Il pantano dellItalietta del Duemila: dietro le ultime elezioni amministrative |
Nelle elezioni amministrative di novembre lUlivo ha conquistato le maggiori città. I dirigenti della coalizione di governo ne hanno tratto conclusioni rassicuranti: dal paese reale e da quello istituzionale sè alzato il vento che condurrà lItalia su una nuova via riformista, nella quale saranno finalmente coniugati rigore e giustizia, competitività e umanità. |
Si tratta di una colossale menzogna, di cui sarebbe bene che i compagni e i proletari si rendessero finalmente conto. Che le cose stanno diversamente da come favoleggiano i capi del centro-"sinistra", lo mostrano -secondo noi- gli stessi dati che emergono dallultima tornata elettorale. A condizione, però, di rilevarli e analizzarli secondo un punto di vista proletario comunista. È quello che ci sforziamo di fare nei due articoli che seguono.
Il primo dato da registrare è che lUlivo ha conquistato le maggiori città non per effetto della sua crescita elettorale, ma a causa della vistosa caduta dei consensi per lopposizione polista. Una cosa del genere cosa sta ad indicare? Un consolidamento sociale del progetto "buonista" dellUlivo? Nientaffatto. I motivi che hanno portato allindietreggiamento elettorale del Polo sono altri: 1) la progressiva introiezione da parte dellUlivo delle ragioni "cattiviste" (borghesi) rivendicate dal Polo; 2) limpotenza di questultimo come nucleo per la costituzione di una seria forza di destra. Nelluno come nellaltro caso, siamo di fronte a fattori che spingono allo sgretolamento dellUlivo come blocco sociale interclassista mirante a risanare il capitalismo nazionale in modo "equilibrato e pacifico". Vediamo perché.
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Il "malumore" dei "ceti moderati"
Sul primo punto cè ben poco da dire. Solo Bertinotti non sè ancora accorto che la sostanza della politica economica attuata dal governo dellUlivo è quella dettata dai mercati internazionali. Con la profondità richiesta da essi e dai loro terminali tricolori? Certo che no. Il quadro economico e politico internazionale spinge il grande capitale nostrano a passare allattacco frontale delle posizioni della classe operaia. Una cosa necessaria da tempo, intanto diventata più stringente e, nello stesso tempo, meno difficile da realizzare grazie allazione soporifera svolta dallUlivo sul pugile proletario. Non può farla però il governo attuale, poiché esso, comunque, non può prescindere dal riferimento al boxeur proletario che sha da stendere al tappeto. Ed è proprio per questo che urge lentrata in scena di un vero polo di destra. Che tuttavia stenta assai a farsi avanti.
Non che sia assente nella piccola e media borghesia italiana un sentimento su cui basare un progetto del genere. Lo riconfermano anche i risultati elettorali di novembre. Come giustamente rileva S. Romano sulla Stampa del 2.XII, il Polo, per quanto diviso e malandato, ha continuato a riunire "intorno a sé una parte importante dellelettorato in zone -è il caso di Genova- dove la sinistra ha messo radici sin dalla fine della guerra". Questo risultato è lespressione -continua Romano- del "malumore" dei "ceti moderati", "una categoria imprecisa nella quale si confondono gli autonomi, i commercianti, gli artigiani, i quadri, i coltivatori diretti, i piccoli imprenditori, il nuovo terziario": un "malumore" causato dal fatto che a questi "ceti economici il paese governato con i criteri fiscali e sociali dellUlivo sta diventando ogni giorno più stretto".
Una forza borghese di destra conseguente avrebbe potuto, in astratto, far leva su questo "malumore" per rovesciare dalla piazza i rapporti di forza nel paese e installarsi alla guida di esso. Il Polo non è stato in grado di fare una cosa del genere. Ha anzi, in varie occasioni, soccorso il governo con la sua "opposizione responsabile". Come mai tutto ciò? Per mancanza di generali e colonnelli? Sicuramente cè anche questo, e basta dare unocchiata ai candidati presentati dal Polo nelle grandi città, per rendersene conto fino in fondo. Ma un deficit del genere, anziché spiegare la cosa, rimanda a qualche mancanza più strutturale. Quale?
