Crisi nel |
LIMPERIALISMO INTENSIFICA
LAGGRESSIONE ALLASIA E
STRINGE IL CERCHIO INTORNO ALLA CINA.
La pesante crisi finanziaria che ha colpito in particolare il sud-est dellAsia certifica il grado di esplosività cui sono giunte le contraddizioni dellintero capitalismo. E dimostra come lunica soluzione che esso possa prospettarsi sia quella di scaricarne le conseguenze sulle masse proletarie dei paesi dominati dallimperialismo, su interi paesi e continenti che cercano di affrancarsi dal sottosviluppo, dalla miseria, e dal suo dominio, e su tutto il proletariato metropolitano. Laggressione capital-imperialista sospinge, suo malgrado, sullarena dello scontro masse sempre più vaste, e chiama la classe operaia occidentale, e i comunisti in essa, a non rimandare oltre il loro compito di realizzare la saldatura tra le proprie forze e quelle nuove scaraventate sullarena dello scontro di classe internazionale. Per organizzare insieme una reale difesa dallaggressione, per fondare su questa base lassalto a un sistema che per autoriprodurre sé stesso precipita nella miseria e nel peggiore sfruttamento parti crescenti dellintera umanità. |
Dallestate del 97 i mercati di azioni e valute sono in continua turbolenza. Lepicentro è nel sud-est dellAsia, nei paesi chiamati dal lessico capitalista "tigri asiatiche" per descrivere laggressività con cui serano avventati sui mercati mondiali, chi dagli anni 70 (Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea del sud), chi più di recente (Indonesia, Thailandia, Malaysia, Filippine). La crisi sè propagata anche al Giappone. Le borse hanno subìto crolli continui, e le monete nazionali pesanti svalutazioni. In occidente sè diffusa la paura dell "effetto domino", lestensione della crisi a tutto il mondo. Borse e monete dellAmerica latina e dellEuropa dellest hanno accusato pesanti colpi, e nelle stesse borse occidentali ci sono stati shock, momentanei ma violenti, come il crollo di Wall Strett il 27 ottobre (554 punti persi in un giorno, 46 in più del "lunedì nero" dell87, anche se in percentuale allora valevano il 22,6%, ora "solo" il 7,2%).
Istituzioni finanziarie occidentali, governi e "guru" delleconomia, si sono spesi al massimo per evitare il panico sui mercati occidentali, puntellando quella fiducia senza la quale gli investitori si precipiterebbero a vendere i titoli nella speranza di immediato realizzo. Lobiettivo è stato, finora, conseguito, ma non vè alcuna certezza che possa esserlo a lungo.
Ma, poi, il vero problema è evitare che la crisi da est si diffonda a ovest, oppure garantirsi che da ovest si scarichi unicamente a est? Nel sistema capitalista è impossibile circoscrivere a un paese o a una area determinata il motivo di una crisi produttiva o finanziaria. Ciò è vero da molto prima che apparisse il termine "globalizzazione". Tanto più oggi che lintero sistema capitalista mondiale versa (da più di 20 anni) nello stato di grandi difficoltà, seguìto alla crescita post-bellica. Allorigine della crisi cè il limite intrinseco del sistema stesso: la difficoltà di valorizzare il capitale aumenta con laumentare stesso del capitale. Più cresce la sua massa, più cresce la difficoltà di incrementarla ulteriormente ai tassi di profitto necessari. La contromisura più classica per il capitalismo è, in ultima istanza, aumentare il saggio di plusvalore, lo sfruttamento operaio. Non è questione solo di rapporti di classe dentro la singola azienda, è questione di rapporti di classe a livello mondiale. La crisi in corso lo dimostra una volta di più. E consegna ai comunisti una "vittoria" teorica, e un piano di compiti di lavoro teorici, politici e organizzativi della massima urgenza e importanza.
