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Internazionalismo

QUALCHE PASSO VERSO L’UNITÀ
DEL FRONTE DI CLASSE IN EUROPA

Indice

Come è abitudine di questo giornale fin dal primo numero, torniamo a tastare il polso del movimento "spontaneo" della classe in Europa per vedere qual è il suo stato, e riprecisare in relazione a ciò i compiti della avanguardia comunista. Lo facciamo con l’occhio rivolto in specie ad alcuni interessanti segnali che mostrano la crescente attenzione dei settori proletari in lotta alla dimensione internazionale della loro battaglia -che oggi più che mai è assolutamente decisiva-.

E’ infatti tesi marxista (dal 1848), una tesi da sempre indigesta a tanti "comunisti", che l’organizzazione del proletariato per sé, o è internazionale e internazionalista, o non è. E ciò per la ragione elementarissima che la classe proletaria è oggettivamente una classe internazionale, come il sistema sociale capitalistico di cui è frutto, e che il suo compito storico di classe rivoluzionaria può essere adempiuto, di conseguenza, solo su scala mondiale. (Tesi, questa, che si riferisce, in modo inscindibile, tanto al "movimento spontaneo" quanto al Partito, poiché il corso della ripresa di classe marcia, se marcia, su tutte e due queste gambe.)

Ebbene, è da qualche tempo che, con la Francia a fare il canto del gallo, è in atto in Europa una ripresa di lotte del proletariato. Se non siamo ancora a uno scoppio generalizzato, neppure si tratta però di singoli episodi completamente incomunicanti tra loro. Perché sempre più le "singole" lotte rimandano, nell’esperienza degli operai più consapevoli, a quella "globalizzazione" che impone una risposta all’altezza dell’attacco capitalistico che è generale e internazionale, pena non solo l’arretramento del proletariato ma la sua frantumazione. E perchè, come presa d’atto di ciò, nelle più significative tra queste lotte, si va affermando, pur con tutti i limiti, la ricerca di collegamenti internazionali del proletariato, e si stanno compiendo i primi passi concreti in questa direzione.

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Vilvoorde chiama i lavoratori europei.

Sotto questo profilo la prima citazione d’obbligo è per gli operai della Renault belga di Vilvoorde, poiché da essi, dopo l’occupazione immediata della fabbrica e azioni di lotta ben oltre i cancelli dell’azienda, è partito un appello esplicito per una lotta comune contro la chiusura del loro stabilimento rivolto ai lavoratori del gruppo in tutta Europa. Evidentemente non è bastato, in un mercato che si restringe, il doping rottamazione ad evitare una chiusura secondo l’azienda "ineluttabile" (serva da insegnamento anche qui!). "Ineluttabile" perchè la legge della concorrenza e della competitività non ammette eccezioni alla compressione illimitata delle condizioni operaie e, per questo, utilizza e induce la contrapposizione tra lavoratori in una spirale al ribasso senza fine. E’ quanto hanno improvvisamente (è proprio il caso di dirlo) compreso i tremila lavoratori di Vilvoorde, che pure avevano accettato la giornata lavorativa di nove ore e non scioperavano dal ’79: "Ci dicevano che eravamo i più bravi, i più flessibili. Ci utilizzavano contro i lavoratori francesi, e ora pretendono di scaricarci!". Conclusione del ragionamento: a questi lavoratori, agli operai di tutto il gruppo, in Francia, Spagna, Portogallo, fino alla Slovenia, dobbiamo rivolgerci per batterci nell’unico modo efficace, uniti e determinati, contro quella "ineluttabilità" che oggi colpisce noi e domani voi, e in maniera tanto più violenta a misura che abbiamo accettato sacrifici e arretramenti nell’illusione di limitare i danni. Gli operai di Vilvoorde hanno tradotto in pratica, con i mezzi di lotta e i barlumi di coscienza messi a disposizione da una ammirevole mobilitazione di massa, la comprensione del fatto che con la "globalizzazione" non c’è possibilità di tenuta per gli interessi operai senza una battaglia a scala internazionale.