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Una melma maleodorante
Ammettiamo che il Polo (o chi per esso) avesse avuto a disposizione uno stato maggiore adatto alla bisogna. Come si sarebbe rapportato allo "scontento" dei "ceti moderati"? Avrebbe forse assunto le loro rivendicazioni immediate in quanto tali? A parole sì, nella sostanza no, in quanto il rilancio dellItalia come potenza capitalistica richiede oggettivamente la limatura o anche la decurtazione dei privilegi e delle sicurezze degli "strati intermedi" della società. Al di là delle promesse "anti-monopolistiche", una seria forza politica di destra, riprendendo linsegnamento del fascismo, avrebbe basato la conquista del sostegno militante di essi attraverso linquadramento del loro "malumore" entro un programma di riorganizzazione centralistica del potere, rinascita nazionale e attacco frontale contro gli sfruttati, dentro e fuori i confini nazionali. (Un programma al quale avrebbe cercato di associare anche la rabbia e il disagio che serpeggia in vasti settori del proletariato.)
Niente di tutto questo è stato fatto dal Polo o da un suo nucleo di "ferro". Come mai? Perché la situazione italiana continua ad impantanarsi sempre più a causa dellincapacità delle forze sociali antagoniste di muoversi per una battaglia decisiva (come invece richiederebbe loggettività). Il proletariato si trova in uno stato dimmobilismo, prende sberle, ma si conforta col fatto che sono le meno dolorose possibili. Il grande capitale, grazie a ciò, può permettersi di vivacchiare senza sciogliere fino in fondo i nodi cruciali della modernizzazione capitalistica dellItalia, col risultato di far andare avanti lo sfarimento del tessuto capitalistico nazionale e di privare, così, la costituzione di un blocco borghese serio ed efficiente dei necessari "centri di gravità" economici.
(I monopoli stranieri hanno oramai colonizzato il settore -strategico- delle tele-comunicazioni. LAlitalia è finita in pasto alla KLM. È andato avanti, non senza lo zampino interessato di qualche straniero, il dissesto delle Ferrovie dello Stato, e oggi comincia ad essere discussa sui giornali, senza tanto pudore, la proposta di concedere la gestione di pezzi della rete ferroviaria a società straniere (svizzere ad esempio). Sempre restando al sistema nervoso del paese, va avanti a gonfie vele la rete aperta dalle poste svizzere nellItalia settentrionale per raccogliere le spedizioni internazionali (a Milano sono stati attivati sportelli persino allinterno della Banca Popolare di Sondrio). Su un altro versante, tarda la riorganizzazione del polo bancario nordista e la costituzione, vitale per lazione globalista del capitalismo italiano, dei fondi pensioni: aumentano invece gli sportelli che passano nelle mani di grandi banche estere, prima fra tutte la Deutsche Bank. È significativo a questo proposito che la stessa Padania cominci a denunciare lo shopping a prezzi da saldo che i monopoli bancari e industriali stranieri stanno facendo nel nord del paese. Lingresso in Europa non farà che aggravare questa situazione. La stessa migrazione dei capitali speculativi dalle borse asiatiche in dissesto a quella di Milano sta ad indicare la loro preda prossima ventura...)
La risultante di questa situazione è una melma maleodorante, di cui il quadro politico nazionale offre una squallida rappresentazione. Qui non cè alcuna divaricazione tra due poli contrapposti. Cè invece la convergenza dei rappresentanti polisti verso il centro dello schieramento politico, cè lo sgretolamento di quel minimo nocciolo di destra alternativa allUlivo che si era sedimentato in AN e FI, ci sono tresche di ogni tipo con i cespugli dellUlivo. In conseguenza delleffetto ammorbante di questa palude, una parte dei "ceti moderati", benché in affanno, si è accontentata, in mancanza di meglio, di spostarsi verso il centro dello schieramento politico (anche saltando nell"opposta" barricata ulivista), di condizionarlo ancor più a destra e di trarne tutto il vantaggio possibile. La tenuta elettorale del Polo ne ha risentito, ma in quanto le esigenze rappresentate nel suo programma sono state, in una certa misura, riprese dalla carretta ulivista. Oltre a ciò cè poi da registrare che tutti questi traffici verso il centro dellUlivo sono fatti ("in alto" e "in basso") con la convinzione di poter giocare danticipo, da qui, la partita con il vero avversario di domani, il proletariato.
