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Conferme sulla Jugoslavia
Conferme dalla Jugoslavia

LA RAPINA E L’OMICIDIO IMPERIALISTA DI GUERRA
E -PEGGIO ANCORA!- DI "PACE"IN JUGOSLAVIA
EVOCANO L’UNICA RISPOSTA A VENIRE:
LA GUERRA UNITARIA DI CLASSE DELLE
MASSE SFRUTTATE DI JUGOSLAVIA, E DEL MONDO.

Indice

La ricordate la vecchia storiella sulla Jugoslavia? Quel che lì è successo, si diceva, si deve unicamente a fattori interni e, in primo luogo, al rigurgito panserbista che voleva conculcare le altre nazioni. Per fortuna, il sacro diritto di ogni singola nazione all’autodeterminazione ha poi trionfato nonostante l’iniziale indifferenza, o peggio complicità con Belgrado, di un Occidente impotente (e solo tardivamente rimessosi a posto coi necessari parametri di virilità, beninteso unicamente a tutela dei sacri diritti di cui sopra...).

I mezzi di informazione e persuasione di tutti i colori -ma facenti parte di un unico iride, quello borghese- ci hanno suonato questa musichetta per anni in tutte le salse, da New York a Botteghe Oscure, dal Vaticano e Bonn a via Tomacelli, pur nei debiti distinguo formali. Ed anzi, quando si è trattato di mostrare i muscoli per riaffermare le leggi della democrazia violata unilateralmente da Belgrado, è stata proprio una tal Rossanda a chiedere che i bravi tutori dell’ordine dell’Occidente bombardassero all’occorrenza la capitale serba; invito a tal punto raccolto dagli stati maggiori interessati che, apprendiamo dalla Voce del popolo di Rjeka (Fiume in traduzione italiana), quelli francesi studiarono persino l’opportunità di un "limitato" bombardamento atomico, col che il diritto sarebbe stato prontamente ristabilito per la soddisfazione unanime dei bravi democratici. Encomiabile progettino poi ritirato perché non si sa mai, forse avrebbe potuto provocare "qualche reazione", aprire qualche occhio, anche qui da noi, e tanto valeva allora continuare nell’opera lenta e metodica di dissanguamento del cattivo di turno ad evitare di turbare le "coscienze". (Un metodo di guerra ancor più sporco ed esiziale, diciamo noi...).

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Veli squarciati sulle menzogne di ieri (per salvare quelle di oggi)

Oggi, la montagna di menzogne allora propinateci comincia a frantumarsi. Ma anche qui per quel tanto che serve a meglio affermare i "nostri" nazionali interessi.

E’ così che un Vertone, sulle pagine di Limes, ammette tardivamente (e persino con una certa qual aria scandalizzata) l’"interessamento" tedesco alla secessione slovena prima e croata poi evocando il pericolo di una replica dell’operazione "imperialista" anche qui in Italia col foraggiamento e la direzione del secessionismo padano. Non è, con questo, che si rimettano in causa le ragioni dell’intervento disgregatore in Jugoslavia, ma solo il suo carattere "pantedesco", cui noi italiani dovremmo rispondere riaffermando le imprescindibili ragioni del nostro "spazio vitale" ad Est. Lo smembramento della Jugoslavia andava benissimo, ma a noi dovevano aspettare bocconi migliori, questa la morale, e per le stesse ragioni non ci va per nulla bene un secessionismo italico visto che un imperialismo nazionale qui da noi si è già autodeterminato e va difeso entro ed oltre i confini dello Stato.