Occupata la fabbrica, si costituisce un coordinamento con sindacalisti e delegati belgi, francesi, spagnoli, sloveni che lavora da subito e con successo nelle rispettive fabbriche a evitare che alcuna di esse si accolli le produzioni di Vilvoorde. Il coordinamento organizza l’ "eurosciopero" del 7 marzo che vede fermate compatte, anche se di differente durata e con differenti gradi di convinzione, in tutti e settanta gli stabilimenti Renault francesi: quarantamila gli operai in sciopero con punte di adesione dell’80% nelle fabbriche più grandi (che dunque hanno visto il coinvolgimento anche di tecnici e impiegati). Un operaio francese coglie bene la questione essenziale quando afferma: "Per anni l’impresa ci ha messo in concorrenza con i nostri colleghi belgi, obbligando sia noi che loro ad accettare tutte le imposizioni. Ora chiudono Vilvoorde e ci chiedono di fare la parte dello sciacallo, ma questa volta hanno fatto male i conti". Non si tratta cioè, almeno per queste punte avanzate, di un attestato di solidarietà a degli altri operai in una vicenda che è altra cosa dai problemi che ci toccano qui. E’ invece il medesimo attacco, cui deve essere data una risposta unitaria. Lo sciopero riesce bene anche negli stabilimenti spagnoli, compreso quello di Valladolid che dovrebbe assorbire la produzione di Vilvoorde. In Belgio l’azione di lotta coincide con la mobilitazione dell’intero settore auto.

In Italia c'è una scarsa attenzione alla dimensione internazionale dello scontro di classe. lo si rileva in tutte le occasioni.

Un segnale in contro-tendenza sembra venire dagli operai dell'Alfa di Arese, sia per la partecipazione di una loro delegazione alla manifestazione di Bruxelles per la Renault che per l'impegno alla preparazione della marcia europea per il lavoro.

Proseguire e consolidare la tendenza a stringere legami internazionali di lotta è anche l'unico modo per affrontare come si deve l'attacco che si annuncia ad Arese, e che punta non solo a chiudere uno stabilimento "eccedente" ma anche a smantellare uno dei punti storicamente più significativi di resistenza e organizzazione operaia.

Per renderla efficace, la lotta contro i licenziamenti deve basarsi su uno schieramento internazionale. Ogni soluzione aziendalistica o nazionalistica è, nella realtà del "mercato globale", senza alcuno sbocco per gli operai.

L'internazionalismo non è un lisso, un di più. E' una necessità anche solo per solo per la difesa degli interessi immediati del proletariato.

 Il coordinamento organizza una nuova manifestazione unitaria dei lavoratori Renault a Parigi, alla quale partecipano anche i lavoratori sloveni (che non avevano potuto scioperare causa il divieto per legge sussistente nell’"indipendente" Slovenia), ed è la prima volta che avviene in anni recenti la "commistione" tra proletari dell’Ovest e dell’Est, nonché delegazioni da altre fabbriche belghe, in particolari dalle "concorrenti" Volvo, Opel, Volkswagen. Quindi, il 16 marzo, è la volta di Bruxelles che -a pochi mesi dalla grandiosa manifestazione contro la pedofilia- vede scendere in piazza centomila operai e lavoratori provenienti da Germania, Spagna, Francia, Olanda, Slovenia, Romania,ecc. (assente il sindacato italiano; "spicca" la presenza di Rifondazione con tre -!- militanti, oltre il presidente del partito). Dice un delegato: "Se i lavoratori europei non saranno uniti, quello che è accaduto all’impianto Renault potrà ripetersi ovunque". Ma sentiamo quale era il clima da un’intervista a Cossutta su Liberazione: "E’ stata soprattutto una grande manifestazione operaia. Non è un modo di dire: ho visto durissimi striscioni e durissime parole d’ordine, che da noi sono oramai desuete (visto il nostro "senso di responsabilità", sembra suggerire -n.). C’erano in effigie padroni impiccati e ministri complici trattati allo stesso modo. E stiamo parlando di un paese dove i comunisti hanno un’influenza ridotta (mentre da noi, una forza "antagonista" del 10% come Rifondazione ha contribuito a dissipare un potenziale di lotta come quello dei metalmeccanici -n.), e dove la tradizione di moderazione sindacale è nota (la "nostra" invece è di tutt’altra pasta, tant’è che il sindacato italiano ha pensato opportuno non mescolarsi con simile presenza! -n.). Ho visto in campo una forza proletaria consapevole di sè, abbracci e cori in comune, insomma solidarietà autentica... che è anche consapevolezza della necessità di una lotta in comune". Ben detto, accidenti! Evidentemente, la estensione internazionale del fronte di lotta, benché appena avviata, trasmette forza e radicalità ai lavoratori in campo, a misura che li fa sentire meno soli. Peccato soltanto che Rifondazione ci metta del suo proprio per affossare tale prospettiva unitaria e militante che, per realizzarsi in pieno, esigerebbe la rottura con il quadro capitalistico e la lotta a fondo contro ogni governo borghese, di destra come di centro-sinistra. Ciò che per Cossutta e soci sono inconcepibili bestemmie.