Lo spostamento al centro sul piano "virtuale" del parlamento corrisponde e prelude, dunque, "nel paese reale", a uno spostamento a destra. È vero che le "manovre" continuano a rimanere su un terreno trasformistico e inconcludente, DAlema però può stare tranquillo: non annegheremo in un "nuovo doroteismo", giacché la palude di oggi non predispone affatto la riedizione del compromesso sociale del secondo dopoguerra. Il che non significa che i "cincischiamenti" della "grande politica" non siano un male per il proletariato, giacché continuano a inoculargli dosi di oppio e a circondarlo con una fitta cortina fumogena sulla "sorpresa" che lo aspetta dietro langolo. Unidea degli ingredienti di essa, la si può avere prendendo in esame gli altri due aspetti emersi nelle recenti amministrative. (In realtà sarebbero tre, ma del terzo -la tenuta della Lega Nord- parliamo in un apposito articolo).
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Il "partito" astensionista
Poco sopra abbiamo richiamato i motivi che hanno spinto i "ceti moderati" a ripiegare, provvisoriamente e a malavoglia, verso il "centro". Ma ciò è accaduto solo per una parte di essi. Unaltra fetta di questi strati sociali non si è presentata alle urne, perché più a destra dellattuale destra. Lastensionismo infatti, che ha registrato unimpennata (soprattutto al secondo turno), ha penalizzato molto più pesantemente i candidati del Polo rispetto a quelli dellUlivo.
Luscita di questa spinta sociale radicale dal circuito delle urne non sta ad indicare che essa si sia estinta, come invece credono i feticisti elettorali. Essa continua a pulsare e a maturare nel profondo della società. Per entrare in campo al momento in cui la scena politica tornerà a vivacizzarsi. Ma non certo a sostegno della politica ulivista, e neanche della sua variante berlusconian-finiana. Una finestra sul futuro è offerta in tal senso dai risultati di Genova, di cui parliamo nel riquadro a fianco.
Lastensionismo, tuttavia, ha pescato molto anche in campo operaio. Come mai? Forse che alcuni settori proletari si stanno posizionando su un terreno comunista rivoluzionario? No. Sta succedendo qualcosa di diverso. A parte i lavoratori leghisti, il mondo dei salariati aveva rivolto più di unaspettativa verso il governo dellUlivo. Dopo un anno e mezzo, però, i conti non sono tornati per tutti.
Non sono tornati per la nuova generazione proletaria, giunta alla conclusione che "i politici sono tutti uguali" e che i problemi bisogna risolverseli da soli, "arrangiandosi". Non sono tornati per la parte più classista della base di Rifondazione, rimasta giustamente schifata dai traffici a destra fatti in nome della lotta alla destra. Una fetta di sfruttati ha così disertato le urne, rifugiandosi in un atteggiamento di sfiducia nella forza della propria classe e di passività politica. Ne ha risentito in parte la stessa Lega, come rileviamo nellarticolo che segue.
Questi settori di lavoratori e di giovani rischiano di essere utilizzati, in assenza del ritorno in campo di una forza politica comunista verace, per dare sangue e muscoli ai progetti di nuova destra in incubazione, a partire da quello di Bossi e delle altre leghe localiste. Quanto il futuro del proletariato sia minacciato da queste pesti, è mostrato non solo dalla non indifferente adesione operaia alla Lega Nord, ma anche da un altro aspetto della pretesa "vittoria" dellUlivo nelle ultime amministrative. È ciò di cui ci occuperemo nella parte finale di questo articolo.
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Maggiori poteri alle città = maggiore sfruttamento per i lavoratori, minore potere per il proletariato
La conquista ulivista delle maggiori città (Roma, Venezia, Napoli, Palermo e Catania) è avvenuta allinsegna del federalismo municipalista e del decollo del costituendo "partito" dei sindaci.
