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Situazione politica italiana

SU QUALI BASI VA FATTA LA BATTAGLIA ANTI-LEGHISTA TRA GLI OPERAI?

Indice

Ha sorpreso anche noi.
Benché da tempo, voce fuori dal coro della sinistra, richiamiamo costantemente l’attenzione sul pericolo e sulle dimensioni di massa del leghismo, la partecipazione al referendum della Lega Nord di maggio è andata oltre ogni nostra previsione: cinque milioni di elettori (in un’area con una popolazione di 26 milioni di abitanti e di 15 milioni di aventi diritto al voto). Gli stessi mezzi di (dis)informazione questa volta non hanno potuto barare (l’Unità ad es. ha parlato di partecipazione "ampia"). Cosa sta a indicare questo dato "numerico"? Varie cose. Tutte dolorose per il proletariato, purtroppo. Dolorose... ma salutari, se lette e affrontate come si deve.

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Un terremoto politico

Tenuto conto del black-out acceso dai mezzi d’informazione sul referendum leghista, l’altissima affluenza alle urne sarebbe inspiegabile se la Lega non avesse un apparato militante di partito vivo e consistente, se esso non svolgesse un’azione capillare e quotidiana, e non avesse un profondo radicamento tra le masse "popolari". Senza queste basi, non ci sarebbe stato quello che il presidente della Lega racconta al quotidiano la Padania (28.5.’97): "Il voto di domenica ha travalicato ogni schieramento politico: hanno aderito persone sia di destra che di sinistra." In una misura, aggiungiamo noi, non congetturata da nessuno a sinistra o nel sindacato.

Questo "difetto previsionale" si spiega in un solo modo: il livello di conoscenza di quello che sta accadendo in un troncone corposo del proletariato è quasi a zero. Il che indica fino a qual punto d’impermeabilità tra i campi in cui è presente la classe operaia siamo arrivati. Quando negli anni cinquanta, una parte del proletariato stava con la DC, il PCI lo sapeva perfettamente, conosceva perfettamente questa massa e poteva "dialogare" con essa: oggi non c’è nulla di tutto questo, ed è un bruttissimo indice generale.

Qualche lettore si chiederà: ma cosa c’entra l’alto numero di elettori al referendum leghista con quello che sta accadendo in seno al proletariato? C’entra, eccome! A chi si fosse preso la briga di investigare chi fossero questi elettori, la risposta sarebbe venuta subito e chiara: si trattava, nella gran parte, di "popolo minuto", e di proletari in particolare (anche immigrati!). Sospinti, questi ultimi, non da "egoismo da ricchi" o da "odio razzista per i terùn", come invece blaterano i "colti e beneducati" esponenti della "sinistra".

I "rozzi e ignoranti" proletari leghisti sono spesso giovani operai, che lavorano nelle piccole e medie fabbriche di cui si è riempito il nord, ma anche nelle poche grandi che sono rimaste. Hanno nella gran parte dei casi la tessera della Cgil in tasca, quando non sono essi stessi delegati (e tra i più combattivi). Hanno abbracciato e stanno abbracciando la bandiera della Lega perché vogliono fare i conti coll’apparato tentacolare dello stato tricolore, sentito ormai estraneo alla vita dei lavoratori e responsabile del peggioramento di essa anche nell’area più "ricca" del paese. Sfidiamo chiunque a negare tale verità. Da parte nostra, siamo anzi compiaciuti che questa consapevolezza cominci a farsi strada tra le fila del proletariato.

Ma, ci si dirà, questa spinta cerca di realizzarsi attraverso una politica, quella della Lega, anti-proletaria e reazionaria. Certo, e su questo verremo fra un attimo. Intanto, però, smettiamola di bendarci gli occhi sul terremoto politico che sta avvenendo nella classe operaia del nord e facciamo bene attenzione a distinguere ciò che gli operai leghisti vogliono (che non è buttare a mare i "terroni" e gli immigrati) dal modo in cui (per tutta una fase e non certo da qui all’eternità!) essi intendono ottenerlo.

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Non si può lottare contro il leghismo se, contemporaneamente, non si sbaracca il riformismo e...

Alla vigilia del referendum, in una lettera a l’Unità, Maroni ha affermato che la Lega è una costola del movimento operaio. Detta così, la cosa è certamente falsa: la Lega è una costola di forze borghesi liberiste. L’affermazione racchiude tuttavia una verità di cui far tesoro.

