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Situazione politica italiana

MELFI: GLOBALISMO E FEDERALISMO

Indice

Intervista a un operaio della Fiat di Melfi
La prima fabbrica "globale" mostra sempre più di essere un laboratorio per il più intenso sfruttamento della forza-lavoro. Le deroghe alle condizioni contrattuali accettate dal sindacato a Melfi in cambio dell’insediamento dello stabilimento FIAT hanno agevolato l’attacco padronale in tutte le fabbriche italiane per smantellare le residue rigidità operaie. La logica delle "specificità" territoriali fornisce il pretesto per aprire brecce destinate ad allargarsi oltre ogni limite: questa è la prospettiva che il federalismo prepara per i lavoratori. Occorre respingere con la lotta generale e unitaria la politica del localismo e delle divisioni aziendali e territoriali che il federalismo sta facendo avanzare.

In principio la SATA di Melfi suscitò grandi attese tra i giovani disoccupati della zona. La campagna pubblicitaria della FIAT sulle meraviglie della fabbrica integrata batteva la grancassa sul motivo della fabbrica "umanizzata", che avrebbe messo al centro la responsabilità e il potere decisionale di ciascuno nell’ambito del processo produttivo, le gerarchie interne sarebbero scomparse e sostituite dalla collaborazione orizzontale tra i dipendenti. Si doveva tenere a battesimo un lavoratore polivalente e grato di appartenere alla grande famiglia FIAT, tutto proteso alla qualità del prodotto e al "cliente" (cioè il mercato). Si salutava la fine del "dispotismo sul lavoro" di marxiana memoria e, dunque, la fine del conflitto industriale.

Sennonché la nascita di questa meraviglia, nel Mezzogiorno affamato di posti di lavoro, era concessa in cambio delle condizioni di lavoro più flessibili che si fossero mai viste in un’azienda di grandi dimensioni. Ma, dissero i sindacati confederali, ciò rimane un’eccezione, dovuta alle specifiche necessità dello sviluppo locale.

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Lavoro sempre più alienato, altro che umanizzato!

Le poche voci che si sono levate al di fuori degli intenti celebrativi dell’azienda (1) rivelano la realtà di questo decantato avamposto della modernità "post-industrale". Il famoso ruolo attivo del lavoratore è, almeno per i livelli operai, del tutto teorico. Le gerarchie sono tutt’altro che scomparse, il potere dei capi è rimasto determinante, come pure il pesante sistema di "premi" e di discriminazioni tipico del gruppo FIAT. La produzione non si ferma mai, con tre turni sulle 24 ore, compreso il sabato e il lavoro notturno obbligatorio anche per le donne. La turnazione è strutturata in modo da rendere la settimana lavorativa lunghissima, fino a 18 giorni consecutivi, sempre che "inderogabili" necessità aziendali non l’allunghino, e l’intensità del lavoro è "asiatica". E’ adottato, infatti, un sistema di tempi diverso dalle altre fabbriche FIAT, detto Tmc/2, che taglia del 20% il tempo in cui compiere le diverse operazioni e, se la linea si ferma per guasti tecnici, alla ripresa la cadenza si accelera, anche oltre i limiti concessi dall’accordo sindacale. Al centro delle dichiarazioni raccolte nell’inchiesta di Rieser e Di Siena c’è l’angoscia di questi tempi di lavoro che divorano le energie fisiche e psichiche degli operai.

Il salario è, per contratto, inferiore a quello del resto del gruppo; i turni pomeridiani e notturni sono retribuiti al nord con maggiorazioni rispettivamente del 45% e del 65%, a Melfi valgono il 20% e il 45%. L’inquadramento degli operai è più basso rispetto alla mansione svolta e, d’altra parte, sembra impossibile andare oltre il 3° livello, se non si entra nelle buone grazie di un capo. Un lavoratore di 2° livello, la maggioranza degli operai, trova in busta paga, compreso i turni, 3/400 mila lire mensili in meno rispetto ai lavoratori del nord.

