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Il pantano dell’Italietta del Duemila: Rifondazione

RIFONDAZIONE COMUNISTA: IL PERCHÉ DI UNA CRISI MINACCIATA E DI UN ORDINATO RIENTRO NELL’OVILE

Indice

L’episodio della minaccia di messa in crisi del governo Prodi da parte di Rifondazione e del successivo, e quasi immediato, ritorno ad una rafforzata fiducia potrebbe annoverarsi tra i tanti fatti bizzarri di colore cui l’attuale politica nostrana ci sta abituando, ma ciò ci aiuterebbe ben poco a comprendere la sostanza delle questioni di fondo sul tappeto. Che Bertinotti e i suoi non se la cavino male come saltimbanchi è assodato, ma nelle loro piroette c’è, a suo modo, una logica coerente ed è proprio questa che va capita.

Il ruggito... del verme

"Presidente Prodi, ci rivolgiamo a lei, che aveva suscitato [fra i lavoratori, i pensionati, i giovani, i disoccupati] così alte attese di riforme, di trasformazione, di cambiamento, (...) per dirle che le sue parole non ci hanno convinto. Vi è un punto che ci divide nettamente e strategicamente ed è sul chi deve pagare per entrare in Europa e per risanare i conti pubblici. Noi crediamo infatti che sia assurdo e profondamente ingiusto che a pagare tutto ciò siano sempre e solo, come purtroppo accade da troppi anni, i pensionati e i lavoratori.

(...) Non ci avete ascoltato, non avete accettato il compromesso [con le nostre rischieste] (...) perché tra le banche, i mercati e la Confindustria, da un parte, e la povera gente, dall’altra, avete scelto i primi!

Ci avete costretti. Ma se votassimo a favore del taglio delle pensioni, del rigore a senso unico senza badare ai contenuti, anche noi ci omologheremmo a una politica che diviene sempre più solo teatro, chiacchiera, gioco di potere, una sorta di grande e tragico gioco della guerra dal quale spariscono i problemi della gente, la voce vera della gente, quella gente che già oggi fa fatica ad arrivare alla fine del mese con il proprio salario e la propria pensione, che paga l’affitto di casa, i libri di testo per la scuola dei figli, e che è disperata perché disoccupata.

Il vostro obiettivo è risanare il bilancio dello Stato, ma sembra che abbiate dimenticato i bilanci concreti delle famiglie in carne e ossa. Noi -questo il punto di fondo- non ci arrendiamo a questa politica. Volevamo un ragionevole compromesso tra risanamento ed equità; non lo avete voluto e ve ne accollate una pesantissima responsabilità."

Dall’intervento di Diliberto alla Camera in occasione della "crisi" di governo

Che il bilancio del governo Prodi fosse ampiamente deludente, per usare un eufemismo, dal punto di vista degli interessi di classe e che ciò dovesse imprimere una mossa ai supposti rappresentanti di essi era chiarissimo non solo per Rifondazione, ma persino al PDS (propugnatore di una "fase due" di "riforme" una volta compiuto il "risanamento" ed imposti i relativi sacrifici, senza virgolette questi!). Rifondazione, quindi, doveva fare qualcosa, dato il suo specifico referente sociale e i suoi strombazzati "orizzonti programmatici" (che non sono "la stessa cosa" di quelli degli altri componenti il governo: a noi non servono di tali semplificazioni per restare totalmente antagonisti al sottoriformismo rifondaiolo!).

