Abbiamo più volte denunciato che Israele si prepara a una nuova guerra di aggressione anti-araba e anti-islamica, e che è l’imperialismo tutto a sospingerlo oggettivamente su questa strada. Lo scontro sociale che ha scosso il paese all’inizio di dicembre ci conferma appieno in questa convinzione.
Dopo ripetute azioni di lotta nei mesi precedenti, l’Histadrut (la centrale sindacale israeliana) è arrivata ad indire per il 3 dicembre lo sciopero generale ad oltranza dei pubblici dipendenti contro la politica economica di Netanyahu. La fermata, a cui hanno aderito 700mila lavoratori (su 5 milioni e 800mila abitanti), ha paralizzato il paese per 5 giorni, al termine dei quali -è stata l’Unità a scriverlo- Israele sembrava in guerra. La vertenza si è chiusa, per il momento, con un compromesso. Le acque della società israeliana, però, si sono sedate solo in superficie, come ha dimostrato qualche settimana dopo la rivolta dei disoccupati di Ofakim (in maggioranza elettori del Likud!).
Non potrebbe essere altrimenti, visti i cambiamenti in atto nel capitalismo israeliano. Ecco come li ha dipinti Il Sole24ore in una corrispondenza del 4.XII: "È in discussione il concetto stesso di stato sociale. È finita l’epoca dei grandi contratti collettivi, almeno nell’industria elettronica che è la più moderna e dove regnano indiscussi i contratti personali di lavoro. È finito il controllo sui servizi medici", finito il controllo da parte della stessa Histadrut di un significativo settore industriale e finanziario oggi in via di privatizzazione. "È la fine di un’epoca e il sogno socialista è stato rimpiazzato dalla corsa all’efficienza e all’innovazione tecnologica. Aumenta la disoccupazione [giunta all’8%], ma nello stesso tempo per lavorare nell’edilizia arrivano in massa i rumeni e nell’agricoltura i thailandesi".
Il capitalismo israeliano è costretto a por "fine a un’epoca" dall’intreccio di tre spinte, legate tra loro: 1) la necessità di inserirsi -come un qualsiasi altro capitale- nel mercato mondializzato e, innanzitutto, nella regione mediorientale; 2) il peso crescente del militarismo con cui è costretto a supportare l’espansione neo-coloniale nell’area circostante (il fallimento della conferenza economica del Qatar nel novembre scorso è stato un altro sintomo del fatto che la penetrazione economica nei paesi arabi non potrà avvenire solo per mezzo delle "pacifiche" vie mercantili e finanziarie); 3) l’handicap di dover fronteggiare anche in Medio Oriente la concorrenza dei ben più agguerriti capitali e stati occidentali, non disposti a lasciare a nessuno questo "angolo" del mondo, foss’anche al loro bastione sionista.
La borghesia israeliana può affrontare queste sfide solo se ridefinisce i rapporti di classe all’interno del paese, solo se rompe il compromesso sociale su cui si è retto Israele per oltre un cinquantennio (quello che il giornale confindustriale chiama "sogno socialista"). Nasce da qui la politica thatcheriana del governo in carica. Quello che è successo finora è solo l’inizio. Tanto però dovrebbe bastare per capire che la borghesia israeliana è sospinta alla guerra esterna non solo per conquistare un dominio neo-coloniale nell’area, ma anche (bis in idem) per ristrutturare la sua società facendo tacere il conflitto di classe interno.
Non a caso il ministro delle finanze ha dichiarato che Israele non ha solo un nemico esterno nei "kamikaze integralisti" (cioè: nelle masse palestinesi e dei paesi arabi e islamici), ma anche un nemico interno negli sfruttati ebrei. Proprio così. E potrà "accopparli" entrambi nella misura in cui riuscirà a scagliare questi ultimi contro di quelli; nella misura in cui, cioè, riuscirà a perpetuare l’inganno perpetrato dall’imperialismo e dalla borghesia ebrea ai danni delle masse lavoratrici ebree. Finora la ciambella è sempre riuscita col buco. Continuerà ad essere così?