Allo stesso modo un Paolo Rumiz (vedi il suo recente Maschere per un massacro, Roma, Ed. Riuniti, 1996, per molti altri versi interessante ed utile) arriva a riconoscere "onestamente" quanto sopra e, soffermandosi in particolare sul caso sloveno, torna a ridicolizzare le fanfaluche sulla "guerra di liberazione" lubianese (anche se noi ricordiamo certi pezzi del suo Piccolo, all’epoca, non precisamente in linea col presente revisionismo attualistico) e si spinge sino a riconoscere che la secessione slovena fu ad un tempo sponsorizzata da Bonn e in nulla e per nulla seriamente contrastata da Belgrado, che, anzi, in qualche modo, l’aveva concordata con Ljubljana. Ma anche in questo caso si tratta di una semplice correzione di "dettaglio", che deve semmai servire per rinfocolare l’isteria antiserba, sempre sperando che, stavolta, l’Italia faccia con profitto la sua parte. Anche il Rumiz appare ossessionato da una replica dei fatti jugoslavi su terra italiana attraverso un secessionismo che trovi qui la sua legittimazione locale ad esistere in relazione (ma questo non lo si dice!) del meccanismo capitalistico globale a scala mondiale e al di fuori del paese delle forze interessate a favorirlo e piegarlo ai propri scopi. Quindi: la disgregazione balcanica è tanto poco un fenomeno connesso ad una determinata razza, ad un dato territorio, che si può replicare anche tra di noi, così lontani dall’"inciviltà balcanica". Chi lo impedirà? Questo lo si lasci dire a noi...

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Contro tutte le menzogne, di ieri oggi e domani, non per la "verità" storica, ma per la storica resa dei conti di classe

In questo desolante quadro di mezze verità al servizio di doppie menzogne, segnaliamo con piacere l’uscita in Inghilterra di un libro, a firma M. Chossudovsky, straordinariamente controcorrente, The Globalisation of Poverty (London, Zed Books, 1997), in cui troviamo la piena conferma delle posizioni da noi stoicamente difese in perfetta solitudine sulla questione jugoslava ed, anzi, con qualcosa persino in più quanto a dati materiali di riferimento (ed, ovviamente, con un’essenziale qualcosina in meno quanto alla prospettiva politica di risposta al killeraggio imperialista).

Ci limitiamo qui di seguito a dar sommariamente conto della parte del libro dedicata al problema, senza troppo doverci aggiungere di nostro.
L’autore parte, con noi, dal presupposto che "le tendenze secessioniste basate sulle divisioni etniche e sociali presero impeto precisamente durante un periodo di brutale impoverimento della popolazione jugoslava" dovuto proprio all’avvio di riforme macro-economiche (la prima fase delle quali data al 1980, a stretto ridosso della morte di Tito) dettate dagli organismi imperialisti internazionali.

Un documento segreto USA dell’82 parlava già allora di "sviluppare gli sforzi per promuovere una ‘rivoluzione pacifica’ per rovesciare i governi comunisti e reintegrare i paesi dell’Europa Orientale nell’economia di mercato", cioè: del mercato ad essi soggetto. Operazione perfettamente riuscita, come si vede, ma su cui conta poco piangere se non si comprende che la risposta ad essa non poteva consistere in una chiusura autarchica di quei regimi entro i propri confini nazionali o di area, dal momento che i legami strutturali con il mercato globale dominato dall’Occidente costituivano di già un dato di fatto imprescindibile per la rete degli interessi borghesi locali (tant’è che l’apertura fu sancita proprio da essi attraverso le operazioni dei partiti-stato "comunisti" e in modo del tutto "pacifico"); la risposta poteva, al contrario, venire unicamente da una reinsorgenza autonoma ed antagonista di classe integrata a quella del proletariato internazionale, contro mandatari borghesi esterni ed esecutori (profittatori) borghesi interni: ciò che non si è concretamente dato, per mille ragioni storiche su cui non è il caso qui di ritornare (una per tutte, però, da ricordare: l’opera nefasta di smobilitazione del proletariato promossa dal titoista sin nel cuore del suo apogeo "comunista").

La seconda "stabilizzazione" economica, dell’83, a firma FMI, doveva comportare per il "libero mercato" jugoslavo una dose massiccia di inflazione (nell’89 arriverà al 2700% annuo), il congelamento del credito e, di conseguenza, un collasso degli investimenti, il tutto accoppiato ad una liberalizzazione delle importazioni gabellata come sprone per le risorse concorrenziali interne. Il pacchetto di aiuti promesso nell’89 dagli USA vi aggiungeva la necessità di un drastico taglio all’occupazione eccedente" e della spesa sociale pubblica sino all’abrogazione del sistema autogestionario delle imprese a "proprietà sociale". Tutte misure prontamente attuate dal potere jugoslavo, quello politico e quello economico già detentore della proprietà reale delle imprese in questione ad onta della sopravvivacchiante vernice sociale ed auogestionaria. Con la conseguenza aggiuntiva che questa "liberalizzazione" del mercato veniva ad attuarsi sempre più indipendentemente per le singole fasce territoriali od "etniche", cioè: sempre più svincolate esse da Belgrado, inibito ad attuare una politica economica realmente federale in assenza di cumquibus, e sempre più direttamente, invece, vincolate alle centrali internazionali imperialiste di riferimento. Di qui il progressivo venir meno di una qualsivoglia autorità statale federale effettiva nello sfrangiamento, la concorrenza ed il contrasto all’interno tra le singole unità ministatuali borghesi. Le premesse di quanto sarebbe accaduto poi sono già date alla scala dei singoli spezzoni "nazionali" della borghesia jugoslava.