La nocività è alta, gli incidenti sul lavoro frequenti, anche per il mancato rispetto delle norme di sicurezza. Ogni forma di socializzazione tra i lavoratori è impossibile e questo ostacola la lotta collettiva di difesa. Nelle classifiche europee la SATA è il secondo stabilimento per produttività (64,6 vetture all’anno per dipendente) e il primo per basso livello dei costi di produzione.

Non è difficile capire il motivo delle dimissioni volontarie di circa 700 giovani in 4 anni. Contrariamente alle teorizzazioni sul lavoro umanizzato, a Melfi si pronuncia la condanna al lavoro (sempre più) alienato e sfruttato, dettata dalla globalizzazione dei mercati. L’ideologia della fabbrica "integrata" risponde alla necessità del padronato occidentale di distruggere le vecchie condizioni da "compromesso sociale", tipiche dei tempi di capitalismo affluente, e di "riorganizzare" le "risorse umane", secondo un processo che sta avvenendo in ogni continente.

E’ esplicito il richiamo al "modello Toyota", fondato sul minimo impiego di manodopera e sull’eliminazione tendenziale degli "sprechi di tempo", perché le pause nella produzione sono un buco nella valorizzazione del capitale: i ritmi e le cadenze a cui sono (o erano) abituati gli operai occidentali fanno "perdere" una quota preziosa di profitto, rallentando il cronometro della produzione.

Morale della favola: la crisi dei profitti si tramuta in crisi dei lavoratori. Soluzione non nuova per qualunque padrone della terra; la novità, caso mai, sta nel metodo, in questa guerra della produzione che la borghesia mondiale organizza contro la classe lavoratrice per stroncarne la resistenza, l’ostinazione a difendere "privilegi d’altri tempi". Le radici del metodo sono nel mettere in competizione (per ora) economica tra loro, in modo diretto e frontale, aziende, micro-aree, regioni, Stati, gruppi di Stati, frantumando i lavoratori secondo le rispettive linee di divisione. Questa dinamica sta trasportando in Occidente orari, ritmi, normative e salari "asiatici" (obbligando, di rimando, i Paesi "emergenti" a spremere ancora di più i propri lavoratori, come ha mostrato lo scoppio della lotta sud-coreana).

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Laboratorio per il discliplinamento di tutto il proletariato

Perciò Melfi, in Italia, è innanzi tutto un laboratorio per sperimentare il ri-disciplinamento generale della forza-lavoro nelle coordinate della competizione "globale". Condizioni di maggiore flessibilità degli orari dopo l’accordo di Melfi hanno cominciato immediatamente a diffondersi, nel gruppo FIAT -a Mirafiori (terzo turno e lavoro notturno obbligatorio anche per le donne), a Termoli (da 15 a 18 turni settimanali ordinari), alla Teksid di Carmagnola ecc.- come in altre aziende, di ogni settore. Non c’è più stato tavolo di trattative in cui il padronato non abbia preteso dai lavoratori un nuovo passo indietro, facendo leva sul precedente delle condizioni "di favore" cedute alla FIAT. L’indifferenza, l’incomprensione della posta in gioco con cui il movimento operaio ha lasciato passare il caso Melfi è stato un boomerang, puntualmente tornato indietro verso il resto della classe, a scardinare posizioni acquisite, a logorare forze all’interno delle singole aziende e a disperdere l’intero fronte operaio in una giungla di condizioni materiali diversificate.

Il sindacato, quando ha tentato di puntare i piedi per impedire la generalizzazione dell’arretramento, ha continuando nella politica della difesa azienda per azienda, riportando inevitabili sconfitte. In alcune vertenze è arrivato addirittura a favorire la contrapposizione tra stabilimenti del nord e del sud (come all’Alenia e alla Piaggio) oppure tra lavoratori occupati e disoccupati, come nel caso -gravissimo- della FIAT di Termoli, in cui Cgil-Cisl-Uil, vistosi bocciare in fabbrica l’accordo che trasformava in orario ordinario lo straordinario del sabato, accreditarono la controffensiva padronale condotta in nome dei giovani disoccupati locali che, diceva l’azienda, non avrebbero potuto essere assunti per colpa degli operai egoisti e super-garantiti.

