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LA CAMPAGNA OCCIDENTALE PER LA "DEMOCRAZIA"
IN SERBIA, ENNESIMA MANOVRA DI GUERRA

Indice

Non c’è stato giorno, tra il dicembre dell’anno scorso e gli inizi di febbraio, che Belgrado non occupasse la prima pagina dei nostri giornali e telegiornali con un bombardamento massiccio ed unicorde di "informazioni" e di "liberi" commenti. E si capisce! Milosevic è alle corde, lui, il "veterocomunista" (ce ne vuole di fantasia!), il nemico della democrazia negata al suo stesso popolo, dopo esser stato, lui da solo, la causa dei conflitti nella ex-Jugoslavia con tutte le loro atrocità; contro di lui sono schierati i nostri, i veri democratici, con alla testa quel sant’uomo di Draskovic, gli universitari (quindi: la Ragione), il popolo (quello, almeno, che può permettersi di passare il tempo a manifestare tutti i giorni ed a tutte le ore).

Finalmente, insomma, Belgrado parla la "nostra" lingua (più precisamente quella yankee, come si vede anche dai cartelli agitati ad uso delle TV nostrane) e sventola le "nostre" bandiere (quella USA, perlomeno, ma c’è posto anche per tutte le altre... fuorché quella jugoslava). Giusto, quindi, che Dini, per conto di un governo sorretto da Rifondazione, si rechi a Belgrado a complimentarsi con l’opposizione e ad impartire "consigli" a Milosevic. Tutto quadra, tanto per Liguori che per l’Annunziata, per Fassino come per la Lega: il fronte unico nazionale anti-Milosevic è cosa fatta. Anti-Milosevic? Costui è solo il paravento dietro il quale si nasconde, in effetti, un’offensiva frontale contro le masse sfruttate serbe e di tutta la fu Jugoslavia.

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Un malcontento reale. Ma quali le cause e le soluzioni?

Non diciamo, ovviamente, che la grancassa "democratica" di casa nostra abbia creato lo scontento e le manifestazioni. Essa si è "limitata" a fare ad essa da megafono, suggeritore e... autrice dei testi (finché la va), ma le ragioni per protestare contro Milosevic davvero non mancano. Tutto sta a vedere quali ragioni e di chi. Noi diciamo: un po’ tutti ne hanno, ma su piani diversi e contrapposti. Prima delle sfilate di Draskovic, ad esempio, erano scesi ripetutamente e massicciamente in lotta i proletari, ma non è un caso che nessun riflettore abbia illuminato la loro lotta. Forse che era difficile trovare dei buoni alberghi nei pressi delle zone operaie? O forse che, come ha dichiarato in pubblico la giornalista di Liberazione, la classe operaia in Serbia non esiste più mentre esistono sì gli studenti, e sono bellissimi?

Andiamo con ordine, ripetendo per l’essenziale cose già abbondantemente da noi scritte. Milosevic è quegli che, appoggiandosi sul neonazionalismo serbo (covato dalle contraddizioni del sistema economico-sociale jugoslavo venute al dunque nel dopo-Tito), ha promosso nel paese e fuori una mobilitazione per la riunificazione statale di tutti i serbi in competizione diretta con i nazionalismi altrui -quello sloveno escluso, vista l’inesistenza in Slovenia di una minoranza serba di una qualche entità- e, in particolare, con quelli, assai più sciovinistici, di Tudjman ed Izetbegovic. Per la stessa natura di classe (micro-nazionalborghese) del suo potere, tutto poteva fare fuorché innalzare il vessillo dell’unità e della fraternità jugoslava, di tutti i popoli della Jugoslavia. In questo quadro, per noi sommamente controrivoluzionario rispetto alle stesse acquisizioni "risorgimentali" borghesi del titoismo, Milosevic non si proponeva nulla di straordinario, nulla che esulasse dalla carta straccia dei "diritti dei popoli all’autodeterminazione". Sennonché, il calcolo di poter arrivare allo scopo prefissatosi prima per via pacifica, poi, una volta tiratovi per i capelli, col regolamento di conti armato, veniva ad urtarsi contro i precisi piani dell’Occidente, ai quali non bastava una "qualunque" divisione della Jugoslavia, bensì quella ad essi più profittevole, e cioè una divisione del tutto sbilanciata a favore dei quisling croati e bosniaci a danno del più impermeabile elemento serbo. La bomba nazionalistica gli è allora scoppiata tra le mani, col passaggio dei poteri civili e militari nei territori extra-statali serbi nelle mani di autonome forze nazionalistiche (del tipo Karadzic), con la crescente contraddizione da ciò indotta nella stessa Serbia, accusata d’essere incapace, "per colpa di Milosevic", di affrontare il conflitto nazionale sino in fondo e con tutta la somma di rancori intestini forzatamente esplosa all’indomani della rovinosa -per i serbi- chiusura del conflitto imposta dall’Occidente.