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Lotta e primi bilanci

Nè la spinta degli operai di Vilvoorde si è fermata qui. E’ infatti continuata dopo le manifestazioni con sistematicità l’azione volta alla costruzione di un fronte di lotta più ampio. Verso gli operai Renault - compresi quelli dell’indotto- con "sortite" negli stabilimenti francesi. Verso il proletariato oltre i confini nazionali e di gruppo, ad esempio con la partecipazione -significativa, ancorchè lasciata cadere dal sindacato di qui- alla manifestazione per l’occupazione di Roma del 22 marzo. Verso lo stesso proletariato belga. Non è un caso se nei medesimi giorni i lavoratori delle acciaierie di Clabeq, in Vallonia, chiuse da alcuni mesi, sono passati a metodi più duri rilanciando una prospettiva più generale di lotta: dalla occupazione di piazze e autostrade all’organizzazione della "marcia contro i bugiardi", che ha visto manifestare più di ventimila lavoratori di tutti i settori contro padroni, politici e governo, con critiche alle direzioni sindacali ("imborghesite, non si interessano come devono del mondo del lavoro", dice uno dei delegati più attivi che rileva al contempo il bisogno diffuso di un partito che difenda davvero gli interessi dei lavoratori) e un appello per uno sciopero generale. Il tutto sempre con la presenza di lavoratori della Renault. E non è un caso, altresì, che queste realtà di lotta siano state in prima fila nella mobilitazione contro la pedofilia (gli operai di Clabeq hanno autonomamente organizzato nei mesi passati una marcia contro le connivenze di magistrati e politici che ha portato in piazza trentamila persone).

Noi non ci nascondiamo che l’adesione degli altri stabilimenti del gruppo Renault all’iniziativa di Vilvoorde è stata calante e che, forse anche in conseguenza di ciò, un paio di sentenze della magistratura contrarie alla chiusura e la promessa di un rinvio di qualche mese della stessa fatta dalla direzione aziendale sono valse a portare la maggioranza dei lavoratori -contro il parere di una consistente minoranza propensa a proseguire la lotta ad oltranza- a rientrare in fabbrica. Ciò dice quanto è ancora fragile questa spinta alla ricomposizione sovra-nazionale del movimento di classe e, per converso, quanto è ancora disgraziatamente solido il sedimento delle politiche di compatibilità e di concorrenza inter-proletaria introiettate dalla classe. E quanto vitale sia e sarà, per il pieno sviluppo della tensione internazionalista che sta rifacendo capolino nel proletariato, il bilancio che i lavoratori dovranno iniziare a trarre di una politica sindacal-riformista produttiva di passivi sempre più pesanti per i lavoratori, proprio in quanto legata a doppio filo alle leggi intangibili del mercato, tutt’al più da attenuare attraverso misure di protezione sociale la cui realizzazione è delegata ai governi e la cui condizione è la messa in mora proprio della lotta. E tuttavia, al di là degli esiti immediati di essa, resta importantissima la lezione che ci viene trasmessa dalla lotta degli operai belgi della Renault: ripresa del protagonismo, lotta oltre i confini nazionali e, per questo, collegamento e coordinamento tra lavoratori. Primi, seri passi di un percorso sul quale la classe operaia potrà e dovrà essere accompagnata, e guidata anche, dall’avanguardia comunista.

