono dati appuntamento per la costituzione di "un soggetto politico comunista" che dovrebbe formalizzarsi il 7 febbraio ’98 (può darsi che questo numero di giornale esca a cose già fatte, ma noi ne scriviamo preventivamente essendo esse per noi già note con buon anticipo) e ci forniscono i punti salienti del loro "progetto" attraverso un paginone a pagamento sul Manifesto (13 dicembre ’97).

Che ci siano dei militanti cui dà il voltastomaco la politica rifondaiola in quanto totalmente appiattita alle regole borghesi del gioco, e che, di fronte ad essa, rivendichino, perlomeno nelle intenzioni, le ragioni di classe non ci sta, naturalmente, male. Da sempre ci siamo rivolti agli elementi combattivi e consci, se non altro, della propria appartenenza al proletariato-classe antagonista del capitale, pur facenti parte di formazioni riformiste all’immediato, perché osassero sollevare la propria bandiera. All’interno delle "proprie" formazioni politiche di appartenenza? La cosa non ci ha mai turbato, in quanto sappiamo benissimo che, sempre, si comincia da qualcosa di lontano dalle nostre posizioni, dalle posizioni del marxismo, che rappresentano per la classe stessa nel suo insieme un punto d’arrivo e non un miracoloso punto di partenza. Da sempre abbiamo spinto a questa battaglia tutti i sani elementi "non nostri", e tuttora lo facciamo andando, in estensione, sin oltre i confini di Rifondazione, ponendo ad essa due sole condizioni: prima, che i suoi protagonisti diretti si dimostrino coerenti sino in fondo con le proprie ragioni di classe, non ritraendosi dallo scontro con le "proprie" dirigenze a metà strada quando questo si dimostri -com’è- necessario; seconda, che, per parte nostra, mai ci sogniamo di indicare ad essi, quale sbocco logico finale, di tale battaglia un risultato "entrista" di "raddrizzamento" a metà strada delle organizzazioni in oggetto, bensì quello della inevitabile rottura con esse, sul piano dei contenuti, del programma e quindi dell’organizzazione.

Qui sta tutto il nostro fronteunitarismo leninisticamente inteso, non strumento di mediazione pasticciata con i rappresentanti della borghesia in seno al movimento operaio, ma arma di scardinamento delle loro postazioni da parte del movimento operaio stesso.

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Medicine che eliminano il male uccidendo il paziente

Potremmo, dunque, a questa stregua, salutare con soddisfazione quest’ultimo esperimento di costituzione di "un soggetto comunista", quand’anche largamente distante da noi, e sempre a patto di non considerare qui chiusa la partita, se esso rispondesse ai criteri minimi di una vera battaglia dentro la classe e in direzione dell’insieme di essa attorno a posizioni indipendenti ed antagoniste sul piano teorico-programmatico.

Così, purtroppo, non è, e non è la prima volta che capita. Quando si formò il gruppo del Manifesto in rottura con l’allora PCI, il giornale della sinistra comunista, Programma Comunista, scrisse di un partito a destra con una sinistra ancora più a destra e, per quanto ciò potesse sembrare paradossale in presenza di tanti Magri-Pintor-Rossande sventolanti le insegne della rivoluzione maoista da trasporre anche in Italia, si era perfettamente nel giusto. L’orizzonte piccolo-borghese, vanamente demopacifista e culturalista (al di sotto di una fraseologia barricadera alla superficie) mostrava sin dagli inizi, a chi aveva i mezzi marxisti per intendere, che tutto questo baillamme potopista, consiliarista, guardiarossista si sarebbe inevitabilmente concluso in una versione ancor più fetida di quella del PCI di partenza. Una volta sgonfiatosi il serbatoio "rivoluzionario" del proprio punto sociale di riferimento (intellighenzia, studentame, marginali, esclusi, "diversi" e via via; cioè i tipi veramente coscienti non intruppabili dal riformismo, secondo la vulgata manifestina; cioè tutto fuorché il proletariato), gli informi programmi costruiti sulle casematte rivoluzionarie da conquistare progressivamente, gradualisticamente (leggi: democraticamente) all’interno della società presente avrebbero inevitabilmente preso l’aspetto del riformismo possibile, sino agli elogi all’attivismo di Craxi visto in chiave "antidemocristiana" e oggi all’Ulivo, passando per la sponsorizzazione del democratico Clinton in lizza con la reazione di casa sua. Il tutto gettando alle ortiche ciò che mai s’era delibato, cioè qualsiasi straccio di reale organizzazione di partito incentrata sull’antagonismo proletario (perché: primo, il referente sociale dev’essere "aperto" e "plurale"; secondo, "pluralista" e "democratica" dev’essere l’organizzazione chiamata a rifletterla sulla base delle "libere ed indipendenti" Idee e delle Volontà Individuali).