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Presenza e limiti del proletariato jugoslavo

L’autore ricorda come nel ‘90 il governo serbo rigettasse il programma di austerità di Markovic, senza, ovviamente, riuscire a dare a questo rifiuto uno sbocco, né per quanto concerneva la Serbia stessa né, tanto meno, a scala pan-jugoslava. Un simile accenno di protesta non poteva risultare vincente che vincolato ad un programma anti-imperialista e socialista poggiante sulle gambe del proletariato jugoslavo nel suo insieme. L’ultima delle risorse cui poteva guardare il governo borghese serbo, va da sé! Ed è invece vero che furono proprio i proletari a scendere in piazza contro queste misure, in numero di 650.000, dichiarando, per bocca dei sindacati, che "il movimento operaio di resistenza attraversa le linee etniche unendo fianco a fianco in un sol fascio, in quanto compagni operai, serbi, croati, bosniaci insieme mobilitati". Una chiara, entusiasmante dichiarazione di guerra di classe, cui, non casualmente, i governanti serbi non seppero rispondere che "assumendosi" a proprio carico gli interessi dei "propri connazionali" contrapposti a quelli altrui ed i governanti delle altre repubbliche lavorando sullo stesso piano per rompere il nascente fronte di classe. Di fronte al pericolo di una Comune, lo sappiamo da vecchia data, i contendenti borghesi depongono momentaneamente le armi per far fronte unico contro la minaccia proletaria ed anche in questo caso l’operazione è riuscita, giovandosi dell’indifferenza e del silenzio di qui, del proletariato delle metropoli imperialiste, incapaci di intendere (grazie all’opera dei "propri" rappresentanti) come là si stesse giocando una battaglia generale che li vedeva direttamente coinvolti, e vittime. Torniamo a ripeterlo per gli smemorati: non imputiamo a Milosevic di aver giocato per primo e da solo la carta dell’"etnicità" (in lui, inizialmente, colorata di "interessi sociali dei lavoratori" e di "opposizione" ai piani dell’imperialismo), ma di averla usata assieme agli altri per dividere e deviare un proletariato che si stava muovendo (e di questo, ne siamo certi, i vari Kucan, Tudjman ed Izetbegovic gliene renderanno merito...).

Così, mentre si finge la faccia feroce contro la manomissione imperialista, proprio ed anche Belgrado dà il suo contributo all’opera di smantellamento della Jugoslavia. Nell’88 la Legge sugli investimenti stranieri apre le porte al capitale straniero non solo nell’industria, ma anche nelle banche e nel settore assicurativo, cioè nel cuore del meccanismo finanziario, con l’immediato risultato dello smantellamento totale delle banche associate a proprietà "sociale" autogestita e la sparizione, nell’arco del biennio ‘89-’90, di metà delle banche nazionali jugoslave unitamente alla restrizione progressiva dei poteri della Banca centrale. Nello stesso biennio più di 600.000 lavoratori (su un totale dell’occupazione industriale di 2,7 milioni) sono espulsi dalla produzione, in particolare in Serbia, nella Bosnia-Erzegovina, nella Macedonia e nel Kosovo, mentre nel settembre del ‘90 le autorità "federali" parleranno di 1,9 milioni di "eccedenti"; e ciò, unitamente ad altri fattori, costituisce un ulteriore indebolimento del fronte operaio, progressivamente sempre più vittima dell’agitazione nazionalistica (in Slovenia e Croazia di quella prospettante l’aprirsi di paradisi di benessere a patto di liberarsi di Belgrado, altrove di quella populista e magari sociale, sempre a condizione di vincolarsi alle bandiere nazionali delle proprie borghesie). Dal disfacimento del potere politico ed economico centrale, unitario, è del tutto logico che proliferino non solo tanti poteri quanti sono le singole "nazioni", ma una miriade di sottopoteri, di clan gangsteristici e mafiosi (come scrivono molti) e che, in vista della spartizione del bottino, essi accendano i fuochi bellici incuranti di ogni "razionalità" e spingendosi al massimo della ferocia. Ma scambiare questo effetto per la causa -come fa, ad esempio, il Rumiz, sempre attento di suo ad evidenziare gli orrori di una sola parte del tutto- significa semplicemente assolvere i mandanti e profittatori veri del disastro in corso: le bande criminali sia serbe che croate o musulmane non costituiscono, in effetti, che la manovalanza (certo sporca, e ben pagata) della vera centrale del crimine, con legalissima e lodatissima sede in Occidente