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I portuali di Liverpool chiamano il mondo

Non meno indicativa, su questa medesima traiettoria, è la lotta dei portuali di Liverpool, che dal settembre del ’95 si battono contro 500 licenziamenti per rappresaglia. Anch’essi hanno testardamente cercato e conquistato, senza nessun appoggio da parte del sindacato, degli ampi collegamenti internazionali e dei momenti di azione in comune con portuali e lavoratori di molti altri paesi. Dalla loro iniziativa è nato un Comitato internazionale di solidarietà, che non è del genere di quei comitati che stanno soltanto sulla carta e ricevono solo, o quasi, adesioni cartacee da altri "comitati" composti spesso da loro stessi membri che sdoppiandosi, striplandosi, etc., si siglano più volte sotto etichette diverse di cui abbiamo più di qualche esemplare (senza valore) qui da noi; bensì un Comitato vero che, con l’attiva presenza delle mogli e delle compagne dei portuali, ha sviluppato una serie di iniziative in Gran Bretagna e in giro per il mondo. Ed è nata anche una giornata internazionale di azione (il 20 gennaio di quest’anno) che ha visto scioperi e manifestazioni di sostegno in 27 paesi e 105 porti (è da notare che non si era arrivati a questo livello di internazionalizzazione della lotta neppure in occasione della grande battaglia del minatori inglesi nell’84-’85). Certo, in molti casi si è trattato di scioperi meramente simbolici, e però si è scioperato in numerosi porti statunitensi (dove si sono intrecciate anche azioni di solidarietà con gli operai coreani), ci sono state iniziative di lotta dall’Australia al Giappone (dove hanno scioperato 40.000 portuali), dall’America Latina (in Messico hanno manifestato i lavoratori del sindacato dei trasporti Ruta 100) all’Europa. A bilancio di questa mobilitazione il Comitato dei dockers ha affermato con ragione: "Quella che è partita come una giornata di sostegno ai portuali di Liverpool si è trasformata in una serie di azioni (...) a livello internazionale a condanna globale di privatizzazioni, deregulation, precarizzazione dei porti e dei posti di lavoro. Questo prova che l’internazionalismo dei lavoratori è vivo". O, per lo meno, che esso può e deve rivivere, se lo si persegue con determinazione e convinzione. Ed è proprio questo il grande merito dei portuali di Liverpool, che non hanno arretrato minimamente davanti alla necessità di riconoscere la valenza politica della propria lotta. Si capisce bene perché un Tony Blair, il campione laburista di un thatcherismo appena temperato, non solo ne sia rimasto alla larga, ma abbia tenuto a far sapere in giro che non avrebbe in alcun modo "coperto", e tanto meno sponsorizzato, le loro rivendicazioni.

L’ultimo atto, per ora, di questa lotta è stato l’organizzazione della "marcia per la giustizia sociale" contro il governo Major effettuata dai portuali in occasione della partenza della marcia europea per l’occupazione, con un appello rivolto ai disoccupati, ai lavoratori, agli iscritti ai sindacati, ai pensionati e agli immigrati per garantire "Lavoro! Case! Un futuro!" a tutti i proletari. Quindi, ancora una volta, una petizione di ricomposizione unitaria del fronte di classe proiettata verso la scena internazionale. Qualunque cosa ne sia di questi splendidi proletari che i capoccia delle Trade Unions hanno abbandonati a sé stessi (ed alla mercé dei padroni), e qualunque cosa accada di questa resistenza davvero strenua, essi consegnano una lezione che va in perfetto controsenso rispetto a quella che certuni credono di trarvi. La lezione non è: "Resistenza, resistenza, resistenza", basata sulla volontà e su sé stessi, al più chiedendo agli "altri" il tifo per sé e per i "propri" obiettivi autonomamente scelti; bensì: "Internazionalismo, internazionalismo, internazionalismo", ossia: incessante allargamento del fronte di lotta unitario alla scala reale a cui si pongono i problemi del proletariato oggi, fondato sulla comunanza di interessi e di obiettivi dei proletari di tutti i paesi, come arma fondamentale sia della difensiva che della controffensiva di classe.