La stessa cosa, purtroppo, si deve dire dell’attuale "progetto", pur con le debite varianti d’uopo. Anche in questo caso, il retroterra "culturale" rimane lo stesso, crassamente riformista, di quello del ceppo da cui si affetta il distacco e sia pure con qualche roboata dura d’obbligo per distinguersene sul "mercato", e quel tanto, o pochino, che si vorrebbe dimostrare d’avere in più sul terreno della combattività viene immediatamente pagato con un ulteriore rinculo su quello di una visione realmente globale dei problemi (il riformismo classico, al suo controrivoluzionario modo, ce l’ha) e soprattutto su quello della configurazione dello strumento-partito che qui (allo stesso modo che presso gli "antichi" ex-contestatori del Manifesto) perde ogni residuo aspetto di organicità e centralismo per risolversi, come vedremo, nell’ennesima e svaccatissima neoversione assembleare, democraticistica e, in fin dei conti, individualistica delle mille personali opinioni personali che s’incontrano e si "confederano" fra loro, fatti salvi gli inalienabili "diritti" d’ogni signor Ciascuno.

Questo "progetto" non nasce da alcuna vera battaglia preliminare né all’interno di Rifondazione né all’interno della classe, né riceve dall’esterno apporti che valgano a spingerlo oltre, sia pure immediatisticamente, in assenza di decisivi scenari di scontri di classe in atto. I suoi presupposti di partenza si limitano sostanzialmente a due: 1) la disaffezione di elementi di Rifondazione rispetto alla politica coerentemente pro-ulivista di questo partito in quanto inconcludente rispetto agli interessi immediati di classe, ma senza nessuna rimessa in causa dei fondamenti di tale politica; 2) la precedente disaffezione di altri elementi rispetto alla politica codista (altrettanto coerente) dei sindacati triconfederali sempre in ordine a quanto sopra. Questi ultimi "soggetti" già da tempo avevano messo in piedi delle strutture sindacali cosiddette alternative rigorosamente chiuse entro confini assolutamente corporativi (ancorché, talora, con connotati di forte combattività entro questi strettissimi limiti) ed oggi pretendono di dare ad esse una veste politica, illudendosi di risolvere su questo piano quanto non hanno neppur saputo impostare su quello propriamente sindacale, e senza per ciò sapersi liberare d’uno iota dei precedenti limiti. I primi, dopo aver registrato l’improponibilità di una linea politica "alternativa" rimanendo chiusi entro il recinto di Rifondazione, si propongono di crearsene un’altra, a proprio uso e consumo, approfittando della già esistente base di malcontento organizzata nel sindacalismo di base che si spererebbe di allargare e "rappresentare". Con quale programma? E rivolto a chi? E con quale tipo di organizzazione militante?

Andiamo direttamente a leggerlo nel documento in questione.

Una prima osservazione. Una forza politica che si voglia realmente rivoluzionaria (ma qui forse non è il caso di chieder troppo...) esordisce di regola illuminando il campo di battaglia, dichiarando "chi siamo e cosa vogliamo" di fronte ad esso. Così il Manifesto di Marx: "Uno spettro s’aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo" e: "E’ ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze e che alla fiaba dello spettro del comunismo contrappongano un manifesto del partito". Questo l’inizio d’obbligo, e tutto quel che segue viene di conseguenza: cos’è il capitalismo, dove esso deve metter necessariamente capo, critica dei vari "socialismi" fasulli, programma dei comunisti. Se oggi qualcosa è cambiato, per noi, è unicamente nel senso di una maggior attualità del comunismo, che preme da tutte le viscere della putrescente società attuale, e della maggior urgenza di dichiarare a tutto il mondo su quale terreno, per quali obiettivi, con quali strumenti ingaggiare la lotta.