Allindomani del primo turno, il viceré di Napoli, Bassolino, ha dichiarato: "In questi quattro anni sono stati fatti passi in avanti [verso il riconoscimento di un protagonismo istituzionale delle grandi città, n.], con le due leggi Bassanini e con il lavoro avviato in Bicamerale. Però... io e gli altri sindaci pensiamo che bisogna andare avanti con più coraggio su questa strada. Le grandi città devono poter legiferare, avere in mano la leva fiscale, autogovernarsi" (Il Corriere della Sera, 19.XII.97). A chiarir ancora meglio le idee, arriva il 2 dicembre Enzo Bianco, sindaco uscente a Catania e presidente dellAssociazione Nazionale dei Sindaci Italiani: in unintervista alla Stampa afferma che "il progetto più ambizioso è una sorta di "marcia su Roma" degli oltre 7000 sindaci -non solo quelli di centro sinistra- che aderiscono allANCI, per dare battaglia sulla Bicamerale e imporre un "federalismo alla catalana" dove una gamba sia quella dei poteri locali".
Ci si dirà: "E cosa cè di così allarmante nella concessione di maggiori poteri alle città?". Sappiamo bene che questa è lopinione più diffusa tra i compagni e i proletari, e che addirittura cè chi, tra loro, guarda con favore al municipalismo. Noi comunisti internazionalisti organizzati nellOCI siamo di tuttaltro avviso. Per spiegarci meglio, prendiamo in esame uno dei punti del programma del "partito" dei sindaci.
Essi promettono che le città utilizzeranno i richiesti maggiori poteri per attirare gli investitori (nazionali e internazionali) e valorizzare le risorse locali, con vantaggio di tutti e anche dei lavoratori e dei giovani proletari. Questa politica, tornerà sì utile agli investitori, agli industriali e ai borghesi locali, ma non certo al proletariato. A quale condizione, infatti, i detentori di denaro punteranno sulla città Tal dei Tali? Alla semplice condizione di tirar su un profitto un pò maggiore di quello che, con gli stessi soldi, potrebbero ricavare in una qualsiasi altra parte della Terra. Non siamo forse in un mondo globalizzato?
E come si potrà concedere un simile vantaggio a cotale benefattore? Semplice, dice il vangelo del libero mercato: basta offrirgli condizioni ottimali in termini di salario, orari di lavoro, mercato del lavoro, contribuzione... Ottimali per lui, il che significa "pessimali" per i proletari della città Tal dei Tali. Ma questo è solo linizio.
Il bello del "gioco", dicono i sindaci dellUlivo, è che le altre città dovranno darsi da fare, in gara con Tal dei Tali, per attirare verso di loro i tanto desiderati investitori. Non è difficile indovinare i servizi che esse cercheranno di offrire e la concorrenza al ribasso che i lavoratori delle varie città si faranno gli uni contro gli altri, a unico vantaggio dei parassiti che campano sul lavoro salariato.
Un meccanismo del genere non permetterà al proletariato un maggior controllo sulle istituzioni locali. Lo metterà in completa balìa di esse e delle "onde del destino" del mercato mondializzato che le dominerà.
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Il "partito" dei sindaci
A chiarire fino in fondo la prospettiva (suicida anche da un punto di vista borghese nazionale) a cui lavora il "partito" dei sindaci, ci ha pensato Rutelli allindomani del secondo turno elettorale: "Gli ottomila sindaci italiani sono una leva amministrativa preziosa per un paese che non può più limitarsi a formare la sua classe dirigente nelle batterie degli allevamenti partitocratici". Cosa vuole dire, con questo grugnito, il maiale (con tanto di rispetto per la bestia) allevato nelle stalle della Roma-bene-radical-bigotta?
Che gli interessi sociali non devono essere rappresentati dai partiti nazionali. Cioè che non devono essere rappresentati dai partiti in quanto tali. Questo vale, prima di tutto, per gli interessi dei proletari: e sennò come potrebbero essere svenduti al miglior capitalista offerente? Ma questo vale anche per gli interessi dei borghesi.
Bisogna farla finita -dice Rutelli- con una politica italiana che assume come asse di riferimento linteresse globale del capitalismo nazionale e, a partire da ciò, stabilisce le linee dintervento nelle diverse aree del paese. Bisogna farla finita con una classe politica che lavora su questa trama e che, proprio per questo, è strutturata sulla base di una forma organizzativa non territoriale: quella del partito. I sindaci non puntano sulla gara tra le varie città a chi tra loro si piazza meglio nella competizione globale? E allora, fateci il piacere: che la politica "italiana" diventi larena di questa concorrenza! Nei palazzi romani dovremo sederci noi, noi sindaci, per contenderci, luno contro laltro armato, i vantaggi e le agevolazioni che dalle istituzioni italiane potranno arrivare sul singolo territorio. Altro che partiti, qui ci vogliono le liste pro-sindaco (che non a caso sono cominciate a spuntare), qui bisogna far tacere il conflitto sociale allinterno della nostra città, qui sha da fare blocco territoriale... contro il resto del mondo! Per un corporativismo... in una sola città!