Un altro interessante esempio recente di realizzazione di un coordinamento proletario internazionale d’azione è dato da quel che sta avvenendo all’interno dell’impresa UPS, una multinazionale nord-americana del trasporto celere con ben 339.000 dipendenti (di cui 302.000 negli USA). Un efficace volantino redatto dalla RSU italiana di questa impresa sottolinea come essa stia procedendo ad una ristrutturazione tecnica e organizzativa che, guarda la novità, taglia posti e salari ovunque, per cui è parso necessario ai suoi dipendenti addivenire ad un "passo storico" (per essi): un coordinamento mondiale dei delegati sindacali (che si è tenuto a Londra l’11 e 12 febbraio scorsi) e l’indizione di una "giornata mondiale di lotta" dei lavoratori UPS che si terrà il 22 maggio p.v. e vedrà, oltre a 14 manifestazioni negli USA, una manifestazione europea a Bruxelles. E’ un altro organismo di lotta che si va ad aggiungere alle decine e decine di coordinamenti internazionali aziendali già esistenti che raramente sono quel che dovrebbero essere, ma la cui sempre più frequente costituzione è il riflesso di un bisogno oggettivo di organizzazione di classe non più soltanto nazionale che preme e chiede di essere sodisfatto.

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Germania: esplode la rabbia dei minatori.

Elementi non meno interessanti ci vengono anche da una serie di lotte categoriali che hanno solcato diversi paesi europei. Delle lezioni da imparare dai camionisti francesi abbiamo parlato già nel n. 41 del Che fare. Ma ricca di spunti è stata anche la recente esplosione di rabbia dei minatori tedeschi della Ruhr e della Saar. Diretta contro il taglio delle sovvenzioni statali alle miniere e di sessantamila degli attuali ottantamila posti di lavoro, questa mobilitazione è sorta dalla base, spontaneamente, rompendo con gli sbarramenti sindacali e con le consuete forme controllate di protesta. Sciopero a oltranza, occupazione dei pozzi, cortei e blocchi stradali duri, picchettaggio delle sedi dei partiti di governo e infine scesa in massa a Bonn, dove al rifiuto di Kohl di procedere alla trattativa a queste condizioni (ovvero con la forza operaia in campo, decisa a non ritirarsi) i minatori -non tantissimi, attenzione, ma determinati a tutto- sono penetrati nel quartiere governativo, proibito alle manifestazioni, scontrandosi con la polizia.

A nulla è servito, per evitare questo scoppio, il prodigarsi della Spd, costretta dalla reazione operaia a interrompere il negoziato col governo su fisco e pensioni. A nulla son serviti gli appelli alla calma e al ritiro da Bonn lanciati dal segretario del sindacato minatori che anzi è stato fischiato e sommerso da un coro unanime: "Noi restiamo qui". "Kohl se ne deve andare", "Basta col governo delle ingiustizie", "Giù le mani dal futuro dei nostri figli" recitavano gli striscioni delle manifestazioni, rendendo visibile uno stato d’animo di esasperazione e insieme un’istanza di soluzione non meramente categoriale nè solo sindacale, ma potenzialmente politica che sicuramente non è propria solo di questo settore. Tant’è che la mobilitazione ha incontrato la solidarietà di altri lavoratori, dei giovani, dei disoccupati, della "popolazione", a dimostrazione che una lotta dura e consapevole della propria forza può coagulare intorno a sè le simpatie e, di più, può coinvolgere altri settori del proletariato toccati dai medesimi problemi, dal medesimo attacco (laddove una "lotta" molla non riesce ad aggregare neppure i diretti interessati, e disgrega quelli che "aggrega").

Lo rileva con preoccupazione la conservatrice Suddeutsche Zeitung: "Stiamo entrando in una nuova fase anche nel senso della lotta operaia. Sia il governo che la Spd hanno sottovalutato il clima di ostilità dei minatori. I contrasti politici del paese sono destinati a seguire questa tendenza. Altre categorie hanno gli stessi problemi dei minatori". Le fa eco da qui La Stampa, commentando il compromesso transitoriamente raggiunto (ribasso graduale delle sovvenzioni in misura minore del previsto, ammortizzatori sociali al posto dei licenziamenti): "(Si è sfiorato) lo scontro fisico nel cuore politico di Bonn. E’ questo il prezzo più alto di una vertenza che segna una svolta: una soglia a rischio è stata superata". Lo conferma la contemporanea mobilitazione degli edili che per quattro giorni hanno manifestato -con la solidarietà dei minatori- contro la disoccupazione e il dumping salariale nella futura capitale fino a scontrarsi, unitamente a settori di disoccupati, con la polizia di fronte al Reichstag. (E se, come la stampa di qui ha prontamente evidenziato, si sono dati anche episodi di "caccia all’immigrato", ciò richiama alla necessità di un di più di lotta, e non certo alla presa di distanza da essa, e al lavoro delle avanguardie per indirizzare la classe contro ogni forma di sciovinismo e di divisione, che non possono che ricadere negativamente sugli stessi proletari che se ne fanno investire). Ancora nella Ruhr sono scesi in piazza i siderurgici contro i diecimila licenziamenti che la fusione dei gruppi Thyssen e Krupp comporterebbe. Di fronte alla sede della Deutsche Bank, che tira le fila dell’operazione, sono in trentamila a manifestare contro "lo strapotere delle banche". Non a caso slogan e simboli riecheggiano quanto già visto a Vilvoorde e a Bruxelles.