Qui si procede all’opposto. Si comincia, anzi, col chiedersi, quasi a giustificazione di quanto segue, se sia ancora il caso di parlare di comunismo dopo tante batoste: "Molti compagni, dopo un periodo di sconfitte politiche del movimento operaio e di fallimenti delle esperienze comuniste, si chiedono se la strada di un nuovo soggetto politico comunista sia ancora possibile". Parrebbe che lo spettro del comunismo faccia paura soprattutto a chi scrive... In luogo di una ferrea rivendicazione delle ragioni del comunismo, abbiamo l’interrogativo angosciato se è possibile, se ne vale la pena.

Non senza qualche ragione, visto che costoro rivendicano espressamente come propria ascendenza il corso delle esperienze fallimentari precedentemente consumate, in nessun punto rimesse in causa nella loro natura controrivoluzionaria (stalinista, post-stalinista, "anti"-stalinista...): altro che fallimento delle esperienze comuniste!; lì siamo di fronte al baccanale di esperienze controcomuniste, e se la "rifondazione" non comincia da qui è inutile tentare di andar oltre, perché ogni "nuova" strada che ricalchi le vecchie è destinata all’immondezzaio. Ben prima dell’89 Bordiga anticipava: questo Himalaya di merda si affloscerà da sé e sarà solo vana e graveolente fatica quella di coloro che vorranno rimetterla in piedi (magari con l’ambizione di... maggiori vette).

"La domanda -prosegue il documento-, si pone pressante specialmente dopo l’ennesima deriva riformista" di Rifondazione, nata "per essere il cuore dell’opposizione" ed approdata, "dopo sette anni", all’accordo programmatico con l’Ulivo, Maastricht, il capitale internazionale. Ancora una volta no! La domanda nasce dalla mancata coscienza che il PRC, sin dal suo esordio, è stato, e rimane, un partito a velleità riformistiche (pur in un’epoca in cui gli stessi margini riformistici, diceva Bertinotti, si restringono e tendono a sparire), che può benissimo essersi posto, e lo potrà ancora, in opposizione a questo o quel centro politico iper-liberista selvaggio, ma sempre e comunque fungendo da supporto integrato al sistema capitalista. Se questo non l’avete visto prima, e ancor più non ne avete inteso le deterministiche ragioni, cercate perlomeno di capirlo ora, liberandovi gli occhi dalle tonnellate di prosciutto che le foderano e facendo un marxistico mea culpa per averne accreditato l’inganno di fronte alle masse da voi stessi trascinate nell’inganno. E invece no, siamo sempre alla panzana delle tristi conclusioni che "sette anni dopo" conseguono alle buone premesse, non si sa come, non si sa perché, e non si sa come e perché dovrebbero essere oggi evitate da nuovi formalismi organizzativi senza mai rimettere in causa i motivi della precedente débâcle.

Il "nuovo soggetto politico" dovrebbe manifestarsi "a partire dall’opposizione al governo Prodi" sulla base di "soggetti sociali concreti" (ci mancherebbe solo che fossero astratti: ma, intanto, perché non cominciamo col dare ad essi un aggettivo, putacaso: proletari?). Così posto, l’atto di nascita è già un atto di morte prematura. Le fondamenta di un partito comunista non sono date dall’opposizione ad un dato governo, ma dall’antagonismo rispetto ad un sistema. L’opposizione al governo Prodi, per essere una cosa seria, in grado di seriamente mobilitare delle truppe, deve stare interamente dentro queste coordinate. Denunziare il governo Prodi ha un senso solo a patto di denunziare non soltanto il carattere capitalistico di esso, ma l’insieme della logica del riformismo che subordina la classe alle soluzioni non diciamo più progressiste, ma meno... regressiste del capitale, che propaganda un meno peggio, in assenza di ogni visione ed azione antagoniste. Cioè l’insieme delle "esperienze comuniste" di cui Rifondazione è poi il penultimo anello, per ora, l’ultimo essendo quello di costoro, che lo contestano in nome dell’eredità legittima ad essi spettante. La logica, quindi, del togliattismo, anche quello più "combattivamente" d’opposizione (e che opposizione, per le masse, in certi casi!). La logica, prima, dello stalinismo in tutte le sue varianti (comprese quelle rivoluzionarie, e, in certi casi, dal punto di vista borghese, realmente tali). O, altrimenti, è del tutto comprensibile che il buon proletario medio, di base, giustamente (da un punto di vista riformistico, in assenza di ogni concreto riferimento rivoluzionario) accetti e magari sostenga il buon Prodi o chi per esso che "ci bastona sì, ma non come farebbe Berlusconi". Se la logica ha da esser quella, ci sia un po’ di logica! Chi pretende di rifiutarne le conseguenze spiacevoli lo faccia partendo dalla radice. O taccia.