Ma in tutto questo cè unaggravante. Solo formalmente tutti i sindaci intendono e hanno la possibilità di portare ad effetto il programma che declinano a parole. Per le città del centro-sud, la bandiera del municipalismo copre spesso il duplice desiderio degli strati borghesi locali di non perdere i privilegi accumulati nellItalia repubblicana e di legare a questa politica "assistenzialistica" (anche in chiave di controllo sociale) i "propri" proletari. Non pensiamo che, visti i tempi, troveranno di che "mungere" come una volta. (Lo stesso "meridionalista" governo Prodi ha fatto più chiacchiere che fatti.) Delusi da Roma, gli strati borghesi del Sud arriveranno probabilmente ad innalzare la bandiera secessionista anti-nordista e anti-colonialista, e la useranno per coprire la loro disponibilità ad affittarsi, sempre sulla pelle dei proletari, agli avvoltoi imperialisti che già volteggiano sulla carcassa italiana. Se nel Nord è Genova a fornire lumi sul futuro prossimo venturo, al Sud è a Taranto che conviene guardare...
Nel "partito" dei sindaci, quindi, si agitano più partiti, in concorrenza tra loro. Sembra di tornare indietro, allItalia pre-fascista dei potentati e delle camarille locali. Potentati e camarille che fu merito borghese del fascismo aver spazzato via, e merito proletario della Sinistra Comunista aver combattuto nel proprio ambito. I sindaci dellUlivo vincono, quindi, ma di ciò non possono felicitarsi i proletari. E neanche -su sponda opposta- la dirigenza dellUlivo, che ancora scommette (a livello "ideale") sul rilancio globale dellimperialismo tricolore: nel pantano italiano di cui sopra, infatti, lavanzata del partito dei sindaci non rappresenta unarticolazione del potere borghese centralizzato, ma la potenziale disarticolazione "catalan-fascista" di esso, sotto la spinta convergente dei mercati internazionali, dei miopi pruriti degli strati borghesi locali e della frenesia da "riciclaggio" (insieme con le proprie sinecure) della rete clientelare legata a certo sotto-bosco politico.
E pensare che cè anche chi sogna di transitare con Bassolin-Cacciari verso la vera versione del socialismo!
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Da Genova un segnale allarmante Al primo turno 30%, al secondo 40%: sono le percentuali degli elettori che non si sono recati alle urne a Genova. Facendo qualche conto ci si rende conto che lastensione ha coinvolto sia la destra che la sinistra, la piccola e media borghesia come il proletariato. "Cè distacco tra governati e governanti", ha commentato il candidato di Rifondazione. Sì, i problemi che la "gente comune" comincia ad avere tra i piedi non sono risolvibili con i metodi, conciliatori e parlamentar-istituzionali, che hanno funzionato fino ad ora. Oltre a ciò, i risultati elettorali di Genova hanno anche indicatoquali sono i mezzi "più spicci" verso cui essa si va indirizzando. Tra i tre candidati della destra si è, infatti, imposto a sorpresa lex-leghista Castellaneta: alla testa di una lista civica indipendente ("Genova Nuova"), egli non ha strappato la vittoria allulivista Pericu solo per un soffio. Castellaneta ha sfondato presentandosi come il paladino della rivolta alla politica e ai partiti, in nome di un programma che egli ha riproposto, a caldo, con la seguente dichiarazione: "meno tasse, rispetto delle leggi e via gli zingari e gli immigrati da questa città diventata invivibile". Un ultimo dato. Lastensione e la migrazione verso "Genova Nuova" ha coinvolto anche la Lega Nord, passata dall8,6 al 3,5%. Evidentemente la spinta a destra in atto nelle viscere della società è così radicale che anche Bossi ha difficoltà a intercettarla Il che è tutto dire sui tempi che ci stanno davanti. |