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Per comprendere le attuali convulsioni bisogna risalire, almeno, agli anni 80. Alle difficoltà generali manifestatesi nella seconda metà degli anni 70, il sistema capitalista rispose -come da manuale marxista- con la crescente finanziarizzazione delleconomia. Aiutata da reaganismo e thatcherismo questa si presentò come una magica soluzione: il denaro sembrava creare denaro. In realtà il vorticoso espandersi dei mercati finanziari si alimentava dei profitti sottratti a ciò che la borghesia chiama "mondo produttivo", "economia reale", evitando, naturalmente, di distinguerne i soggetti principali: i capitalisti (che vivono allegramente a cavallo dei due campi, produttivo e finanziario), i piccoli capitalisti (impediti a farla da padroni sui mercati finanziari, ma che della finanza non possono fare a meno, finendone per lo più vittime) e il proletariato, lunica classe che veramente produce e dal cui lavoro tutte le altre traggono quel che gli serve anche per i giochi di borsa.
Le contraddizioni cominciarono, ben presto, a rivelarsi: le aspettative sollecitate attorno ai mercati finanziari crearono una vera e propria "bolla speculativa", una sorta di "piramide albanese" a livello planetario, cui i piccoli risparmiatori consegnavano i risparmi nellattesa di vederseli lautamente ripagati, mentre dietro langolo si preparava la loro spoliazione a vantaggio delle istituzioni finanziarie del grande capitale. La "bolla" comiciò a mostrare crepe a partire dagli Usa, la potenza imperialista che più dogni altra laveva prodotta e ne aveva guadagnato: fallimenti di banche e assicurazioni, il crollo borsistico dell87.
Per ridurre i danni alla propria economia gli Usa cercarono di dirottare altrove gli effetti più catastrofici. Puntarono, così, a far rivalutare lo yen, ufficialmente per ridurre il deficit commerciale col Giappone. In virtù della loro potenza finanziaria complessiva e, ancor più, della loro potenza militare riuscirono a imporre quella politica. Lo yen si rivalutò, il surplus giapponese nei confronti degli Usa si ridusse, e il Giappone... precipitò in una stagnazione economica, che dura da 8 anni. La borsa di Tokio iniziò una discesa che ha portato -tra l89 e il 97- a un calo del 50% dei suoi valori. Il Giappone pagò, così, una parte dello sgonfiamento della "bolla". Tutte le attività acquistate in Usa in gran quantità (titoli pubblici, azioni e immobili) si svalutavano con la svalutazione del dollaro sullo yen.
Ma, la catena non era finita. Infatti, con lo yen rivalutato il Giappone incrementò gli investimenti e la delocalizzazione delle aziende verso i paesi del sud-est asiatico, da cui partiva un nuovo assalto commerciale ai mercati mondiali. Ciononostante, la sua borsa continuò a decrescere fino al punto di rischiare di affondare, con conseguenze catastrofiche sullintera economia mondiale. Così, a partire dal 95, le banche centrali di Usa, Giappone e Germania promossero una politica di rivalutazione del dollaro sullo yen, che è, in effetti, risalito da 81 yen per dollaro del 95 agli attuali 130. Per i paesi del sud-est gli effetti, però, sono stati drammatici. La rivalutazione del dollaro esponeva le loro monete, legate alla valuta americana, a grandi difficoltà.
La speculazione finanziaria internazionale (non più solo i Soros, ma, ormai, anche i fondi-pensione, in particolare americani e inglesi) ne ha approfittato per sferrare attacchi micidiali costringendo le varie monete (solo Taiwan -riparmiata dagli attacchi più duri- e Hong Kong hanno, finora, resistito) a rinunciare allaggancio al dollaro, fluttuare liberamente e subìre svalutazioni durissime. Di conseguenza il valore dei debiti internazionali in dollari sono cresciuti in modo esponenziale. Stati, istituzioni e aziende che li avevano contratti si sono trovati, via via, nellimpossibilità di onorarli. Ciò, a sua volta, ha generato una crisi di fiducia nella loro solvibilità ("opportunamente" accompagnata dai declassamenti delle agenzie internazionali di valutazione dei debiti). Gli investitori internazionali hanno cominciato a disinvestire, le borse-titoli a crollare e le economie del sud-est asiatico sono state spofondate in una spirale di crolli finanziari, che appare senza fine, nonostante il "provvidenziale" aiuto dellFmi.