Si può piuttosto rimproverare a chi ha confezionato il discorso di "dissociazione" pronunciato in parlamento da Diliberto di essere andato troppo in là nell’occasione. Lì vi era, se pur confusamente, una denunzia globale del significato borghese del governo Prodi dall’inizio alla (ventilata) fine, del suo esser prono ai dettati, insieme, del grande capitale nazionale e di quello internazionale (Maastricht, il FMI etc.), con toni tali da configurare la sconfessione delle precedenti "generose" illusioni di Rifondazione su di esso e la propria disposizione a mettersi davvero, e una volta per tutte, sul terreno di classe. Un’evidente esagerazione! "Tutto è finito tra noi", parole d’amante delusa che durano un giorno. Sì, perché Rifondazione, per sua natura, mai e poi mai potrebbe lasciare l’orizzonte riformista alla coda del capitale per quello, dio ne scampi!, comunista rivoluzionario. Così come il governo "progressista" Prodi sarebbe in difficoltà a lasciarsi scappare l’ausilio di quelli che Lenin chiama gli agenti della borghesia in seno alla classe operaia, oggi come oggi indispensabile ad assicurare l’inerzia proletaria di fronte a secche misure di "austerità" borghesi ai minimi costi sociali e politici ipotizzabili.

Di qui il rinnovato fidanzamento tra le due parti, grazie ad un pacchetto di misure per lo più solo sulla carta (le promesse non costan nulla!) o apertamente contraddittorie, in grado di permettere a Rifondazione di salvare la faccia ed al governo di essere accreditato come il padrone buono che sa tenere nella debita considerazione le richieste dei suoi sudditi. Un gioco facile, almeno sino a quando potrà funzionare...

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La porta stretta del "riformismo" attuale

Sul Manifesto del 27 novembre la Rossanda ha chiaramente delineato il recinto entro cui è costretta a muoversi, al presente, ogni e qualsiasi forza politica riformista (e che Rifondazione lo sia è da essa giustamente dato per scontato, e meritorio) e quali siano, corrispettivamente, i margini di manovra con esso compatibili, ad evitare tanto la perdita del carattere di "opposizione" quanto la "fuga in avanti" (ma qui non c’è pericolo...) oltre la staccionata. Eloquente summula sinistrista! Leggiamo:

"Se diciamo che (l’attuale governo) è liberista (l’orizzonte è quello degli organismi internazionali e dell’Europa monetaria) con venature di solidarietà e l’ambizione di mantenere, pur limitandoli, alcuni diritti universalistici (quelli -diciamo noi- corporativi, attinenti al conto spese per la più profittevole conservazione del proprio esercito di schiavi: impegno dal quale nessun governo borghese saprebbe ritrarsi, a cominciare dal nazismo, esemplare da questo punto di vista!, n.), ma lasciando la produzione all’impresa competitiva, imponendole al più qualche regola a difesa della concorrenza (cioè... della competizione, n.), ma consegnandole il ruolo motore universale della dinamica sociale (consegnandole quel che ha sempre avuto in privativa, e semmai a misura ancor maggiore, n.)", se diciamo tutto questo, ciò "non può non far problema per Rifondazione. Se su questo non ci fosse una differenza non superificiale con il PDS (e tanto più col resto della banda, n.), Rifondazione non avrebbe ragione d’esistere (all’interno del recinto, da cui non si scappa, n.)".

"Ma se è così", ed è ovvio che lo sia, tanto per la Rossanda che per Rifondazione, si può o no, in tempi che non sono di rivoluzione (e del resto a chi si potrebbe proporre oggi il modello dei "socialismi reali"?), si può o no limitare "il dominio pieno e incontrollato" della proprietà e del mercato?"

(Apriamo una parentesi. Qui si parla di "tempi" non rivoluzionari, mentre noi diciamo che i "tempi", vale a dire le condizioni oggettive, sono più che mai stramaturi per la rivoluzione ed il socialismo; salvo che manca all’oggetto precisamente la leva ostetrica per "affrettare le doglie del parto" e ostetriche del tipo Rossanda-Bertinotti sono, quanto a rivoluzione e socialismo, assai più esperte in aborti procurati. La scusa è che "oggi" i vecchi modelli real-socialisti non sono proponibili. E ti credo! Dopo essersi serviti di quei "modelli" per scannare in fasce, a suo tempo, il prodotto del parto rivoluzionario, costoro se ne servono oggi quale deterrente contro ogni possibilità di replica e per fissare strettamente i limiti della presenza di classe all’interno del presente sistema. In un altro articolo di questo numero vediamo che lo stessissimo argomentare serve "persino" ai contestatori "estremi" di Rifondazione. Davvero ci volevano ottant’anni per riscoprire Turati collocandosi di qualche decina di gradini al di sotto di lui!)