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Cosa recuperare del passato? La controrivoluzione!

Chiedere agli estensori del presente documento anche solo di avviare una riflessione in merito sembra davvero troppo. Allorché si tratta di definire le coordinate teorico-programmatiche e politiche del costituendo fantasma, infatti, essi se la cavano così: "Facendo riferimento alle esperienze concrete di questo secolo sarebbero più gli aspetti da non ripetere che quelli da utilizzare" (quali?, perché?, e da sostituire con cosa?); sarebbe necessario "il recupero critico del patrimonio di pensiero del marxismo e delle esperienze rivoluzionarie iniziate con l’Ottobre russo", ma "ovviamente recupero attualizzato, senza continuismi, ma anche senza rimozioni e scomuniche". Un perfetto linguaggio da gesuiti! Non si dice mai cosa s’intenda "recuperare" e cosa scartare (anche se comprendiamo benissimo che destinato allo scarto è l’essenziale della lezione marxista di sempre e sempre attuale) e non si capisce cosa significhi, ed a cosa si applichi, la non rimozione visto che il più è "da non ripetere" (perché "inattuale" o perché già allora "sbagliato"?).

"Questioni molto complesse", sentenziano i nostri, e difatti nulla è più complesso di un’equazione in cui manchino i termini. Quel che ci assicurano è che non indulgeranno a "mode nuoviste" (salvo un’ "attualizzazione" a 360 gradi), ma, soprattutto, al "fraseologismo dogmatico", cioè, leggi bene, al marxismo conseguente e invariante che sta alla base di ciò che resta perennemente vivo delle esperienze del passato, che esso rivendica in toto ed in assoluta continuità per averle tenacemente e continuativamente difese contro l’ondata degenerativa e controrivoluzionaria che le ha sommerse e cancellate, soprattutto allorché ha preteso di apparirne quale la continuazione: quell’ondata i cui ultimi detriti "comunisti" sono i partiti delle rifondazioni affondanti e dei recuperi destinati al macero.

E’ ben vero che si accenna alle "degenerazioni a partire dallo stalinismo" ed al revisionismo "a partire dall’esperienza kruscioviana", ma la cosa non ci commuove affatto. Il revisionismo del marxismo, da Mosca a... Botteghe Oscure, non data da una "esperienza" ’56, ma dallo stalinismo stesso, russo e internazionale, passando proprio per i grandi luoghi deputati della retorica resistenzialista "nazionale", tanto per dire, col suo collaborazionismo di classe a pro’ della guerra imperialista, di cui sono figli legittimi ex-PCI, PDS, PRC e gli ultimi venuti, di cui già intravediamo le velleità di lotta contro il "predominio tedesco" sull’Italia (ennesima riverniciatura delle bandiere nazionali lasciate cadere nel fango dalla borghesia e riprese in mano dal proletariato!).

Quanto alle "degenerazioni" staliniste, ci vuol poco a capire che qui dello stalinismo si contesta non il rovesciamento della prospettiva autenticamente comunista internazionalista di Lenin e chi con lui (il PCd’I diretto dalla Sinistra, ad esempio), ma le "modalità brutali", in quanto "antidemocratiche", nel perseguire la via della "costruzione del socialismo nella Russia sola". E noi diremmo allora che, fosse stata plausibile e vera quella "costruzione", nessuna "brutalità" sarebbe stata di troppo, foss’anche stata nei nostri confronti, visto proprio che "la rivoluzione non è un pranzo di gala"...