Mentre il programma della Lega Nord è, nelle linee essenziali, rimasto inalterato dagli esordi a oggi, la sua base sociale è negli ultimi anni notevolmente cambiata: da un lato, si è ridotto il numero dei piccoli e medi imprenditori (sciamati provvisoriamente verso il Polo e l’Ulivo); dall’altro è vertiginosamente aumentato quello degli artigiani e soprattuto degli operai. E quand’è che c’è stato questo duplice travaso? Quando, nel contesto del disfacimento della situazione economico-sociale-politica dell’Italia, si sono avuti due "giri di boa".

Da un lato la Lega ha cominciato a puntare sulla secessione direttamente, e non più indirettamente (attraverso drastiche riforme federaliste) come aveva fatto fino al 1994. Dall’altro lato, il movimento proletario di lotta contro Amato e, poi, contro Berlusconi ha trovato come approdo politico l’Ulivo, il governo Dini, il governo Prodi, cioè è stato imbracato e paralizzato nell’alleanza con le forze sociali, politiche ed istituzionali alla base dell’attacco che subiva (e che, a piccole dosi, continua a subire).

Una porzione sempre maggiore della classe operaia del nord, però, anziché continuare ad accettare in silenzio la melassa ulivista, ha cominciato a rimettersi in moto. E non poteva che farlo, vista l’esperienza precedente, senza avere alcuna fiducia nelle istituzioni tricolori, nel suo sistema dei partiti, nei mezzi elettoral-parlamentari e nella fallimentare sinistra istituzionale. Se quest’attivizzazione è confluita e sta confluendo nella Lega la ragione sta proprio nella politica che il PCI e i suoi eredi hanno seguito dal ‘26 (quando, al congresso di Lione, nasce il "comunismo italiano") fino ad oggi.

Allora, sulle ceneri della sconfitta internazionale subita nei primi anni Venti, il proletariato fu piegato ad abbracciare la bandiera delle vie nazionali al socialismo, a difendere cioè le sue ragioni nell’ambito della rinascita "progressiva" del capitalismo e della democrazia italiani, con tanti saluti al programma rivoluzionario di sbaraccamento del sistema mondiale di dominazione borghese. Per tutto un periodo, quello dello sviluppo post-bellico, la politica togliattiana sembrò funzionare. Ma il sistema capitalistico, al contrario di quanto sognano i riformisti di tutte le risme, non può svilupparsi illimitatamente. A metà degli anni settanta, arriva l’inevitabile inceppattura del meccanismo. E, con esso, della politica riformista.

Da questo momento in poi (è la storia degli ultimi vent’anni) l’agire come classe-nazionale (e cioè, nella crisi, accettare di difendere gli interessi proletari compatibilmente al recupero di competitività della propria impresa e dell’Azienda-Italia) ha costretto il proletariato a cedere, pezzo dopo pezzo, le conquiste realizzate nei decenni precedenti; lo ha obbligato a lasciar sbriciolare la sua stessa organizzazione riformista; lo sta portando (è la storia di questi giorni) nelle braccia del leghismo.

Oggi, infatti, in conseguenza dell’approfondirsi della crisi del presente ordinamento sociale e delle debolezze storiche della borghesia nostrana, ci stiamo avvicinando al momento critico in cui l’unità italiana non converrà più alla rete capitalistica del nord Italia. Per continuare ad avere una chance nel "capitalismo globalizzato", la struttura borghese "padana" deve rompere lo stato nazionale, agganciarsi alla locomotiva tedesca e riprendere su queste nuove basi lo sfruttamento del sottosviluppo del meridione (ed è proprio da queste necessità oggettive che attinge la sua forza il progetto di Bossi).

Il proletariato "padano" sente questo dato, e poiché non vuole (non può) accettare la resa cui lo ha condotto il "riformismo" classico e, d’altra parte, non è ancora giunto (mancandone le condizioni) alla sua autonomia di classe (neanche in una sua avanguardia), ecco che vede nella secessione e nella salvezza della nazione padana l’unica via per smettere di tirare la cinghia: l’educazione ricevuta dallo stalinismo a concepirsi all’interno del sistema capitalistico, gli insegna che oggi fare una cosa del genere vuol dire agganciarsi alla "patria padana".

Ieri la bandiera delle vie nazionali al socialismo servì a spezzare l’unità internazionale e internazionalista del proletariato raccolto intorno alla Terza Internazionale; oggi essa sta conducendo alla distruzione di quella stessa unità della "classe-nazione" su cui aveva basato le sue fortune. Non è Bossi a dividere le fila proletarie, egli si limita a raccogliere i doni fattigli da Palmiro, e a mostrare che se oggi il "riformismo" ha un senso nel nord dell’Italia, allora esso lo ha nella politica reazionaria della Lega.