Il nostro autore ripercorrere bene tutte le fasi attraverso cui la combutta internazionale dei governi imperialisti, delle loro banche, del FMI e del loro braccio armato dell’ONU hanno spinto alla guerra le varie fazioni "nazionali" agitando lo specchietto per le allodole di un beato ingresso nell’affluent society della "democrazia occidentale" e, in realtà, vincolandone i gruppi dirigenti a contestuali operazioni di "ristrutturazione" dell’economia tali da renderla assolutamente dipendente dai propri interessi. Egli dimostra molto bene, ad esempio, come i fatti bellici in Croazia non siano stati la causa, ma il semplice fattore propedeutico dell’affondamento dell’economia nazionale di quel paese (caduta del PIL del 50% tra il ‘90 ed il ‘93, disoccupazione dal 15,5 al 19,1% pressoché nello stesso periodo). La distruzione bellica non è stata che il primo colossale affare per l’Occidente, ma il secondo, ed incomparabilmente più grande, arriva al momento della cosiddetta "ricostruzione", con le singole economie obbligate ad indebitarsi col FMI, a cedere agli stati imperialisti quote notevolissime, ed in pratica il controllo dell’economia stessa, con l’impedimento di ogni autonomia economica e politica. In un paese come la Macedonia quest’opera "ricostruttiva" è andata anche più oltre: non solo vi si è avuto lo smantellamento dell’intiero settore industriale nazionale (4000 imprese chiuse per non redditività ed insolvenza coi neo-creditori del FMI) e l’accaparramento da parte dell’estero del sistema bancario "nazionale" nel suo complesso, ma, a sanzione di ciò, l’acquartieramento delle truppe militari USA nel paese a testimoniare chi veramente è il padrone del campo. Contro tutti coloro che cianciano di "insensatezza" della guerra, emerge chiarissimamente ciò che il marxismo sa da sempre: che la guerra è, per l’imperialismo, un sensatissimo e lucroso affare (ed un puro accidente che esso si compia sulla pelle delle masse sfruttate), ed ancora di più lo è la "ricostruzione", continuazione della guerra (permanente) del capitale con altri mezzi, non meno fetidi e sanguinosi.

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Guerra atto secondo: "pace" e "ricostruzione"

Ancor di più questa denunzia si attaglia al caso della Bosnia, il paese per cui l’Occidente ha sparso e sparge più lacrime coccodrillesche (a misura che qui il piatto è più abbondante ed anche strategicamente vitale e perciò più si mangia e più... si piange nella digestione).

I 1700 poliziotti ed i 70.000 armati a servizio degli USA che vi stazionano non sono certo deputati ad "assicurare la pace", denunzia bene il nostro, ma a sanzionare l’amministrazione coloniale del paese attraverso la sua spartizione territoriale in tante unità frammentate ed artificiosamente contrapposte a facilitazione di tale compito "in opposizione alla resistenza unitaria degli jugoslavi di ogni origine etnica contro la ricolonizzazione della propria patria" (un’opposizione viva alla base, nelle masse, e di cui si sono avute e si hanno eloquenti esempi, ma che proprio perciò va inchiodata al doppio controllo dei singoli quisling a servizio dell’Occidente e dell’Occidente direttamente).