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"Comunisti" dello... stivale

Ma c’è un’altra cosa, e ben più importante, che emerge dallo schemino di cui sopra della costruzione del partito "a partire da". Ed è che, proprio mentre si affastellano confusamente alcune considerazioni sul "nuovo capitale" (a proposito di "attualizzazioni"...) che "distrugge le piccole e grandi intermediazioni", non solo non si delineano i tratti salienti della cosiddetta mondializzazione capitalistica attuale (qui si parla unicamente di "concorrenza interimperialistica" senza inserirla nel suo specifico e concreto quadro attuale con tutto ciò che ne consegue: il che non è male per degli "attualizzatori" del genere!), ma, soprattutto, non una parola viene spesa per la mondializzazione esponenzialmente crescente dell’antagonismo proletario, per il carattere crescentemente internazionalista della lotta proletaria come dato oggettivo cui il dato soggettivo del partito può e deve riferirsi oggi non diversamente da ieri -dal 1848!-, ma oggi certamente in maniera più diretta e potenzialmente vincente. Nessuna "esperienza" di lotta extra-italiana del proletariato viene qui neppur lontanamente menzionata. Tutto nasce e si conclude nel ristretto patrio orticello. Neppure si dice: cominciamo da qui, da dove ci siamo (che sarebbe di già sbagliato), per proiettarci poi oltre, per stringere quei legami di cui la nostra battaglia, di qui e di dovunque, ha bisogno. No. Di quello che si muove altrove, nel cerchio sempre più strettamente unificato mondialmente del capitale e del proletariato, non ce ne frega nulla, perché noi siamo tricolori, italiani, qui e solo qui ci siamo e ci resteremo.

Poveretti noi che c’immaginiamo lo scenario antagonistico come un tutto e dedichiamo insensatamente buona parte delle nostre deboli energie a scrutare ogni lotta proletaria "lontana", a cercare di renderla vicina a quelle "nazionali" a noi più prossime, considerando che qualsiasi serio movimento di una frazione "nazionale" di classe, ancorché distantissimo chilometricamente da noi (vedi i recenti fatti sud-coreani), interagisce sul movimento complessivo internazionale! Poveretti noi che ancor più lavoriamo a tessere legami omogenei con tutti i tentativi, ancorché deboli e sparsi, dell’avanguardia comunista di ogni parte del mondo per arrivare alla formazione di un partito comunista che pensiamo e vogliamo mondiale quale unica possibilità di esser tale!

Non sarà male ricordare ai nostri neo-ingegneri un passaggio della Critica al programma di Gotha sul tema, in polemica col lassallismo: "In opposizione al Manifesto del partito comunista e a tutto il socialismo precedente, Lassalle aveva concepito il movimento operaio dal più angusto punto di vista nazionale. Lo si segue in questo, e dopo l’azione dell’Internazionale! S’intende da sé che per poter avere, in generale, la possibilità di combattere, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto, non per il contenuto, ma "per la forma". Ma "l’ambito dell’odierno stato nazionale", per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente "nell’ambito" del mercato mondiale (già allora..., n.), politicamente "nell’ambito" del sistema degli Stati. Anche il primo commerciante che capiti sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica internazionale. E a che cosa il Partito operaio tedesco riduce il suo internazionalismo? Alla coscienza che il risultato del suo sforzo "sarà l’affratellamento internazionale dei popoli", frase presa a prestito dalla Lega borghese per la libertà e per la pace... Nemmeno una parola, dunque, delle funzioni internazionali della classe operaia tedesca!".

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"Vogliamo tutto", democraticamente

I nostri, oltre a stare al di sotto del primo dei commercianti, non arrivano neppure all’"internazionalismo" della Lega borghese di cui sopra. Semplicemente non ne parlano affatto!