Gli effetti più devastanti dello sgonfiamento della "bolla speculativa" accumulatasi in Usa sono, dunque, transitati per il Giappone per essere, poi, scaricati sui paesi del sud-est asiatico. Dove origina la crisi, e chi la paga, dunque?
Detto in termini marxisti: lintero sistema capitalista impatta nella difficoltà di valorizzare per intero il capitale, non gli rimane che distruggerne una parte, il che avviene in modo veramente significativo solo con una guerra generale di distruzione. In mancanza di essa, o -come oggi- nel corso dei suoi preparativi, leffetto può essere raggiunto con la svalorizzazione di intere porzioni di capitali (il che può dare momentanee "riprese", più o meno effimere e limitate). Quali porzioni svalorizzare è il risultato di uno scontro i cui esiti sono decisi sulla base della potenza finanziaria e militare di cui si dispone. E, a tuttoggi, gli Usa sono, sotto entrambi gli aspetti, insuperati. E, particolare affatto secondario, viene pagata unicamente dal proletariato. Basti dare uno sguardo alle politiche che lFmi impone ai paesi gratificati dal suo "aiuto": riduzione di spese sociali e salari, licenziamenti e chiusura di aziende, elevamento della redditività delle imprese superstiti tramite lincremento della produttività del lavoro, e alleffetto-domino che tali politiche scaricheranno sullintero proletariato mondiale.
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Cresce la centralizzazione imperialista
La garanzia di circoscrivere la crisi al sud-est asiatico non esiste. Il sistema finanziario internazionale è totalmente esposto al rischio di contagio. La bancarotta di paesi come lIndonesia o la Corea del sud, o quella delle banche giapponesi, potrebbero inceppare il sistema creditizio internazionale, e (avverte il sole/24 ore del 30.12.97) una paralisi, seppur brevissima, del sistema bancario nel mercato globale potrebbe essere lequivalente di un ictus nel corpo umano. Terrorizzati dallo spettro di un nuovo 29 diversi economisti (persino listituzione-gemella Banca Mondiale) hanno lamentato che le politiche dellFmi rischiano di uccidere il paziente invece di salvarlo. I lamenti valgono a invitare il Fondo a non calcare troppo la mano, pena il crollo generale mondiale, non certo a metterne in discussione la politica di sottomettere il sud-est asiatico a un prelievo crescente a vantaggio delloccidente.
Alla svalorizzazione del capitale consegue, infatti, la possibilità per le maggiori potenze finanziarie di acquisire a prezzi stracciati impianti, aziende e uomini de-prezzati. Lacquisto in "saldi" non avviene tanto con investimenti diretti, quanto con i sofisticati meccanismi della finanza. Più che comprare aziende i capitali occidentali puntano a impossessarsi del sistema finanziario delle ex-tigri.
Alluopo son decisive le "riforme liberalizzatrici" che lFmi impone ai paesi aiutati e sta rivelando la sua importanza anche il Wto (World Trade Organitation, Organizzazione mondiale del commercio), nato di recente e diretto dallitaliano Ruggiero. Lo scopo del Wto è accrescere la "libertà degli scambi". Latto più recente è laccordo del 12 dicembre che dà completa libertà di instaurare ovunque le attività dei servizi finanziari (banche, assicurazioni, brookeraggio -compravendita di azioni e titoli). I paesi del sud-est asiatico erano restii, temendo laggressione della finanza occidentale ai loro mercati, cui non sono in grado di rispondere con una relativa contro-aggressività sui mercati occidentali. La crisi in cui sono incappati (cè chi ha detto: forse non casualmente...) ha demolito le loro resistenze: non ha voce in capitolo chi dipende dalla finanza internazionale fino al punto di doverne implorare laiuto. Così, entro il gennaio 99 ogni paese dovrà rendere operativo laccordo del Wto.