Quanto sopra serve a comprendere un apparente paradosso (che non per la prima volta si presenta sulla scena storica): la Lega svolge il proprio programma esclusivamente ed interamente borghese assumendo non solo una buona fetta di base sociale ma anche i corrispondenti costumi propri del "riformismo" classico, per giunta sempre meno in concorrenza con esso, ma in sostituzione di esso, riempiendo il vuoto lasciato da esso. Le sedi e le feste del movimento ci presentano, così, un’occasione di partecipazione e mobilitazione unitaria di "popolo", cioè un’occasione di sentire e vivere collettivo, proprio mentre le sedi "riformiste" si svuotano e le loro feste mostrano un volto disaggregato di "plurimi soggetti" indipendenti tra loro (v. riquadro nella pag. accanto).

Se "chesta è ’a zita", è allora possibile battere il radicamento della Lega tra gli operai senza contemporaneamente buttare a mare il perno della politica riformista e senza contemporaneamente staccare la base proletaria di essa dalla sua sottomissione alle leggi del mercato?

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...non si rilancia la lotta per sbaraccare lo stato nazionale borghese.

Per la Lega, l’acquisizione di una base operaia è stato un "colpaccio" di vitale importanza, perché essa non può realizzare il suo programma senza la conquista (almeno in una certa misura) di un sostegno attivo del proletariato. La cosa, però, non è stata ancora raggiunta completamente, perché alla Lega resta da creare un proprio sindacato forte. E’ il difficoltoso passo che Bossi ha iniziato a impulsare in questi mesi, insieme con l’attacco all’ultima bretella dello stato nazionale italiano: la Chiesa di Roma (v. riquadro a p.5).

E’ solo di fronte a questi ultimi passi che la "sinistra" e il sindacato, dopo aver flirtato per anni con la Lega, hanno iniziato a chiamare i lavoratori alla lotta contro di essa e la sua presa sugli operai. Questa battaglia va fatta. Ma per quale motivo? Perché il leghismo secessiona l’Italia? oppure perché secessiona il proletariato d’Italia (con ricadute a catena sull’intero proletariato internazionale)?

Le due cose non coincidono affatto, al contrario di quello che affermano i vertici di CGIL-CISL-UIL che chiamano alla lotta contro il leghismo dietro le bandiere della difesa dell’unità nazionale e della richiesta di un "federalismo solidale". Certo, la Lega vuole rompere sia lo stato nazionale che il contratto nazionale. Certo, la sua politica conduce a una duplice contrapposizione: da un lato quella tra le forze borghesi "padane" e le forze borghesi meridionali ed "unitariste", dall’altro quella tra i proletari del Nord e i proletari del Sud (e di entrambi contro i lavoratori immigrati). La classe operaia, però, può combattere il leghismo quale fattore di divisione e contrapposizione al suo interno solo se contemporaneamente combatte contro lo stato nazionale e le forze che lo sostengono.

Se una parte degli operai tentasse di farlo, al contrario, attraverso la difesa della bandiera tricolore: 1) si troverebbe intruppata dietro un fronte capitalistico "unitarista" (*) che la secessionerebbe in altro modo (con la "melfizzazione"); 2) consoliderebbe l’intruppamento dei proletari leghisti dietro la bandiera della Padania; 3) alimenterebbe la mobilitazione degli uni contro gli altri a unico vantaggio dei rispettivi schieramenti borghesi.

Proprio perché i proletari leghisti vogliono (giustamente!) farla finita con lo stato borghese nazionale, contrapporsi alla via (reazionaria!) attraverso cui intendono farlo sulla base della difesa dell’unità nazionale porta inevitabilmente a mettersi contro di essi in quanto proletari. C’è chi, come il direttore de l’Unità, arriva a teorizzarne la necessità per dare il bersaglio "giusto" a una possibile rivolta plebea del Sud. Nell’editoriale del 17.8 egli scrive: "Ma isolare la Lega -conosciamo l’obiezione- non significa isolare la sua gente? Sì, e non sarebbe un errore per due ragioni. Una parte dell’elettorato leghista vive già separatamente la propria esperienza politica e culturale, un’altra parte deve capire qual è il prezzo che si paga a stare con Bossi. Ma il patto anti Lega parla al Nord e anche al Sud (...) Non fidatevi dell’apparente quiete del Mezzogiorno. E’ irreale e provvisoria". E quindi: vogliamo rischiare che i proletari del Sud si levino contro il loro vero nemico, lo stato tricolore e il capitalismo? Vogliamo rischiare che possano riconoscere dei fratelli di classe nei lavoratori del Nord, e...? Non scherziamo col fuoco!, grugnisce il suino, qui s’ha d’avvelenare il sangue dei proletari.