In quella occasione il presidente della Giunta della Calabria offrì ad Agnelli la "tranquilla" manodopera calabrese, in alternativa ai "pessimi soggetti" molisani; per domare i lavoratori "indisciplinati" è utile anche la contrapposizione per aree, prontamente cavalcata dalle classi dirigenti locali, proprio in mancanza di una lotta operaia unitaria di difesa reale delle proprie condizioni.

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"Specificità territoriali" in lotta ai danni dei lavoratori

Patti territoriali e contratti d’area si sono, in seguito affermati come ulteriori strumenti di svalorizzazione della forza-lavoro, a partire dalle realtà locali più deboli, artificialmente contrapposte ad altre aree regionali e sub-regionali.

La spirale al ribasso, alimentata dalla logica delle "specificità" ormai d’ogni tipo (aziendale, di categoria, d’area) ha fatto cadere molte altre trincee operaie. Sul piano categoriale, per esempio, è passata la diversificazione per provincia dei minimi salariali nel contratto dei braccianti; la de-regolamentazione dei regimi d’orario nell’agro-alimentare, con l’eliminazione del riposo settimanale nel periodo di produzione più intenso; nel tessile, invece, dominio per eccellenza del lavoro al nero, hanno preso piede i contratti di gradualità, che prevedono consistenti sconti salariali ("transitori"... da anni) in cambio della (modestissima) "emersione" del rapporto di lavoro: praticamente un premio al padrone evasore, che non può che sentirsi incoraggiato nelle sue pretese, come mostra il caso Frassinelle nel Nord-est (v. articolo e scheda). Tutto questo per favorire occupazione e ripresa degli investimenti!

E il padronato, forte dei risultati incassati, ha portato più oltre l’attacco chiedendo la flessibilità salariare e normativa nell’intero sud, sempre travestita dalla necessità di favorire l’occupazione. Inizialmente per i giovani ("è meglio di niente", ebbe a dire Prodi in un’intervista televisiva), ma non è difficile capire con quali prospettive future per i già occupati.

Su questa strada, in puntuale adesione alle "urgenze" non più mediabili del mercato, la Federmeccanica, spalleggiata da Bankitalia, è arrivata alla richiesta esplicita di abolire la contrattazione nazionale di categoria, strumento "antiquato" nell’era Melfi. E il governo Prodi, sensibile alle esigenze di competitività del sistema Italia, si appresta col "Pacchetto Treu" a registrare sul piano legislativo e a spingere oltre lo sfondamento delle residue rigidità del mercato del lavoro.

Il rifiuto sindacale (ma non della CISL) delle gabbie salariali al sud, la difesa della contrattazione di categoria è solo apparente, visto che si continua nella pratica delle deroghe "caso per caso", ormai troppo numerose per poterle anche solamente contare.

E questa deriva particolaristica, che mette i lavoratori gli uni contro gli altri nell’illusione di difendere obiettivi che solo la lotta generale potrebbe raggiungere, è una leva per distruggere quel grado di compattezza e di forza organizzativa che la classe operaia ha mantenuto, nonostante le disastrose direzioni riformiste politiche e sindacali, e, di conseguenza, la sua stessa possibilità di mettere in campo la forza sufficiente a difendersi dai colpi futuri.

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Difesa unitaria di tutta la classe operaia

Melfi è stato, dunque, il punto di partenza di un attacco di grande portata contro l’intero movimento dei lavoratori, teso a disarticolare il tessuto connettivo operaio secondo linee di fuga aziendalistiche, categoriali, territoriali. A questa stessa prospettiva più o meno coscientemente hanno lavorato e lavorano non soltanto la Lega Nord e i partiti dei ceti medi anti-operai, ma anche tutte le forze politiche della sinistra istituzionale e alcune della sedicente sinistra "di classe", che accettano il federalismo e il regionalismo come soluzioni positive per i lavoratori.