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Misero approdo dell "anti-imperialismo" borghese
Leconomia del sud-est asiatico, dunque, ripartirà -se ripartirà- ma i profitti da essa prodotti verranno direttamente appropriati dal pugno (sempre più ristretto) di paesi e di grandi capitali che dominano il mondo. Siamo, con ciò, in presenza di un ulteriore rafforzamento e centralizzazione del dominio imperialistico. Ma siamo anche in presenza dellaccumularsi dellodio nei suoi confronti da parte di masse sterminate, dapprima attratte a sottomettersi allo sfruttamento capitalistico con la promessa di un crescente benessere, e, oggi, dallimperialismo schiacciate in condizioni di crescente miseria. In più, gli effetti della crisi attuale espongono, agli occhi delle masse asiatiche, più palesemente che in passato, limperialismo, segnatamente quello a stelle strisce, nel ruolo di loro diretto sfruttatore e oppressore.
Le manifestazioni contro lFmi, i ritratti di Soros (beffeggiato in quanto speculatore ed ebreo) bruciati in piazza, sono primi timidi segnali di una ventata di lotta anti-imperialista che fucina nellarea. La stessa borghesia locale se ne fa portavoce lanciando anatemi contro loccidente, ma i suoi sono destinati a rimanere proclami impotenti. Questa classe ha già fatto quanto poteva per emanciparsi dallimperialismo, e oggi raccoglie il frutto del suo anti-imperialismo: una nuova e più pesante sottomissione al suo dominio. Lo sviluppo industriale dellarea è stato, infatti, un tentativo di costruire un sistema economico moderno in grado di autonomizzarsi dalla dipendenza dalloccidente, fino a poter competere con lui ad armi pari.
Il tentativo la borghesia asiatica lha fatto nellunico modo in cui poteva: prendendo a prestito i capitali da chi ne aveva in quantità, agganciando le monete al dollaro per contenere il costo dei debiti e delle materie prime, mobilitando tutte le risorse nazionali -con una forte integrazione tra industria, commercio, banche e politica- al fine di utilizzare i prestiti per costruire un solido apparato industriale e cercando di ripagare i debiti con i profitti delle esportazioni (diviene ognora più difficile sviluppare le esportazioni a ritmi annui del 20% in un mondo che cresce -o ristagna?- a ritmi del 2,5%). Per lo sforzo di modernizzazione necessitava una rigida disciplina sociale innanzitutto da parte del proletariato e delle masse contadine destinate a trasformarsi in proletariato. Di qui il bisogno di stati forti, centralizzati, spesso dispotici anche nei confronti di parti della stessa borghesia.
Oggi loccidente denuncia le cause della crisi asiatica nelleccessivo indebitamento, nel gigantismo, nella scarsa trasparenza di stati e banche, nella corruzione politica, nel nepotismo, nella mancanza di democrazia. Ognuno di questi elementi era legato, però, proprio allo sforzo di emancipazione che loccidente imperialista non poteva consentire, tanto più oggi che è, a sua volta, attanagliato da una crisi profonda. La borghesia locale, sconfitta nel tentativo di portarsi alla pari delle sezioni dominanti della sua stessa classe, finisce, oggi, con il dipendere da quelle anche per la sua stessa sopravvivenza.
Essa non si metterà mai a capo di una vera rivolta anti-imperialista nellarea.
Questo è certo. Ciò non le impedirà di cercare di massimizzarne i proventi nel rapporto
con limperialismo come cane da guardia contro le masse proletarie, cercando di
sfruttare la spinta di queste per rosicchiare di nuovo qualche margine di profitto in
proprio. Ma i margini che limperialismo può concedere sono sempre più sottili, e
se, per esempio, un vecchio e fidato arnese come Suharto, paventando il rischio di guerre
sociali, propone in Indonesia tagli inferiori a quelli comandati dal Fmi, gli si fa sapere
per le vie brevi (una telefonata di Clinton) che o si adegua o... passa la mano ad altri.
