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NÉ FEDERALISMO NÉ STATALISMO

Per contrastare il rischio, sempre più concreto, di secessione, la totalità delle forze politiche, di destra o di sinistra, chiamano i lavoratori a difendere l’unità della nazione in pericolo. Queste stesse forze sono, in pari tempo, profondamente federaliste (o regionaliste) e si vanno sempre più leghizzando nei contenuti al nord e candidando al sud a promuovere un municipalismo meridionale, dai contenuti persino più dirompenti del leghismo. Che tale unitarismo borghese possa fermare la secessione è impossibile. Ma esso non è senza effetti. In particolare ne provoca uno: approfondire ancora di più la secessione tra lavoratori. Infatti, se la difesa del tricolore venisse effettivamente assunta da settori di lavoratori, aumenterebbe la contrapposizione nel proletariato, tra unitaristi, in maggioranza sicuramete al sud e nel pubblico impiego, e secessionisti, già molto forti -se non proprio maggioritari- tra i lavoratori del settore privato al nord. A quel punto la secessione sarebbe del tutto inevitabile.

La destra, geneticamente votata a rompere il fronte di classe in nome degli "interessi della nazione" e con programmi demagogici e interclassisti, è in prima fila nel fomentare tra i lavoratori lo sciovinismo, chiamandoli a combattere la secessione in nome dell’unità della patria. Ma, di fronte al rischio di secessione del Nord, anche la sinistra ulivista e rifondarola (mentre contende alla Lega la palma del "vero" federalismo) non sa far altro che riscoprire il valore della patria, riveduto e corretto "da sinistra", e chiamare i lavoratori a rinunciare a lottare per sé stessi per non mettere in difficoltà lo stato nazionale e il governo dell’Ulivo.

Tali sirene borghesi contro la secessione possono trovare ascolto tra i lavoratori. In particolare in quelle fasce prevalentemente -ma non esclusivamente- impiegatizie e con una presenza molto alta -ma affatto esclusiva- nella capitale, che hanno visto, fino a oggi, la propria condizione tutelata dalle più violente intemperie del mercato e della crisi, nelle pieghe dello stato e nelle amministrazioni del capitale in senso lato o, comunque, grazie a un rapporto particolare con il finanziamento pubblico. Questi lavoratori possono essere indotti a contrapporsi duramente al "fanatismo leghista" di altri lavoratori del Nord, avvertendolo come un pericolo per la tenuta di quel quadro generale e statuale che gli ha garantito, finora, una relativa ma reale tranquillità.

Lo statalismo, il categorialismo, la difesa dello stato unitario in quanto supposta garanzia della propria condizione, così come l’eventuale proiezione nazionalistica di siffatte aspettative, sono le più pericolose forme di particolarismo e di secessione all’interno del movimento dei lavoratori. Rappresentano la reazione di quei lavoratori, che di fronte alle prime serie avvisaglie di crisi anche per essi, si attardano con la testa rivolta all’indietro, si illudono di poter rieditare all’infinito le soluzioni del passato di mediazione con il governo e con lo stato, si aggressivizzano contro altri lavoratori che invocano la secessione del Nord, senza comprendere i perchè dell’adesione a quel programma reazionario ed evitando di disporsi conseguentemente per ricucire un dialogo e una comune linea di difesa di classe.

Quando nel settembre scorso la Lega Nord organizzò le manifestazioni di dichiarazione di indipendenza della Padania, Alleanza Nazionale e la allora Cisnal, in preparazione della contromanifestazione milanese a difesa dell’unità nazionale, organizzarono una capillare campagna negli uffici, nei ministeri e nelle banche di Roma, distribuendo coccarde tricolori e invitando i lavoratori a partecipare alla "giornata dell’orgoglio nazionale". Il discreto successo dell’iniziativa rende bene il senso di quale sintonia possa crearsi tra lo sciovinismo patriottardo (verso cui converge il "senso dello stato" di piccista memoria) e gli umori, in ultima istanza, a riserva corporativa di questi settori di lavoratori.

Non è un caso se nel pubblico impiego, nei servizi, nelle banche si va rafforzando la presenza -anche nelle lotte- della destra (sia di AN che del sindacato di destra, la UGL). Né è un caso la tendenza dei lavoratori a legittimare questa presenza e a chiedere la rappresentanza degli interessi della propria categoria da parte di tutte le forze politiche nessuna esclusa, PRC a braccetto con AN (è esattamente quanto accaduto all’assemblea del Coordinamento dei lavoratori FS del 3 marzo scorso a Roma: alla presidenza sedevano un deputato di AN e uno del PRC). Quel che di nuovo registriamo negli ultimi mesi è che l’attacco indotto anche in questi settori dalla crisi, con relativi piani di risanamento, ristrutturazione e privatizzazione, si fa più stringente. E come i ferrovieri, iniziano a mobilitarsi e a scendere in piazza anche i lavoratori dell’Enel, dell’Italgas, dei trasporti urbani, delle poste (il 17 marzo si è svolto lo sciopero nazionale dei lavoratori delle poste -il primo dal 1920-, con una manifestazione nazionale a Roma di 30.000 lavoratori). Ognuna di queste lotte pone, però, il problema se sia ancora possibile difendersi "come categoria".

Lo sciopero senza preavviso degli autoferrotranvieri romani, contro cui si è scatenata la canea reazionaria a favore del licenziamento dei rappresentanti dei lavoratori, dimostra che nessuna vertenza può essere ormai condotta e gestita nell’ottica chiusa di una singola categoria. Lo stesso fronte borghese l’ha immediatamente tradotta in scontro politico di portata generale, con il tentativo di contrapporre all’"egoismo" degli autoferrotranvieri i "diritti" di tutti gli altri lavoratori-utenti. E lo stesso ordine di questioni torna -aggravato dal terreno istituzionale e schedaiolo prescelto- a proposito delle iniziative referendarie contro la privatizzazione delle aziende municipalizzate romane (la Centrale del Latte e l’Acea). Qui il No alla privatizzazione del Prc e soci si trova "sorprendentemente" in linea con la campagna della "destra sociale" di AN a difesa dei "gioielli di Roma".

Ritenere di potersi difendere dall’attacco, che procede in nome delle "necessità" imposte dai mercati, con le schede e con le convergenze elettorali con la destra, e non invece con la lotta e con una complessiva linea di classe che sappia parlare a tutti i lavoratori e a tutti i proletari, è una illusione pericolosa che deve essere bruciata al più presto.

Le carte vincenti per le lotte dei lavoratori non sono la (supposta) apoliticità della lotta, il categorialismo, la delega a tutte le forze politiche disponibili, i rigurgiti di statalismo, l’accodamento al carrozzone nazionale (o ai vessilli di campanile), ovverro dietro le gonne del governo "amico". L’unica carta vincente è rilanciare, ben oltre la singola categoria, il legame di lotta tra lavoratori, con la classe operaia dell’industria, gli operai del nord, gli operai della Lega, i proletari e disoccupati del sud, i lavoratori immigrati, i lavoratori degli altri paesi.

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