Nel movimento operaio, è inutile nasconderlo, c’è un ritardo politico, una tendenza a non comprendere o a sottovalutare la posta in gioco. In assenza di una direzione politica conseguente, siamo a un passo dalla scomparsa della classe operaia come soggetto unitario. Eppure il bilancio in passivo di quest’ultima fase dovrebbe aver chiarito a sufficienza che la difesa, per i lavoratori, non può essere affidata a lotte aziendali isolate le une dalle altre e che anche le sezioni più combattive e meglio organizzate della classe non possono sperare di conservare a lungo i propri vantaggi, se tutto intorno crollano le difese generali.

E’ urgente che la parte più cosciente del proletariato comprenda la necessità di tornare in campo unitariamente, intorno a un programma che rappresenti gli interessi generali dei lavoratori, diversi e opposti a quelli della classe avversa. La salvezza passa per la ripresa di una cosciente lotta contro il capitalismo, depurata da ogni inclinazione aziendalista e localista, respingendo tutte le posizioni sindacali e politiche che favoriscono la disgregazione, battendosi per ricostruire l’uguaglianza materiale di tutti i lavoratori.

A Melfi la lotta di classe, che si credeva di aver abolito, ha fatto la sua comparsa, nonostante i licenziamenti per rappresaglia dei primi militanti operai di fabbrica. Quando la Confindustria ha tentato di posticipare di un anno il contratto nazionale per le fabbriche metalmeccaniche del Sud, c’è stata un’adesione allo sciopero di categoria dell’80%. Quel diverso trattamento che i lavoratori stessi giustificavano inizialmente come strumento per favorire l’occupazione, si é cominciato a vederlo per quel che è: sfruttamento più intenso e insopportabile. Il mito del "prato verde" si è infranto; si è sperimentato che una risalita dall’abisso in cui sono stati gettati i lavoratori è possibile solo inserendosi nel movimento più generale della classe, per difendersi insieme dai progetti borghesi di balcanizzarla per meglio poter sfruttare tutti.

Tocca ai lavoratori del resto dell’Italia, a partire da quelli del nord, decifrare e raccogliere questo messaggio, che è un invito alla lotta unitaria. Il peggioramento delle condizioni degli operai di un’azienda, di un settore, di un’area, non aiuta gli altri a stare meglio ma fornisce ai padroni un’ulteriore arma di ricatto per imporre anche a loro più avanzati livelli di sfruttamento.

Il proletariato può vincere solo se riesce a mettere interamente la propria forza in campo, respingendo ogni forma di federalismo, settorialismo, individualismo.

Nota

1. Cfr. L’inchiesta di P. Di Siena e V. Rieser sulle condizioni operaie nello stabilimento di Melfi, pubblicata su Finesecolo n.3-4 dicembre 1996.

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INTERVISTA A UN OPERAIO DELLA FIAT DI MELFI

Quanti anni hai? 30.

Da quando lavori alla Fiat? Dal Marzo ’95, prima ho lavorato in piccole fabbriche di calzature per periodi brevi.

Quanti operai ci sono a Melfi? In fabbrica circa 6.500. Nell’indotto altri 5.000.

Che pensano gli operai di Melfi dei compagni di lavoro del nord? Non se ne parla molto. Un po’ di casino c’è stato quando la Confindustria tentò di posticipare di un anno il contratto nazionale per i metalmeccanici del Sud. Lo sciopero fu massiccio. Quella volta mi è piaciuto, ha aderito l’80% della fabbrica. Ma in quella occasione si diceva che gli operai del nord sono privilegiati. Già la nostra situazione qui è diversa per tante cose, e non c’è bisogno neanche di andare fino al Nord. E’ diversa dalla Sofi di Foggia, è diversa da Pomigliano. Il ruolo dei capi a Melfi è determinante, i lavoratori hanno paura e molti cercano di arruffianarseli. Inoltre, qui se in un certo orario di tempo riesci a fare più lavoro da quel momento in poi lo standard di riferimento diventa quello, nelle fabbriche al Nord sono più attenti anche i delegati a non far succedere questo. Per i turni pomeridiani al Nord prendi il 45% in più e per la notte il 65% in più, a Melfi il 20% per il pomeriggio e il 45% per la notte. Sono turni obbligatori perché quando ti assumono ti fanno firmare una carta in cui li devi accettare. Poi, a Melfi tutti quelli che hanno cercato di costituire un Cobas sono stati licenziati.

