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La manifestazione europea di Amsterdam: luci e ombre.

La manifestazione di Amsterdam del 14 giugno, conclusione della "Marcia per l’Europa sociale", ha dato uno spaccato dello stato del proletariato europeo - interessante soprattutto nel quadro delle recenti lotte- con tutte le sue contraddizioni, le luci e le ombre.

La presenza, innanzi tutto. Numerosa e combattiva quella dei settori provenienti dalla Francia (un buon terzo sui 20-25 mila partecipanti), dalla Germania e dal Belgio. Gli operai della Renault di Vilvoorde sono stati salutati con grande calore da tutti i manifestanti, con incitamenti a "tener duro". Era ben visibile il filo che ricollegava questa scesa in piazza, la sensazione comune di un ritrovato protagonismo, con le lotte proletarie dell’ultimo periodo, soprattutto dell’area francofona. Consistente e vivace infatti la partecipazione di delegazioni dei lavoratori protagonisti oltralpe delle battaglie del Pubblico Impiego degli ultimi due anni e dei disoccupati. Positivo anche il dato dei giovani e, più in generale, la composizione intergenerazionale del corteo. Colpiva, poi, la presenza dei dockers di Liverpool (e delle loro compagne) per l’attitudine militante e l’azione instancabile tesa a raccogliere fondi a sostegno della loro lotta. Dagli striscioni e dagli slogans di questi spezzoni è emerso il senso comune maggioritario tra i manifestanti: "contro l’Europa di Maastricht, per una risposta comune dei proletari di tutti i paesi europei". Tous ensamble, come recitava lo slogan lanciato con continuità dai francesi (ed effettivamente il corteo non era composto di spezzoni distinti per nazione).

La manifestazione ha rimandato l’immagine di un proletariato europeo che, in alcuni settori, i più colpiti dall’attacco capitalistico e necessariamente ancora limitati, tenta prime sortite di reazione afferrando per la coda il problema della propria riunificazione oltre i confini nazionali. Ma lo fa, appunto, "spontaneamente" a partire dalla propria situazione particolare o settoriale, con tutte le sue illusioni, ancora lontano dall’afferrare la portata generale dello scontro in atto. Lo sguardo dei manifestanti non a caso era chiaramente limitato alla vecchia Europa (nessun riferimento alle lotte degli operai coreani o alle questioni aperte in Albania, ex-Jugoslavia, Medio Oriente, ecc.; nessun ponte lanciato verso i proletari immigrati); la loro azione tuttora legata all’illusione di poter condizionare le scelte dei governanti (che al summit del giorno successivo ribadivano puntualmente la necessità di smantellare lo stato sociale); l’indirizzo politico ancorato alla linea del minimo sforzo, quindi incapace di affrontare gli ostacoli che si frappongono ad un effettivo superamento del settorialismo, del localismo, della tendenza alla frantumazione della nostra classe, ciò che richiederebbe un programma svincolato dalle compatibilità del sistema capitalistico. A ciò si è aggiunta anche la scarsa presenza organizzata degli operai che nonostante fossero in piazza non sono stati in grado di caratterizzarla a pieno, tanto meno di prenderne politicamente la testa. Amsterdam dunque ha confermato la presenza di notevoli limiti che coesistono con i segnali positivi di ripresa di combattività e di prime proiezioni internazionali. Ha confermato la necessità di fare un deciso passo oltre l’indirizzo e la pratica "spontaneiste".

In tutt’altra direzione invece, e qui arrivano le note più dolenti,i messaggi delle forze politiche. Se lo spirito immediatista improntava la massa dei partecipanti, a rafforzarlo ha contribuito non poco l’impronta di kermesse data alla manifestazione dagli organizzatori (palco da concerto più che da comizio, che in effetti non c’è stato, salvo generici slogans sul significato dell’appuntamento intercalati alle performance musicali dal volume assordante, vera e propria barriera alla comunicazione; servizio d’ordine praticamente inesistente; in generale, un’organizzazione caotica e tutt’altro che mirata ad una vera lotta). Vi ha contribuito, poi, la presenza tutta e solo deleteria dell’arcipelago dei centri sociali, degli alternativi, dei fumati di mezz’Europa confluiti ad Amsterdam (dice niente il luogo?) non solo ad annacquare ulteriormente, dall’alto della loro pratica "antagonistica", i tratti di combattività presenti nella manifestazione, ma a deprimere e disperdere le spinte verso i primi, incerti tentativi di unificazione del fronte di classe. Esemplare la rappresentanza italiana di quest’area che, non contenta di portare a un appuntamento internazionale il vangelo del localismo e di una "nuova"(!) "carta dei diritti dell’uomo e del cittadino" (così il volantino di padovani e leoncavallini), non ha avuto remore a offrirsi per un viaggio gratis ("esproprio proletario"?!) allo scambio di favori tra Bertinotti e Napolitano.

Speculare a ciò -e altrettanto disfattista verso la classe- l’impronta nazionalista che partiti come il KKE greco, con la bandiera nazionale alla testa del proprio spezzone, o il Ps olandese, con il suo secco slogan "Euro Nee", han cercato di dare alla manifestazione. O anche, le piattaforme federalistiche e autonomistiche portate in piazza da alcune formazioni (Spagna, Belgio). Rifondazione ha offerto una presenza di "bandiera", che ha portato al resto dei manifestanti unicamente il messaggio narcotizzante di affidarsi al "vento di sinistra" -quello, per intenderci, che porta su governi anti-operai sul tipo di Prodi, Blair, Jospin- piuttosto che sulle forze di classe (e, in definitiva, contro di esse). Nulla di sorprendente per un partito che da un lato veicola tra i proletari il messaggio che i problemi possono essere risolti a casa nostra dove abbiamo un governo "amico"... più affidabile del proletariato internazionale, e dall’altro propone di difendere gli operai italiani difendendo le merci della "nostra" nazione. Davvero un bel campione di internazionalismo!

Dare una battaglia contro queste posizioni è fondamentale per lavorare alla ripresa del proletariato e mettere al frutto le potenti contraddizioni che la crisi capitalistica dissoda. La nostra presenza ad Amsterdam ha avuto esattamente questo senso: rendere visibile ai proletari scesi in piazza la necessità di utilizzare queste energie per sé, per un proprio programma, per una propria autonoma organizzazione. Lo abbiamo fatto -nei limiti delle nostre forze- con un’azione organizzata e centralizzata: diffusione capillare di un volantino in quattro lingue e delle altre pubblicazioni esposte in un banchetto, verifica sul campo dello stato d’animo della piazza, presa di contatto diretta con le realtà più significative (dai dockers a un delegato di Vilvoorde), verifica delle forze politiche e sindacali in campo e delle loro posizioni. Il tutto caratterizzandoci come forza comunista, anche nel non secondario aspetto del simbolo della falce e martello (oramai in via di abbandono generalizzato da parte dei sedicenti comunisti). Ed è un fatto significativo e positivo la buona accettazione di ciò da parte della piazza. I cui limiti, in primo luogo dati dall’oggettività della situazione, men che mai devono rappresentare un alibi per ritrarsi dai compiti propri delle avanguardie più coscienti.

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