La "sinistra" ciancia tanto di solidarietà in opposizione all’egoismo che avrebbe colpito l’operaio leghista. Ma ecco cos’è la sua solidarietà: solidarietà al grande capitale (nel mentre condanna l’operaio leghista che solidarizza con il suo padrone padano!), solidarietà allo stato "nazionale" e ai suoi apparati repressivi, solidarietà alla guerra tra proletari che i relitti della borghesia italiana insieme con i falchi del capitalismo internazionale stanno cercando di incoraggiare in una nuova e più devastante Jugoslavia.

Ma pur se è in buona fede, qualunque proletario che intende combattere il leghismo difendendo il tricolore, non può che ritrovarsi in questo abisso. Il radicamento della Lega tra gli operai si può battere se se ne raccolgono le ragioni della rivolta anti-mangiatoia nell’ambito di una politica e di un’organizzazione che rifiutino e si contrappongano da cima a fondo allo stato borghese centralista. Il che non può essere fatto in nome di un federalismo "non appiattito sulla difesa dell’unità nazionale", come sostengono alcuni settori della CGIL e di Rifondazione: e cosa c’è di diverso nel legare il proletariato al carro del capitalismo della propria città o della propria regione anziché a quello della nazione-Italia o della nazione-Padania? Non si alimentano così linee di contrapposizione ancor più localistiche?

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Non c’è raccolto in estate, senza la semina in autunno.

Per lavorare, da comunisti, nella dura situazione che ci sta venendo incontro, è necessario prendere atto che lo scontro non è tra "unitaristi", secessionisti e federalisti: lo scontro è tra un sistema borghese che è spinto dalle sue contraddizioni a cercare una via d’uscita antiproletaria -in tutti e tre i casi- e l’antagonismo proletario. Il problema non è allora quale risposta dare a Bossi, ma quale risposta dare, sin da oggi, a questa situazione generale in modo che i vari settori del proletariato si liberino dai contenitori borghesi in cui si stanno ritrovando incapsulati e ricostruiscano la loro unità anti-capitalistica (un processo naturalmente tutt’altro che limitato entro i confini italiani) contro tutte le fazioni borghesi in lizza (italiche ed estere). E’ una musica da suonar già domattina? Non siamo così faciloni.

Ci rendiamo conto che in Italia (anticipando per certi aspetti il futuro dello scontro politico nelle metropoli), per come si sono messe le cose, è probabile che si vada allo sfacelo, e proprio come condizione per far ripartire domani una vera azione proletaria di massa. Ma affinché questa s’incammini nella sua via di classe, è necessario che sin da oggi ci sia un’iniziativa militante che lavori in vista di questo appuntamento alla distanza. Ritessendo un ordito programmatico e organizzativo di classe. Portando avanti, sin dalle manifestazioni di settembre, la mobilitazione antileghista tra gli operai sulla base di un programma anti-capitalista, contro il centralismo statale borghese e per l’unità reale (nazionale e internazionle) del proletariato.

E’ tempo di raccogliere la dura lezione che ci viene dalla vicina Jugoslavia. Là, davanti ai pericoli che si profilavano, non c’è stata nessuna forza della sinistra che ha lavorato, sulla base di una programma di classe, per tessere un ordito unitario militante e fargli attraversare l’inferno che si stava preparando. Se la cosa fosse avvenuta, davanti alle delusioni che i proletari hanno conosciuto dopo le "guerre di indipendenza" e il sangue che ne è scorso, le possibilità di una ripresa proletaria sarebbero state enormemente facilitate. Questo non è successo. Questo facciamo che non accada anche in Italia.

(*) Sorvoliamo qui sul fatto che l'iniziativa dei vertici sindacali e le forze di sinistra non fa neanche parte di una seria azione borghese anti-secessione, per la quale -come abbiamo spiegato altre volte- non esistono le condizioni: altrimenti si guarderebbero bene, qui in Italia, a condire il piatto dell'unità nazionale con la salsa del federalismo!

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