Nell’attuale Serbia appena uscita dal cataclisma dell’embargo ad essa imposto (e che si continua ad agitare su di essa come una spada di Damocle) masse sterminate di persone pagano i risultati della guerra testé "conclusasi". Si tratta delle centinaia di migliaia di profughi costretti a lasciare le loro case e che giustamente si sentono traditi nelle speranze ad essi date a bere in passato, di una numerosissima classe media pauperizzata, della massa della gioventù studentesca senza prospettive per l’avvenire. Su un altro ed opposto versante si tratta dei proletari e dei piccoli contadini che si son visti tagliare posti di lavoro, salari e redditi in cambio neppure di un pugno di mosche.

Ci si chiederà come mai i primi accorrano dietro un Draskovic e, se per caso, possano prendere sul serio la contestazione che egli fa di Milosevic da un punto di vista ancora una volta e di più iper-nazionalista serbo sino alla rivendicazione dell’attuazione del programma di riunificazione statale di tutti i serbi lasciato cadere da Milosevic. Ci si potrebbe anche chiedere come mai l’Occidente si appresti a giocare la carta Draskovic "pur sapendo" quali siano i bellicosi programmi di costui. (O, ad esempio, come mai un Bettiza possa un giorno avvertire che, tutto sommato, Milosevic rappresenta, da un punto di vista nazionalistico, il pericolo minore su cui converrebbe appoggiarsi per sbracciarsi il giorno dopo a favore del pericolo ...maggiore!)

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I "normalizzatori" della Serbia: Draskovic o Clinton?

Il fatto è tutt’altro che misterioso e sta nel duplice interesse occidentale a tenere accesi e moltiplicare tutti i focolai di guerra nei Balcani ed a destabilizzare in Serbia quel tanto di potere da essi "indipendente" (e con qualche non trascurabile aggancio verso l’Est russo). Draskovic e la sua banda si fanno carico del secondo compito, convinti (dal momento che, oltre ad essere dei criminali, sono anche degli emeriti cretini), che, una volta "democratizzata" da essi la Serbia in senso filo-occidentale, la porta resti loro aperta per il rilancio positivo della "questione nazionale serba". Ciò concorre ad unire attorno a Zajedno tanto una buona parte dei profughi e dei bollenti spiriti irredentistici "popolari" quanto quegli strati sociali (dalle classi medie allo studentame) convinti che uniformandosi alle provvide leggi del FMI et similia, quindi tagliando alla radice ciò che resta in Serbia di autarchia da "sottosviluppo" e di relativo welfare a favore delle "sottoclassi" del proletariato e del piccolo contadiname, si possa dar luogo ad un rilancio dell’economia (quella dei loro portafogli...)

Se poi è vero che lo studentame ha, in qualche modo, preso le distanze dagli "eccessi" nazionalistici di Draskovic, lo è altrettanto che la sua rivendicazione di "democrazia" coincide in larga parte coi programmi economico-sociali di Zajedno e l’avversione verso nuovi pericoli bellici sa più dell’avversione a passare di persona in prima linea che non di un coerente "pacifismo" (che, per esser tale, dovrebbe rivendicare la linea della convivenza multi-etnica tra tutti i popoli jugoslavi, e cioè un ritorno all’unità jugoslava, impossibile senza un programma proletario di classe in grado di scardinare i poteri borghesi interni ed affrontare di petto quelli imperialisti dell’Occidente: in una parola socialismo e non "pacifismo", parola priva di senso nella situazione attuale). Per quanto belli e sempre sorridenti, gli universitari di Belgrado, nella loro maggioranza, non badan altro che di affittarsi sognando... Lamerica. Molti di esso han rifiutato di partecipare alla guerra? Vero, ma disertando privatamente; il che è alquanto lontano dal disfattismo antibellico ed antiborghese.