Meno limperialismo inclina a compromessi, più il rischio di incendio di classe
dilaga. Consci del rischio gli Usa portano avanti una politica di continua divisione e
contrapposizione tra i vari paesi, riservando a sé il ruolo di guardia della
stabilità regionale. Un ruolo su cui aleggiano, però, ombre sempre più minacciose.
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Giappone: tra ansie imperialistiche e frustrazioni
Unombra è costituita dallincognita-Giappone. Questo paese sembra ancora
del tutto piegato agli Usa. Grande potenza economica, ma scarsa sovranità politica. Le
aspirazioni imperialiste in proprio, connaturate al potenziale produttivo e finanziario,
sono state di nuovo ferocemente frustrate. Gli Usa hanno bloccato sia la spinta a un
accordo con la Russia (pace, compromesso sulle Kurili, sviluppo industriale della Siberia)
che la proposta di un fondo di soccorso asiatico ai paesi in crisi con condizioni meno
devastanti di quelle dellFmi, e premono perché il Giappone apra di più il suo
mercato, diventi una pattumiera della sovrapproduzione asiatica e mondiale. Lamico
occidentale si rivela vieppiù un pericoloso concorrente, un tutore interessato e avido.
Scrollarsi di dosso questa tutela è per la borghesia giapponese una necessità sempre
più evidente, ma una scelta sempre più difficile, perchè se non si autonomizza
per tempo dagli Usa, gli sarà sempre più difficile farlo in seguito, nel caso in cui la
Cina si rafforzi. E difficile anche perchè nel paese è in corso una crisi politica
simile a quella dellItalia, in cui, al pari dellItalia, hanno giocato
probabilmente un ruolo discreti agenti "esterni". E, come lItalia, non ne
riesce a venir fuori in modo convincente.
Ma le frustrazioni continue e il terrore di un incendio proletario nella regione non
potranno alfine spingere la borghesia giapponese a lanciare il guanto di sfida al
tutore-concorrente, cercando, magari, di porsi alla testa di una crociata contro il
neo-colonialismo (a copertura del suo imperialismo)?. Il pur pavidissimo premier
Hashimoto ha, significativamente, mormorato: pensavamo di celebrare la fine del
colonialismo asiatico, invece ci rendiamo conto di quanto siamo tornati indietro (lUnità
16.12.97).
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Attacco alla modernizzazione della Cina
Più minacciosa del Giappone è lombra che alza la Cina sul dominio americano sullarea. La crescita della potenza industriale, commerciale e finanziaria di questo paese preoccupa gli Usa. Essi paventano il vicino "sorpasso" cinese ai danni delleconomia americana. Ben sanno che non è così: il sorpasso non è vicino, anzi il divario tecnologico e finanziario tende a crescere a vantaggio americano. Ma la Cina potrebbe rinforzarsi fino a fungere da catalizzatore delle economie dellintera Asia orientale, ponendo, così, le premesse per escludere gli Usa dal banchetto locale, presentarsi nella stanza di comando mondiale e produrre una rivoluzione nei vertici. Per impedire levento limperialismo Usa sta mettendo in atto, anche nel corso dellattuale crisi finanziaria, le sue contro-misure preventive.
A luglio 97 Hong Kong ritorna alla Cina, la crisi finanziaria del sud-est scatta
pochi mesi dopo. Ancor più "strana" è la coincidenza ove si consideri
lattacco sfrenato al dollaro di Hong Kong, che ha resistito, finora, conservando la
parità fissata con quello americano 14 anni fa di 7,80 dollari HK per 1 dollaro Usa.