Non stupisce a questa stregua che i nostri, dopo aver detto che "ogni conflitto limitato che sia, che provenga dal bisogno, svela il suo nemico, svela cioè la struttura capitalistica" (il che è già una bella esagerazione spontaneistica, per dirla con Lenin), propongano "programmi fortemente riunificanti a partire dalla materialità dei bisogni" limitati e svelati per il nostro paese solo, del tipo "grande campagna per l’occupazione garantita e tutelata". Già il termine campagna sa da déjeuneur sur l’herbe; ma che dire delle garanzie e della tutela per l’occupazione? Solo in Italia? E da parte di chi? Del capitale italiano solo a ciò costretto dalle formidabili campagne "realmente riformiste" del proletariato italiano solo?

Siamo, almeno, in tema di obiettivi trainanti" da programma di transizione per offrire il destro a ricongiungersi all’obiettivo rivoluzionario, sia pure in un paese solo? E’ lecito dubitare anche di ciò, non solo, piccolo particolare!, perché il termine rivoluzione è accuratamente esorcizzato, ma perché qui si dice: a) che "il terreno dello scontro non si pone più dentro le istituzioni"; b) che "il blocco sociale (di riferimento, e di cui non sono dati contorni, n.) non ha trovato ancora gli strumenti e i luoghi dove legittimarsi come potere democratico", cioè "dove il contropotere sia legittimato dalla maggioranza a partire dalla rappresentanza nei luoghi di lavoro, di studio, sul territorio". E addirittura si ciancia che "i rappresentanti istituzionali di una forza politica alla quale può far riferimento il blocco sociale anticapitalista diventano il possibile strumento per le proprie autonomie e finalità antagoniste". Se abbiamo capito bene, impresa non facile!, il tanto declamato antagonismo antisistemico si concretizzerebbe gradualisticamente, riformisticamente quale somma di contropoteri autonomi per "pezzi" di società rappresentati istituzionalmente da una forza politica in grado di favorire le singole autonomie sulla base della più ampia democrazia, cioè della facoltà di ogni "contropotere" di agire da sé e per sé contento che ogni altro lo possa fare in egual misura. Per dirla con Marx: in luogo della socializzazione abbiamo qui una universale privatizzazione della società scambiata, ahinoi!, per sinonimo di socialismo. Il tutto, ovviamente, senza passare per la rivoluzione -resa superflua dalla crescita dei contropoteri entro la società presente-, e men che mai per la dittatura del proletariato, sostituita da un proliferare di tali contropoteri rappresentati istituzionalmente nella loro autonoma individualità "di base". (Tant’è: negli statuti dei sindacati "alternativi" è già sancito che ogni pezzo singolo può, anzi deve, fare per sé, anticentralisticamente, iperdemocraticamente, ultrabasisticamente, sennò siamo alla... dittatura!).

Tutto ciò trova conferma nel nuovo modello di partito che si propone.

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L’individuo, l’ombelico del mondo

Il principio di base è sempre quello: l’autodecisione, l’autoorganizzazione, "l’attività anziché la delega", cioè una formula di meccanica formale a surroga di ogni e qualsiasi contenuto, qui del tutto assente. Il modo di essere dell’organizzazione aspira a trasformarsi nel suo contenuto. E questo contenuto è, per l’appunto, la democrazia unitamente allo spontaneismo. Posto che l’immediatezza dei rapporti sociali di per sé ci dà l’antagonismo dispiegato e la coscienza -a sentire i nostri-, è evidente che l’organizzazione politica che ne deriva meccanicamente non ha bisogno di una scienza e di un’arte della rivoluzione come fattori distinti, nega a priori il concetto marxista del partito organo centralizzato della classe, ma si limita ad esserne l’espressione (istituzionale!, vedi sopra), il puro e semplice riflesso. E poiché ogni singola idea, ogni singola volontà, ogni singolo contropotere nascono "dalla base" e trovano in essa la propria legittimazione, il tutto deve presentarsi sotto l’aspetto della massima democrazia. Inutile rispiegare qui il Che fare? di Lenin, che presupponiamo annoverato tra gli esempi preteriti da non ripetere, ma ci sia concesso di dire che questa visione che vede nascere spontaneamente l’antagonismo di classe dalla realtà sociale "in sé", lo vede svilupparsi sino alla conquista di contropoteri universalmente diffusi e, attraverso ad esso, sino al "superamento" del capitalismo per via contro-istituzionale, senza alcun bisogno di un vero partito nel senso marxista e men che mai di una vera rivoluzione, rappresenta una perfetta apologia riformista del capitalismo. Un capitalismo che suscita da sé l’antagonismo sociale destinato a "superarlo" e gli lascia gradualmente posto attraverso una dilatazione continua di contropoteri sino ad accettare di andarsene democraticamente in pensione è precisamente il tipo di capitalismo che s’immaginavano i vari Bernstein e Turati (con qualche conseguenza pratica). Il "socialismo" che viene a sostituirlo "superandolo" è nient’altro, come in quegli stessi, che un capitalismo riformato. Il partito che tale operazione dovrebbe riassumere in sé, così come ogni altra forma neo-istituzionale "veramente democratica" di riferimento, non solo in nulla diversi dalla concezione di partito e stato "socialisti" eredi e continuatori riformati delle precedenti forme di potere espressamente borghesi.