Quanti iscritti ha il sindacacto a Melfi? Non più del 40%. Nelle elezioni che di 2 anni fa, 800 voti sono andati alla CGIL, 2.000 al FISMIC, 1.500 alla CISL e 1.000 alla UIL. Oggi, secondo me, la CGIL crescerebbe un poco, ma la maggioranza degli operai non andrebbe a votare. Tutti parlano molto male di tutti i sindacati. Forse l’unico che rispetta un po’ i lavoratori è la CGIL. Sul contratto c’è stata una grande incazzatura contro i sindacati perché ci hanno spiegato solo quando si doveva votare che l’aumento di 200.000 riguardava il 5° livello, in sostanza i capi, mentre per il 2° , dov’è la maggioranza di noi, l’aumento era di 120.000. Alla televisione hanno detto che la grande maggioranza degli operai aveva votato sì, ma è una bugia. In molte Ute quasi tutti gli operai si sono alzati e hanno lasciato la sala per protesta perchè nessun volantino prima dell’accordo aveva spiegato il vero aumento salariale.

Quanto percepisci di salario? Io sono al 2° livello. Dopo sei mesi che sei assunto passi al 2°, dopo 36 mesi al 3°, e poi non si sa. Da contratto prendo 1.300.000 + i turni obbligatori: 1.500/1.600.000. Circa 3 o 400 mila lire in meno rispetto a quello che prende un operaio del Nord. Prima qui pensavano che era una cosa buona il diverso trattamento tra gli operai del Nord e del Sud, perché così arrivava lavoro. Ma adesso molti pensano che è solo sfruttamento. Quando ti assumono ti fanno fare una scuola che si chiama ISVUR. E’ una scuola finanziata dalla regione. Lì ti dicono che è tutto rosa e fiori. Ma dopo poco tutti i sogni svaniscono. E poi qui oltre il contratto non c’è nessun integrativo, non puoi sperare di guadagnare di più. Se chiedi a chi lavora qui, dopo un anno, se gli piacerebbe andarsene, se ne vorrebbero andare via tutti. Solo che non si può. Che fai ?

Qual’è l’età media dei lavoratori? 28-30 anni.

Quali sono le forze politiche più seguite dagli operai? Il Pds e i partiti di centro. La destra era in crescita quando s’è costruito lo stabilimento. Si trovava persino qualche svastica in fabbrica. Anche Rifondazione ha ora dei simpatizzanti.

Cosa pensano i lavoratori della Lega Nord? Che è un fattore di secessione. Non c’è nessuna simpatia. Anzi. Però da un po’ di tempo si sente dire spesso che dovremmo fare anche noi una lega del Sud. Per esempio spesso senti dire che non dovremmo consumare i prodotti fabbricati al Nord. Non è una tendenza generale. Ma in fabbrica si sente anche questo.

Qual’è la percentuale delle donne in fabbrica? Un po’ meno del 30%, forse.

Si discute in fabbrica dell’Albania? No. Mai. Quando senti parlare di politica senti solo dire: che ce ne fotte a noi dell’ Europa? Perche’ dobbiamo dare tutti questi soldi per andare in Europa ?

Ci sono forze politiche che diffondono volantini davanti alla fabbrica? All’inizio un po’ Rifondazione e i sindacati. Adesso sempre meno. Anche quando è venuto Bertinotti eravamo una decina a poterlo ascoltare perché non lo hanno fatto neanche avvicinare ai cancelli. Doveva stare sulla strada e gli operai, lasciati dai pullman entro i cancelli, non uscivano per non farsi vedere che andavano al comizio.

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