I più recenti sviluppi della lotta operaia in Germania evidenziano come -accanto alla spinta verso un maggior collegamento internazionale tra i proletari, ed intrecciata con questa- sta prendendo corpo una tendenza verso la politicizzazione delle lotte che esprime, in altro modo, la stessa necessità (per ora sentita ancora in modo intermittente e incoerente) di lavorare ad unificare il fronte di classe di contro ad un avversario che, anche quando si tratta di singole categorie di industriali, fa comunque e sempre asse comune con i governi e con gli apparati statali. Le distanze tra le diverse categorie -quando è in piedi una lotta "categoriale" degna di questo nome- paiono raccorciarsi perché essa porta in primo piano, con la forza del conflitto, problemi che molti altri lavoratori di altre categorie non possono non avvertire comuni, se non identici, ai propri. E a nostro avviso non è slegato da tutto ciò un primissimo ricorso a forme di lotta un pò più decise di quelle fin qui adottate. Dietro di esso vi è certamente una forte rabbia accumulata che sta covando ed è pronta ad esplodere, magari su piani non immediatamente "economici", come nella grande mobilitazione anti-pedofili in Belgio. Ma vi è pure, crediamo, la percezione di poter essere legittimati ad agire più "fuori dalle regole" proprio dall’idem sentire, per dirla alla Bossi, di altri lavoratori che non ne possono più di come vanno le cose.

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Da Ovest a Est

Altro aspetto ancora: questa ripresa di lotta in Europa sta svolgendosi senza che dai confini orientali si faccia più sentire con la medesima intensità quell’attesa di massa verso le democrazie occidentali assurte a modello da imitare che dopo l’89 fungeva, obiettivamente, da grosso elemento di complicazione immediata.

Già nei mesi scorsi la protesta operaia aveva fatto nuovamente capolino in Croazia e in Serbia, mentre nella stessa Bosnia erano ripresi i contatti tra sindacati bosniaci e serbi (pur sotto il "patrocinio" della centrale sindacale europea complice dell’imperialismo). Ma un po’ in tutta l’Europa Orientale maturano le ragioni di una risposta proletaria alle pesantissime condizioni sociali, anche laddove i governi liberisti più spinti hanno provvisoriamente lasciato il posto ai post-"comunisti", parimenti ligi alle regole del mercato. Ne è un esempio la Polonia, dove gli operai dei cantieri di Danzica sono scesi in campo contro la chiusura definitiva decretata dalle banche e dal governo, portando la lotta -anche qui come in Germania- oltre l’azienda, contro i simboli del potere politico ed economico da un lato e verso il resto del proletariato dall’altro. Mentre gli operai dei cantieri circondavano e muravano la sede del partito socialdemocratico, lavoratori di altri settori scendevano in piazza a Danzica per solidarietà e al contempo contro il governo. Azioni di appoggio sono venute anche da parte dei minatori della Slesia ("Oggi i cantieri, domani può toccare a noi minatori") che saliti a Varsavia vi hanno occupato tre ministeri. E’ il sintomo di una disponibilità a muoversi unitariamente che abbisogna "solo" di un programma e di una direzione di classe per poter effettivamente marciare.