Ma vediamo in che consista questa possibilità di "limitazione" del capitalismo "incontrollato" perché possa funzionare in maniera controllata... senza limiti:

"Si chiami keynesismo o neokeynesismo o come si voglia, torna sul tappeto la questione della proprietà dei mezzi di produzione e dei suoi limiti, nonché del rapporto fra pubblico e privato, aggiogati tutti e due alle dimensioni della globalizzazione".

L’ultima trincea dei "comunisti" che, in assenza di tempi propizi, si ingegnano ad adoperarsi per il possibile, consisterebbe dunque in una riedizione del keynesismo (dentro la globalizzazione, ma da un angolo visuale strettamente nazionale). Giusta fine per gli ex-adoratori di icone "rivoluzionarie" -quando "i tempi" sembravano propizi ad una loro chiamata in avanscena in qualità di capi! Solo che bisognerebbe conservare perlomeno il pudore di non attribuire al keynesismo più di quello che, nelle idee e nei fatti, esso è stato.

L’interventismo statale quale strumento atto a sostenere la domanda (anche attraverso il cosiddetto pieno impiego) non mette assolutamente in causa i rapporti di proprietà; al contrario, mira a porre il capitale -in quanto ente collettivo- al riparo dalle spinte disordinate del laissez-faire liberista individuale. In quanto tale corrisponde tanto ad un "controllo sul capitale" quanto i sistemi fascisti avanzati, e non a caso troviamo proprio in Mussolini delle brillantissime pagine sul significato universale del corporativismo keynesianamente tradotto anche in yankee. Lo Stato etico (ed "economico") che afferma le "proprie" ragioni sul capitale (per noi è vero l’inverso...) costituisce la formula teorica "keynesiana" del fascismo e può benissimo esserlo anche della democrazia e del riformismo "antifascisti" dell’imperialismo in quanto entrambi espressione delle necessità oggettive del capitalismo nella sua fase estrema. I margini di conflittualità di classe ipotizzabili entro questo quadro si riducono, perciò, alla rivendicazione di una fettina di maggior partecipazione redistributiva, in nulla toccando i meccanismi di una concentrazione e centralizzazione capitaliste spinte allo spasimo. Il rapporto pubblico-privato, tanto nel keynesismo che nel fascismo, attiene interamente alla sfera interna del capitale e non ha nulla a che fare con una qualche forma di conflittualità di sistema e cioè tra classi.

In secondo luogo, si dimentica allegramente che l’applicazione delle misure keynesiane "protettive" nei confronti del proletariato sono (o: sono state) compatibili unicamente nei riguardi dei maggiori centri imperialisti ed hanno il loro corrispettivo in un’accresciuta opera di sfruttamento e spoliazione a livello internazionale. Per fare del keynesismo, quindi, occorre fare del buon imperialismo. Qualche passetto ancora e ci arriveremo: d’altra parte, la rivendicazione di propri spazi imperiali, come il fascismo ha indicato, non è incompatibile con lo sbandieramento di obiettivi di "giustizia sociale" interni e neppure con determinate forme demagogiche di "classismo" (le nazioni proletarie contro le plutocrazie).

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Resistenza o desistenza, ma sempre nei ranghi!

E’ precisamente in questo quadro, mirabilmente tracciato dalla Rossanda sulle pagine del "quotidiano keynesiano", che si collocano, in perfetta linea di continuità, i due atti della farsa rifondaiola.

Primo atto: la "politica" del governo Prodi "non può non far problema" per Rifondazione, che è costretta ad alzare il tiro, per quel che è dato, gettando sul piatto il proprio pacchetto di voti parlamentari e lo spettro di un possibile (si fa per dire...) ricorso al ritorno allo scontro diretto di classe, per contrattare delle briciole in grado di impedire tale scontro, che Rifondazione è l’ultima a volere, visto anche che non saprebbe a quali fini dirigerlo.