Qualche scarno dato ad illustrazione di ciò. I crediti per la "ricostruzione" sono dati col contagocce (3 bilioni di dollari su 47 stimati come necessari, e solo in parte effettivamente sborsati a tutt’oggi), ma una parte di questa stessa elemosina dev’essere impiegata per pagare... i costi dell’operazione militare ONU nel paese, come esplicitamente recitano gli accordi di Dayton. Contemporaneamente, a spazzar via ogni equivoco, si è "consensualmente" e molto democraticamente stabilito che il governatore capo della Banca Centrale bosniaca deve essere stabilito dal FMI e "non potrà essere un cittadino della Bosnia Erzegovina o di uno stato vicino" (!), il tutto, ovviamente, per il rispetto della... multietnicità (l’etnia Wall Street è la più sicura). E, sempre in vista della "ricostruzione", l’Amoco (American Oil Company) sin negli anni di guerra si è vivamente interessata della prospezione di giacimenti petroliferi nel paese. In un rapporto del ’95 si legge che "la Banca Mondiale e le multinazionali che hanno condotto tali operazioni sono riluttanti a divulgare i risultati delle loro ricerche ai governi in lotta sinché la guerra continua", ma certamente non si son mostrati riluttanti a dettare in base ad esse i tracciati della divisione territoriale sanzionata dagli accordi di Dayton ed a firmare degli accordi preventivi, a scatola chiusa (per i dominati), per l’"eventuale" sfruttamento dei pozzi a venire.

Sì, sappiamo benissimo dove stiano di casa i criminali di guerra (e di pace: ancor peggiore questa!). E vediamo benissimo come la "globalizzazione" imperialista in atto non si riduca ad una semplice estensione geografica di un determinato "modello" economico-sociale, ma si traduca di necessità in un’opera di rapina e di sconvolgimento di tutti gli assetti precedenti, a ferro e fuoco, per i paesi che, nell’ambito dello sviluppo (sempre più) combinato e (sempre più) diseguale sono destinati alla parte delle vittime sacrificali. Questo aspetto intrinseco alla globalizzazione nella fase di putrescenza parassitaria dell’imperialismo sembra, all’occhio dei superficiali, manifestarsi casualmente in questi paesi, e magari per ragioni di endogena irrazionalità. Al contrario, la catena che inesorabilmente li stringe e li soffoca è destinata a stringere e soffocare gli stessi anelli più deboli del centro imperialista. Non è un caso che qualcuno, di parte borghese, cominci oggi a riflettere qui sui pericoli di una jugoslavizzazione dell’Italia: è la confessione obtorto collo della realtà dei meccanismi distruttivi dell’imperialismo che, nel suo procedere, non manca mai di trovare all’uopo la manovalanza che gli occorre per scatenare l’inferno che gli serve. Così nella Jugoslavia, così potrebbe essere per l’Italia (differenziali di "civiltà non balcanica" a parte...). Cosa manca a questa confessione? Semplicemente quello che affermiamo noi: la necessità di rispondere a tale globalizzazione assassina con la globalizzazione dell’antagonismo di classe, con l’affermazione dell’emancipazione universale dell’umanità da parte del socialismo in guerra spietata al capitalismo internazionale. I forcaioli che hanno plaudito e lavorato per lo smembramento della Jugoslavia visto come un buon affare "anche per noi", nella stolida certezza che mai a "noi" potrebbe capitare altrettanto, hanno aperto la strada non solo ai Tudjman, agli Izetbegovic, ai Milosevic e giù giù di quel paese, ma alle loro repliche, domani, qui e i tanti sventolatori di tricolore italico di tal risma son già pronti, in effetti, a sbranarsi, all’occorrenza, fra loro a servizio delle centrali più potenti dell’imperialismo in reciproca concorrenza. Nell’ora decisiva non ci sarà da aspettarsi da costoro neppure una qualsiasi conseguente lotta per l’indipendenza patria (di cui a noi fotte un accidente). Solo l’esercito unico e centralizzato del proletariato mondiale potrà farci uscire da questo insanguinato pantano. Per noi, che ci lavoriamo da sempre, l’esperienza jugoslava non costituisce un fatto chiuso, ma una fonte ricca di lezioni ed una ferita nelle nostre carni, nelle carni del proletariato, che saprà rimarginarsi. E sarà la volta che a ferirsi saranno altri...

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