Segnali arrivano anche dalla Russia. Il 27 marzo ha avuto luogo una protesta di massa, con scioperi e manifestazioni, organizzata congiuntamente dalle tre centrali sindacali. La mobilitazione si è caratterizzata in senso "rivendicativo", con la richiesta al governo di pagare i salari arretrati. In questo, al di là dei numeri, diversa dagli appuntamenti di quanto resta del vecchio arsenale stalinista e post-stalinista, magari in alcune frange anche combattivi, ma con gli occhi rivolti all’indietro e perciò assolutamente inconcludenti. E’ il segnale di uno stato d’animo, se non ancora di una effettiva disponibilità alla lotta, di più vaste masse proletarie che ripartendo dal livello sindacale, senza illusione alcuna per i "bei tempi andati", dovranno in prospettiva rimettersi in moto e incocciare con le questioni politiche sul tappeto. Di fronte a ciò il proletariato a Ovest, oggettivamente chiamato in causa da questa mobilitazione come da quella della classe operaia polacca, non potrà restare a lungo indifferente.

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Classe e azione di partito

E’ indubbio che l’insieme di questo quadro delinea una controtendenza rispetto alle difficoltà del proletariato europeo, verso una ripresa dei collegamenti e delle lotte più proiettata al superamento degli steccati di categoria e nazionali. Ne è espressione, tra l’altro, il modo in cui va connotandosi la stessa Marcia Europea contro la disoccupazione (che vede una presenza reale di lavoratori, in un clima un pò diverso da quello delle "messe in moto" controllate dei vari partiti riformisti volte a ricontrattare nazionalisticamente i termini di Maastricht e per questo attenti a non fondere le rispettive mobilitazioni, tipo meeting di Parigi un anno fa). E’, questo, un insegnamento di estrema importanza per il proletariato in Italia (ben altri risultati avrebbe conseguito la lotta dei metalmeccanici se avesse saputo raccordarsi alle contemporanee lotte in piedi negli altri paesi!); a ciò devono saper guardare le avanguardie che cercano una via d’uscita nell’attuale estrema confusione politica.

Certo, in queste lotte la classe operaia sconta limiti e illusioni che rendono tuttora inadeguati i tentativi volti all’unificazione delle sue forze, sul piano delle azioni come su quello dell’indirizzo politico. Pesa in negativo il rispetto delle compatibilità capitalistiche che, anche laddove si riscoprono forme dure di lotta, impedisce al protagonismo operaio di fare un passo oltre la pressione, pur forte, su sindacati e partiti riformisti, e di prendere nelle proprie mani la conduzione delle battaglie. Pesa la difficoltà a indirizzarsi contro l’insieme dell’attacco, affrontandolo per quello che è: non una scelta "scellerata", antisociale di certi governi e di certe aziende, ma la politica di una ben determinata classe, la borghesia, e derivante dalle leggi di funzionamento del suo sistema sociale. Si inizia a vedere -positivo- la concorrenza tra operai come questione cruciale, ma la si affronta pensando di strappare ai "tecnocrati" di Bruxelles "regole" anti-dumping sociale che proteggano il lavoro in Europa (obiettivo da un lato impossibile, dall’altro esposto al compattamento sciovinista, ovvero a un’ulteriore divisione, contro il resto del proletariato internazionale). Ciò non toglie affatto che questa riattivizzazione è da salutare e seguire con entusiasmo. I suoi limiti sono passaggi "normali" di una dislocazione in avanti -mai automatica- del proletariato. Che sta realizzando di trovarsi di fronte a problemi e ad un attacco comuni che esigono una risposta altrettanto comune, unitaria.

Certo, i ritardi sono ancora notevoli, nè la giusta direzione di marcia può dirsi imboccata una volta per tutte. Si dimostra fondamentale, in questo percorso, il ruolo dei comunisti nel chiamare il proletariato a seguire e sentire come proprie le lotte degli operai degli altri paesi, a raccordarsi ad esse per trarne quella forza con cui ribaltare a proprio favore l’internazionalizzazione dei mercati usata come ricatto dalla "nostra" borghesia per far ingoiare arretramenti su arretramenti. Per consolidare i passi avviati e indirizzarli verso l’unificazione del proletariato internazionale (e non solo europeo), è indispensabile che l’avanguardia di classe sappia mettere in campo una strategia e una politica complessiva anticapitalistica nella prospettiva del socialismo internazionale.

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