Secondo atto: il governo accetta di pagare il pizzo richiesto, visto che, con poca o nulla spesa, si può comprare la pace sociale e, grazie ad essa, andare avanti ancor più di corsa sulla via liberista che il buon Diliberto puntigliosamente denunciava nel primo atto.

Non diciamo che con ciò la partita si sia chiusa, perché non si tarderà troppo, da parte del proletariato, a constatare sulla propria pelle che i risultati del gratuito patrocinio di Rifondazione non sono esattamente brillanti come s’era dato ad intendere. Ed a questo punto è lecito attendersi nuovi sussulti da parte di Rifondazione o di altre forze "sostitutive" di essa, o da entrambe (o, persino, da parte dello stesso PDS allorché venisse a naufragare il progetto ulivista di compromesso tra centro e sinistra). Potrebbero essere anche dei sussulti più spinti (come furono quelli del vecchio PCI costretto nel ‘48 all’opposizione); mai, in ogni caso, delle inversioni di rotta, mai di ritorno alle "barricate" antagoniste. Chi, di queste forze, avrà del filo da tessere, allora, lo tesserà per congiungere limitati e transitori interessi proletari immediati ed esigenze supreme della "patria" capitalista, piegando i primi a scopi imperialisti. Probabilmente, Rifondazione arriva troppo tardi, e male, per assolvere a quest’obiettivo, per quanto si sia già volonterosamente cimentata a favore dell’interventismo del capitale italiano in Somalia, Jugoslavia, Albania, domani forse in Algeria e poi chissà. Non è un sintomo di maggior rigore classista, ma di maggior inconcludenza borghese: ultimo frutto, andato a male, delle proprie origini "riformiste dure"...

Il modo in cui questa mano del gioco è stata gestita da Rifondazione costituisce di per sé un elemento anticipato di disfattismo nei confronti dei conflitti a venire. Non è solo l’ottica programmatica, in questo caso, ad essersi piegata ad una visione, e ad una pseudo-soluzione all’immediato, dei problemi totalmente interna alle sacre esigenze del capitale. Quel che più conta è il fatto che la pretesa assunzione degli interessi di classe è stata, nell’occasione, immancabilmente vista come un affare di giochi parlamentari, di "equilibri" stabiliti dal fattore elettoralistico, con una programmatica esclusione dell’entrata diretta in scena del proletariato, o piuttosto dei cosiddetti "deboli", ai quali si chiede unicamente di farsi più "forti" offrendo al partito un maggior numero di deleghe parlamentari. Tutto nel Capitale, tutto nello Stato, tutto nel Parlamento! Non siamo neppure più al partito "di lotta e di governo" quanto ad un partito di "lotta nel governo": persino Togliatti, a questa stregua, rischierebbe di apparire come un mostro rivoluzionario!

La chiamata in causa del proletariato non avrebbe mutato gli orizzonti di Rifondazione, ma di per sé avrebbe creato quel cemento di lotta che, Marx insegna, costituisce il vero risultato non transeunte della lotta stessa. Piuttosto un incubo che una risorsa per Rifondazione, che, se e quando chiama i luoghi di lavoro e le piazze a mobilitarsi, lo fa ai soli fini dello "spostamento di forze" parlamentari. Ieri l’altro contro Berlusconi così come ieri doveva esserlo per premere su Prodi, finendo poi col portare a Roma delle masse a sostegno del Prodi "riveduto e corretto" (in camera charitatis parlamentare) da Rifondazione. L’utensile proletario va maneggiato con cura, ad evitare che lavori per sé.

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Colpa delle masse?

Ci par già, a questo punto, di sentirci avanzare una serie di obiezioni. Ma come?, non è piuttosto vero che, al momento della ventilata sfiducia, la direzione di Rifondazione stava più avanti dell’insieme del partito e questo più avanti delle masse? E’ o non è vero che la "base" in senso ampio (militante o semplicemente votante) si è tirata maggioritariamente indietro di fronte alla minaccia di una crisi di governo? E’ o non è vero che da essa è arrivata una doccia fredda per l’"estremista" Bertinotti (vedi la valanga di... dissociazioni dalla dissociazione sulle pagine del Manifesto, generosamente aperte al "pubblico")? E dunque: contrariamente a quel che voi dell’OCI dite, non si deve constatare che le masse erano indisponibili e più arretrate rispetto al vertice di Rifondazione? E perché allora allisciate le prime per infangare di falso il secondo?