Hong Kong è unimportante piazza finanzaria, su cui la Cina conta per ottenere i
capitali necessari per spingere innanzi il ciclopico sforzo di modernizzazione
capitalistica già avviato. Il problema è laccesso ai capitali e le condizioni
dellaccesso. In Hong Kong la Cina vede un canale stabile di accesso, e,
soprattutto senza condizioni capestro. Di capitali Hong Kong ne ha già investiti in Cina,
delocalizzando molte produzioni nel vicino Guangdong, ma, per uno sviluppo
"equilibrato" dogni sua regione alla Cina necessitano capitali
incommensurabilmente maggiori.
Non è un caso, quindi, se schiere di speculatori, più o meno a comando, hanno approfittato dellincipiente crisi del sud-est asiatico per sferrare un attacco fenomenale alle finanze di Honk Kong, mentre risparmiavano Taiwan (unica borsa asiatica a chiudere in attivo il 97), la cui autonomia dalla Cina è difesa proprio per impedire a questa di rafforzarsi troppo. Mentre lattacco era in corso, prezzolati "scienzati" delleconomia spiegavano che una delle cause della crisi del sud-est asiatico era proprio la Cina, perchè paga la sua manodopera meno delle "tigri" e fa a queste una concorrenza letale. A smentirli la Cina evitava di farsi trascinare nelle svalutazioni competitive della moneta, che avrebbero gettato altra benzina sul fuoco della crisi dei paesi limitrofi, e si dichiarava disponibile a un fondo di soccorso finanziario asiatico, in unione con il Giappone. Entrambi tentativi, appunto, di proporsi a protettore dellarea, in opposizione allavidità dellimperialismo occidentale.
Qualcuno degli stessi prezzolati ha persino invocato che la Banca centrale cinese
intervenisse a difesa del dollaro HK, nella speranza di dissanguarne le cospicue riserve
valutarie (130 miliardi di dollari Usa). Speranza rimasta, fin qui, delusa.
Di sicuro lattacco alla Cina non è terminato, e nuovi assalti su tutti i piani si
ripeteranno. Altrettanto sicuramente crescono le condizioni e le possibilità di una sua
candidatura alla guida di uno schieramento anti-imperialista che raccolga le spinte in tal
senso provenienti da tutta larea. Non si potrebbe, in questo caso, parlare di un
ruolo imperialista in proprio, essendo la Cina un paese che deve tuttora difendersi
dallaggressione imperialista, checchè ne dicano i nostrani sotto-riformisti alla
Pds, Rifondazione o il manifesto, tutti variamente, schierati contro l
"illiberalità" e l "a-democratismo" cinese, come da copione
scritto in quel di Washington.
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Saldare la lotta del proletariato asiatico e di quello occidentale
Le convulsioni sui mercati del sud-est asiatico e gli effetti mondiali a esse legati dimostrano come la crisi del capitalismo stia giungendo a uno svolto cruciale. La droga finanziaria con la quale il capitalismo ha cercato, e cerca, di rieccitare il suo organismo comincia a mostrare la sua intrinseca debolezza: il denaro non cresce su sé stesso, ma sulla rapina del lavoro salariato; la speculazione finanziaria è quindi vincolata a questo "limite". Essa cerca di piegarlo al massimo di sfruttamento, ma non può aggirarlo né surrogarlo. Il gioco in borsa sulle spalle del lavoro salariato ha sempre strangolato, al momento giusto, i giocatori individuali più piccoli -anche a masse intere-. Oggi tale strangolamento giunge ad attuarsi a livello di interi stati e continenti (magari quelli che più lavorano di gomito...) per le leggi della concentrazione e dellaccentramento inerenti al sistema capitalistico stesso dalle fasce in qua. Il livello di contraddizioni che in ciò sta maturando avanza verso un massimo di esplosività: non è in questione un problema di questa o quella borsa o della Borsa, ma il problema del sistema. Le "turbolenze" politico-militari che "accompagnano" quelle finanziarie sono, in realtà, una sola cosa con esse, e sin qui siamo solo agli inizi. Il bello verrà poi, e tanto più esplodente quanto più rimandato nei tempi.