"Oggi, a differenza del pensiero unico del mercato -si legge a conclusione del documento in esame-, non esiste un pensiero unico comunista". E non si tratta di una tragica assenza provvisoria, ma dell’ideale stesso cui guarda la futura compagine neorifondina. Essa deve vivere come "una forma pluralista anche se non eclettica" basata su un "percorso" (non si pronunzi mai la parola piano!) "aperto al contributo" di tutti... i contribuenti. Perciò si "propone" per essa il nome di "Confederazione comunisti/e autorganizzati". A ognuno (ed ognuna, per non trascurare l’"autonomia" di sesso) il suo "auto"; tutti auto-insieme preservandosi per diritto sovrano la "propria" autonomia.

La nostra dogmatica posizione è ben nota. Un antagonismo di classe fondamentale esiste, ed è quello tra proletariato e borghesia, tra socialismo e comunismo. Un pensiero unico (una scienza unitaria, diciamo noi) che illumini e guidi questo antagonismo esiste, ad onta di tutti i bavagli impostili, ed è quello che si racchiude nelle sacre ed immutabili tavole (chi vuol sfotterci lo faccia pure!) del marxismo. Su queste basi soltanto può darsi il partito, organo collettivo in cui nessuno milita "in proprio" e "pluralisticamente", ma, per l’appunto, quale cellula strettamente dipendente dal corpo complessivo di cui fa parte; in cui non ci sono Idee, tanto meno Individuali, da democraticamente "confederare", ma un solo esercito, forte di un’unica scienza, rigidamente centralizzata.

Se anche questo banale abc del marxismo sfugge ai costruttori dell’ennesima "alternativa" al riformismo (... tradito, e da riscattare) ed è anzi rovesciato e vilipeso nel suo esatto contrario sappiamo già dove esso andrà a parare, e non sarà un bel vedere... Nella foga di reagire ai "tradimenti" di un Bertinotti costoro inneggiano un po’ di più (ma solo un po’) all’antagonismo, ma cominciando proprio con lo smarrire le nozioni stesse della centralità proletaria e della centralità monoblocco del partito, cose almeno che un Cossutta, da vecchio marpione riformista e per le sue sottoriformistiche ragioni, ha ben presenti e smarrendo le quali si va a destra e non già a sinistra, ad onta di tutti i botti accesi e le buone intenzioni.

Già: un partito di destra con una sinistra ancora più a destra, il cui unico risultato sarà quello di soffocare proprio quella "spontanea" propensione alla lotta dei tanti o, presumibilmente, pochi che aderiranno all’impresa nell’illusione di aver trovato una bandiera alternativa cui delegare i propri interessi di classe! Diciamo dei pochi perché della gente che pur predica l’extra ed anti-istituzionalismo (coi connotati che s’è visto!), ma indissolubilmente legata ad una visione micronazionalista ed iperspontaneista, nonché ultrademocraticista, dello scontro si troverà pressoché immediatamente nell’impossibilità di far quadrare i conti. Una volta trovatisi privi di rappresentanza e finanziamento statali vedranno di non avere realmente nulla da sostituirvi per "far sentire la voce degli oppressi", e relativi stati maggiori, ed il loro destino sarà allora irrimediabilmente segnato. Fatta esclusione per chi anche di quest’ennesima rovinosa "esperienza" avrà saputo far tesoro a tempo debito. "Presto ché è tardi", però...

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