Il discorso, in apparenza, fila, ma si tratta di un discorso vecchio e truffaldino.

Noi non corteggiamo affatto le masse, com’è costume dello spontaneismo antipartito. Non siamo di quelli, per dirla con una greve espressione di un classico marxista, che stanno in adorazione del sedere delle masse. "Spontaneamente", "di per sé", le masse possono anche arrivare alla rivolta, non ad una visione e ad una pratica conseguentemente rivoluzionarie (lo spiega benissimo il che fare con punto interrogativo di certo Lenin). Ma proprio per questo occorre il partito. E’ il partito che può e deve saper cogliere ogni anche minimo elemento di conflittualità "spontanea" per dirigerla in senso classista rivoluzionario, tanto in tema di grassa che di magra.

Se Rifondazione è parsa, ad un certo punto, "più avanti" delle proprie masse è stato solo perché queste stesse masse sono state, all’opposto, costantemente educate alla dismissione del programma di classe, alla delega elettoral-parlamentare in vista della politica di "compromesso" di cui sopra s’è detto. E abituate a considerare il governo ulivista come l’alfa e l’omega dei propri orizzonti possibili, è del tutto naturale che di fronte alla ventilata minaccia di mandare questo bel risultato a carte quarantotto, esse si siano semplicemente mostrate più realiste, più conseguenti. Non si abbandona facilmente quello che le dirigenze stesse proclamano essere un risultato se nulla di diverso viene proposto in cambio di esso.

In Ancora una volta: dove va la Francia?, del 1935, Trotzkij così rispondeva alle stessissime obiezioni che ci vengono ora mosse: "Non c’è forse una grande resistenza conservatrice tra le masse stesse, nel proletariato? Da diversi lati si levano delle voci. E non c’è da meravigliarsene! Quando si avvicina una crisi rivoluzionaria, molti capi, che hanno paura delle responsabilità (qui non si tratta di questo soltanto!, n.), si nascondono dietro il presunto conservatorismo delle masse... (ma) chi dice che il proletariato non vuole o non può condurre la lotta rivoluzionaria lancia una calunnia, trasferendo sulle masse lavoratrici la propria fiacchezza e la propria viltà... Una situazione rivoluzionaria si crea in virtù dell’azione reciproca di fattori oggettivi e di fattori soggettivi. Se il partito del proletariato si dimostra incapace di analizzare a tempo le tendenze di una situazione prerivoluzionaria e di intervenire attivamente nel suo sviluppo invece di una situazione rivoluzionaria si crea inevitabilmente una situazione controrivoluzionaria... La politica di corte vedute, passiva, opportunistica del Fronte unico e soprattutto degli staliniani (Ulivo e rifondini, brutta copia dei primi, n.)... ecco l’ostacolo principale sulla via della rivoluzione in Francia". Nella traduzione dal francese all’italiano 62 anni dopo queste parole acquistano ancor più vigore.

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Garavinismo di ritorno, oggi e sempre

Poche parole sulla "sinistra interna" di Rifondazione. Costoro continuano ad insistere sulla "svolta tradita" riproponendo di riprendere il cammino dalla sfiducia a Prodi. Ma questa caricatura da bertinottismo "conseguente" val meno di una cicca se non si fanno i conti coi nodi di fondo di Rifondazione, la sua natura sottoriformista e neo-keynesiana e se la dissociazione dal governo Prodi serve solo ad avvalorare un protestarismo inconcludente, privo di programma e di... organizzazione indipendenti. Questa "sinistra" che era arrivata ad accreditarsi sin ad un 20% di opinioni "radicali" all’interno di una comune melassa riformistoide si è letteralmente liquefatta alla prova del nove della necessità di marcare un proprio programma alternativo. Alla manifestazione di Roma essa si è presentata rottamata, senza uno straccio di presenza visibile in proprio: destino inevitabile delle mosche cocchiere che vivacchiano e pontificano su una groppa altrui, in assenza della quale non hanno esistenza propria. E non è detto che questo "radicalismo" su terreno riformista, una volta cacciato ai margini o direttamente fuori da Rifondazione, non debba percorrere vie ancor più vergognose di quelle rifondine classiche.