Al momento, limperialismo occidentale esce ulteriormente rafforzato. Quello americano più di quello europeo, che, anzi, rischia più dellimperialismo yankee (lEuropa detiene il 42% del debito estero dei paesi est-asiatici, gli Usa solo l11%). Le "soluzioni" trovate allimmediato rimandano soltanto lesplosione delle contraddizioni, e aggiungono altro materiale infiammabile su tutti i piani. Su quello economico-finanziario, su quello dello scontro politico-militare tra stati, e, soprattutto, su quello politico e sociale.
Su questultimo piano si rafforza lentrata in scena del proletariato
asiatico. Lo sviluppo capitalistico del continente ne ha esteso le forze ed ha
avvicinato le sue condizioni oggettive a quelle del proletariato occidentale. Ora
lattacco che gli portano i governi locali e linsieme dellimperialismo lo
costringe ad affrontare i problemi di una propria difesa sul piano sindacale e politico,
spingendolo a porsi il problema di una propria riorganizzazione di classe. La
classe operaia del sud-est asiatico non parte da zero: lo dimostrano le lotte recenti in
Corea del sud e lo dimostra una storia di lotta rivoluzionaria che sera già
incardinata dalla Corea, dallIndonesia, dalla Cina, alla terza internazionale. Ma
lintensità delle sue lotte, e lindirizzo politico che prenderanno, dipendono,
in larga misura, dallatteggiamento del proletariato occidentale nei loro riguardi.
Se quello asiatico troverà in occidente una solidarietà di classe reale il suo slancio
di lotta ne sarà potenziato, la direzione potrà essere condotta contro linsieme
del sistema capital-imperialista.
In mancanza gli slanci di lotta sarebbero frustrati, e potrebbero indirizzarsi verso
soluzioni falsamente anti-imperialiste, fino, in estrema ipotesi, a intrupparsi nel carro
di uno dei contendenti imperialisti.
Il corso degli avvenimenti consegna al proletariato del sud-est asiatico ancora degli obiettivi di lotta contro loppressione imperialista. Il livello a cui questi obiettivi si presentano è certo diverso da quello delle lotte anti-imperialiste degli anni 60, soprattutto perchè diverse sono le sue stesse condizioni: da masse di contadini a proletariato industriale che ha già cominciato a dare delle lotte per sé e a darsi degli embrioni di organizzazione di classe. Quelle lotte non riuscirono a vincere contro limperialismo, non per loro demerito, ma perchè non furono incanalate in una generale sollevazione proletaria internazionale contro il capitalismo, da cui proprio il proletariato occidentale si sottraeva, rimanendo solidamente attestato su posizioni di miglioramento delle sue condizioni ben dentro il sistema capitalistico. Oggi esse possono dare un potente contributo alla lotta generale contro il capitalismo, alla condizione che si riesca, però, a saldare la sollevazione anti-imperialista del sud-est asiatico alla lotta aperta, da parte del proletariato occidentale, contro il capitalismo.
Sotto tutti i riguardi il ritardo reale è del proletariato occidentale che non vede il proprio interesse a sostenere quello asiatico. Nessuno in occidente esprime la più pallida opposizione alle politiche imperialiste che qui si originano, lasciando completamente solo il proletariato asiatico e aumentando la distanza tra quello occidentale e lui. Non si lotta contro le politiche dellimperialismo occidentale, ma si assiste silenziosi allaggressione al proletariato asiatico, nella segreta (e infondata!) speranza che se ne possa beneficiare in occidente. Non è solo il bonzume sindacale e sinistrorso a coltivarla, sono, purtroppo anche vasti settori di classe, se non la sua totalità.
E questo il terreno principale su cui i comunisti e le forze militanti che il
proletariato esprime devono obbligatoriamente impegnarsi per dare un aiuto
concreto al proletariato asiatico e per mettere a frutto anche per il proletariato
occidentale le lotte che quello sarà in grado di dare.
Ancora la consegna principale per un vero internazionalismo è quella di Lenin: lotta
al proprio imperialismo!