Merita invece riflettere sul ritorno alla grande del "garavinismo" in Rifondazione.

Una prima sua ufficializzazione si è avuta nell’aperta dissociazione della Salvato, portavoce tutt’altro che isolata del malumore del "partito degli amministratori" interno al partito (si pensi, ad esempio, ai rifondaioli toscani "confederati" all’Ulivo per cogestirsi autonomamente dal centro le leve del potere locale!). Un bruttissimo ed eloquente esempio del processo di decomposizione in atto nel partito: non solo si attacca il vertice da destra, ma lo si fa a mezzo degli organi d’"informazione" (di ottundimento dei crani proletari) della borghesia, ci si richiama alla "pubblica opinione", si getta il discredito sulla "conduzione verticistica ed antidemocratica" del partito per quel poco che essa vale a ritardarne una confessa omologazione all’Ulivo. Roba da pedate, e non è che manchino i culi: mancano i piedi!

Ma la vera consacrazione del garavinismo di oggi e di sempre si deve piuttosto a Cossutta, come s’è visto nella riunione del parlamentino (giusto termine!) del partito successivo alla svolta ed alla controsvolta. Costui, fedelissimo allo schema togliattiano della "democrazia progressiva", ha inchiodato Bertinotti alla sostanza dei problemi: o crediamo (e nessuno di noi ci crede) alla prospettiva rivoluzionaria, o procediamo realisticamente per gradi nella prospettiva del "riformismo possibile", ed allora dobbiamo badare al consenso (riformista) di massa e ad intessere tutte le possibili alleanze praticabili per scongiurare la destra. Nessuna alzata d’ingegno, nessun autoisolamento è permesso. E che potrebbe obiettare Bertinotti?

Siamo qui più a destra di Bertinotti? Domanda priva di senso per noi. E’ piuttosto interessante notare come Cossutta, anche in questo fedele discepolo del togliattismo, riproponga il solito polpettone (oggi polpettina) riformista facendo appello, al pari del suo maestro e donno, ad una qualche forma di centralità operaia su cui imperniare la presunta azione riformista del partito. Su questo terreno, Bertinotti, che all’apparenza sta più a sinistra e promette eventuali nuovi venti di crisi se l’Ulivo non starà ai patti (a differenza del molto più possibilista Cossutta), è assai meno attento al problema del referente di classe, e qui la linea di caduta è verticale. Il suo modello, teorico e pratico, di partito, pur maggiormente movimentista alla superficie, è tutto costruito su strutture leggere, a "tematiche", su una frammentazione di "soggetti" e "bisogni" particolari ed autonomi, privi di un reale collante unitario. Si assumono come riferimento i mille tipi di "soggetti deboli" (e, per questa via, c’è da giurarci che lo rimarranno per sempre!), ciascuno chiuso nella sua nicchia particulare, indifferentemente il proletario, lo studente, la diversità di genere, i "diversi", l’autonomo coglione ma sempre prossimo alla mangiatoia e via dicendo. E, sul piano delle convergenze tra forze politiche, rispetto ad un Cossutta attento al PDS in quanto partito "operaio", si occhieggia di preferenza alle cosiddette "sinistre alternative", dai famigerati verdi agli "indipendenti" e marginali d’ogni risma o si guarda direttamente come interlocutore alla Chiesa del papa "anticapitalista" (v. al proposito il riquadro). Se poi si tratta di difendere la "democrazia rappresentativa", anche un Marini, un Dini o un Casini possono andar bene. Così, per quel che riguarda il campo sindacale, per tre quarti si rompe con la CGIL e per altri tre quarti si occhieggia ad ogni forma di sindacalismo corporativo purché "radicale" ed "alternativo".

E’ del tutto evidente qui che il sacrosanto schifo per la politica del PDS e del sindacato, a misura che non si riconnette ad alcun programma antagonista di classe, ha come suo unico risultato il ripudio di ogni preoccupazione fronteunitaria nei confronti delle masse ingabbiate da questi organismi. L’interclassismo tende a trasferirsi dal piano dei programmi a quello strutturale stesso in senso sociale.

Un aneddoto rivelatore (vedi La Stampa del 2 dicembre scorso). Racconta Orlando Leoluca in Di Pietro: "Ricordo che lui (Bertinotti) venne alla nostra assemblea di Perugia del 1993 e insieme discutemmo di una sua ipotetica adesione alla Rete", progetto poi andato buco solo per la provvidenziale chiamata alla segreteria di Rifondazione. Ma come disse Cristo, "Chi ha guardato la Rete con concupiscenza ha già commesso adulterio in cuor suo"... Ciò che d’interessante si rivela qui, al di là del fatterello in sé, è l’attitudine bertinottiana al movimentismo "alternativo e trasversale" da un punto di vista di classe. Non è detto che in essa vi sia minore attenzione partecipativa ai problemi ed alle esigenze dei proletari rispetto a quella di un Cossutta; anzi, noi non neghiamo affatto che il cuore di Bertinotti palpiti e si disperi sinceramente per esse sino a ribellarsi di tanto in tanto alle ragioni del riformismo reale, ma, per l’appunto, alla maniera extraclassista della "difesa dei deboli", del volontariato cattolicoide, dell’unità d’azione radical-movimentista tra tutti i "non omologati" (la famosa banda degli onesti). E con questo siamo definitivamente fuori da ogni possibile prospettiva marxista, perché questa si darà solo a patto di assumere in pieno su di sé i caratteri di "centralità di classe" e "del partito" cui si richiama Cossutta rovesciandoli di segno in quanto strumenti non di "autonomo" aggiogamento al carro della borghesia, ma di implacabile antagonismo ad essa. O, altrimenti, si decampa dai confini stessi del movimento operaio (borghese o rivoluzionario che sia). Da questo esclusivo punto di vista il nostro terreno di battaglia è anche quello di Cossutta, e difatti noi siamo lì per togliercelo di mezzo. (Chissà che, a seguito di queste righe, non ci sia qualche imbecille a scrivere che siamo filo-cossuttiani!).

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Conclusioni e post scriptum

Il futuro di Rifondazione, al di là di questo o quel colpo di coda finale, è per noi chiaramente segnato. Un simile partito è destinato a rimanere schiacciato dall’ipoteca riformista inscritta nel suo codice genetico. Il tonfo delle aspettative riformiste (non più sostenibili oggi, come riconosceva lo stesso Bertinotti) non lo convertiranno in nessun caso in un diverso ed opposto soggetto antagonista. La ripulsa dei singoli effetti della crisi del sistema lo potrà portare a tardivi ed incoerenti atti di opposizione impotente, ma dopo aver lasciato a destra una parte delle truppe da esso stesso educate ad essere "realiste" (come già si è visto in quest’occasione e in quella delle successive elezioni amministrative, in cui l’eccesso di "radicalismo" del vertice è stato punito) ed a sinistra un’altra parte che tende alla ricerca di una via d’uscita vera ai problemi di fondo imposti dalla situazione. Sennonché, anche quest’ultima non sarà verosimilmente in grado di liberarsi a tempo ed a modo dell’ipoteca demo-riformistoide di partenza, come chiaramente si legge nel tentativo in atto di formalizzare un "nuovo soggetto comunista" a sinistra di Rifondazione che qui di seguito analizziamo. L’unica chanche positiva di Rifondazione alla sua nascita era di costituire un elemento di continuità organizzativa del movimento "operaio"-borghese in cui si potesse delineare, di petto alla crisi incombente del capitalismo (e del riformismo che ne sta alla coda), una battaglia teorica, politica ed organizzativa in vista del nostro risultato. Questa chanche è andata largamente persa. L’esperienza successiva di Rifondazione è valsa, al contrario, unicamente a frenare e deviare una tale possibilità (grazie, non da ultimo, alla sua "sinistra" interna) mandando a rotoli la continuità di cui sopra. Il movimento antagonista che verrà ne farà sostanzialmente a meno sin dagli inizi, con tutti gli inconvenienti e le straordinarie possibilità che da ciò derivano. Se, come tutti i segni lasciano prevedere, la crisi morderà in profondità avremo sempre meno a che fare con Rifondazione, nel bene e nel (relativissimo) male: il problema non sarà di vedere allora come Rifondazione continuerà a vivere ed a "trasformarsi", ma come verrà a morte (possibilmente -e noi faremo la nostra parte- senza seminare ulteriori cadaveri della nostra classe sulla sua strada).

Un post scriptum in coda. Proprio mentre stavamo finendo di scrivere quest’articolo ci sono giunti agli occhi due pezzi del Manifesto sul dibattito in Rifondazione. Nel primo (21 dicembre), Ferrando ridà una verniciata alle posizioni della "sinistra" interna, arrivando a riconoscere che la crisi di Rifondazione si ricollega al "riflusso organico della fondazione nella vecchia tradizione riformista" di cui "si sono esauriti i presupposti materiali", naturalmente tacendo sulla propria funzione cementizia in tale fondazione. Ma anziché tirarne, sia pur tardivamente, le necessarie conclusioni sul piano teorico-politico ed organizzativo ripropone la solita brodaglia di "un proprio spazio di discussione vera", di "un ampio processo di verifica democratica con poteri decisionali" sulla base di "diverse analisi, proposte, progetti" su cui "possano confrontarsi alla luce del sole su basi pienamente democratiche" tutti i pincopallini possibili ed immaginabili. Come se il risultato di simile "consultazione democratica" non fosse già tutto scritto! Per "comunisti" di questo calibro la "luce del sole" è la democrazia, l’opinione individuale autonoma e... confederata. Per noi è il programma. Tutto qui.

Nel numero del 24 dicembre si dà conto della risposta di Bertinotti a Cossutta sulla questione del partito con "Sette punti sul partito di massa". Il Manifesto mostra di accorgersi, al pari di noi, che proprio qui sta il nodo tranciante, ma proprio per sposare, com’è logico, la prospettiva più disastrosa. Qualsiasi forma di centralità di classe e di centralismo di partito è bollata, sia da parte del Manifesto che di Bertinotti, come "riduzione della politica a pura amministrazione" che cancella "l’intera dimensione sociale", come riproposizione di un "modello classico" (da Lenin a... Togliatti), cui si deve contrapporre "un salto nella capacità di interlocuzione e dialogo con i movimenti, le soggettività critiche, il più vasto campo della sinistra" per "ridare spessore e autonomia alla società civile... contro la pervasività onnivora (!) della politica istituzionale". Quindi: "una presenza articolata ed attiva nel sociale, capace addirittura di ‘farsi società’". Esattamente quel che si diceva: l’innalzamento a principio del processo di frantumazione del "sociale" da parte della società capitalista quale luogo in cui si agitano e possono affermarsi democraticamente le "mille soggettività" del capitale costruendosi ciascuno all’interno del sistema presente la propria nicchia autoreferenziale. Una prospettiva che esclude, sempre per principio, le categorie rivoluzione e partito. Su quest’ultimo punto, avverte Il Manifesto, Bertinotti è già sulla buona strada, ma dovrà dimostrare un altro po’ di coraggio, perché "la stessa scommessa sull’apertura del partito deve ancora iniziare ad essere giocata, e sarà difficile vincerla mantenendo intatta una forma partito che ben poco si presta a simili aperture". Contro il partito non si è mai fatto abbastanza! La bestia nera è il partito in quanto lo è la classe, la rivoluzione, il socialismo. Non c’è bisogno di essere più chiari.

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