Ben diverso l’atteggiamento delle classi sfruttate. Ieri non le abbiamo mai trovate a far baccano per la "guerra santa", né dietro ai Milosevic né, tantomeno, dietro ai più truculenti Seselj (altro bel tomo di ex-sessantossino convertitosi al fascismo!) e Draskovic, e semmai in posizione di attesa passiva di una soluzione pacifica della questione nazionale quale la prometteva Milosevic. Non sono mancate, anzi, le resistenze jugoslaviste, purtroppo incapaci di definirsi quali protagoniste attive, da un lato per il tradimento delle "loro" direzioni politico-sindacali (anche se da queste ultime qualche flebile voce in proposito era, in un primo tempo, pur venuta), dall’altro per l’inabitudine all’organizzazione ed alla lotta politica indipendenti soffocate sotto la soffice coltre del "compromesso" tra classe "in sé" e burocrazia "operaia" titoista (il maggior delitto del titoismo, come altra volta spiegammo!).

Oggi, queste classi parrebbero intenzionate a presentare anch’esse il conto a Milosevic, ma in direzione opposta a quella di Zajedno: ripresa dell’attività economica, normalizzazione della vita politica, purificazione dell’ambiente sociale dai pescecani di guerra e dalla mafia prosperata all’ombra dell’embargo, ma anche miglioramento delle proprie condizioni economiche e politiche di vita, rivendicazione dei "poteri gestionali" e di controllo ad essi defraudati ed un chiaro no alle ristrutturazioni da selvaggio liberismo che l’Occidente impone e Zajedno sottoscrive. Cosa manca a questa protesta? Esattamente la coscienza della propria forza potenziale sul piano dei programmi e dell’organizzazione e ciò grazie anche e soprattutto, come abbiamo sottolineato nello scorso numero, all’azione diversiva di una "sinistra estrema" che, in nome del "meno peggio", concorre a puntellare Milosevic (qui in Italia abbiamo gli antiberlusconiani che lo fanno con Dini e Prodi!), indirizzando questo potenziale verso "battaglie" elettorali di retroguardia e barcamenandosi tra una difesa verbale del restante welfare "compatibile" con la situazione e un "riformismo" che vorrebbe andare nello stesso senso imposto dall’Occidente, ma con "gradualità" e "giustizia" (come da noi i "migliori" del PDS).

Nella loro maggioranza, queste classi tuttora sostengono Milosevic e la sua coda di "sinistra" e sono stati vani, sin qui, tutti i tentativi di Zajedno di aprirsi delle brecce nelle loro file. Si tratta, è ben chiaro, di una situazione transitoria il cui sbocco non può essere che la riconquista di sé o ulteriori slittamenti e disastri ai propri danni.

Noi, in quanto ci battiamo da sempre per la prima soluzione, non possiamo che batterci contro il "meno peggio"; non perché siamo fautori del "tanto peggio tanto meglio", ma perché è proprio il "meno peggio" ad aprire la via alla catastrofe su tutta la linea, a misura che esso immobilizza l’autonomia di classe. (Contro il peggio rappresentato da Zajedno ci sarebbe da augurarsi che gli sfruttati scendessero essi in piazza per mettere a posto questa marmaglia e siamo convinti che la questione si risolverebbe presto e bene, ma, ancora una volta, non è un caso che Milosevic e la JUL si guardino bene dal promuovere una tale mobilitazione, temendo di innescare una miccia esplosiva ai propri danni in quanto per mobilitare le masse sfruttate occorrerebbe offrir loro un programma in cui riconoscersi e scatenarne la forza di classe; il che mal si accorda con gli interessi micro-nazional-borghesi della "sinistra")

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Prove di guerra in corso

Quanto succede a Belgrado ed i giochi dell’Occidente in relazione a ciò non si capirebbero al di fuori del complessivo quadro ex-jugoslavo. In ognuno dei paesi in cui si è smembrata la Federativa stanno, infatti, venendo al nodo i reali problemi del "post-Jugoslavia" come certamente non se l’immaginavano le classi dirigenti di essi (e neppure le classi sfruttate) e gli stessi patron occidentali che si trovano oggi in difficoltà a porvi rimedio (anche, e solo, ai fini dei propri sporchi interessi).

La più vistosa contraddizione è data dall’incontrollabile atteggiamento croato quanto al problema bosniaco. Si è (ri)visto (ovvero: persino le nostre TV hanno dovuto, seppur distrattamente mostrarlo) come l’Erzeg-Bosnia non stia mollando di un pollice la propria autorità di fatto sul "proprio" terreno, considerato un’appendice statale della Croazia solo provvisoriamente disgiunta formalmente da essa. Ciò che è accaduto ed accade nella martoriata Mostar dovrebbe suscitare più di qualche fremito di protesta da parte dei "pacificatori", e ciò certamente si verificherebbe ove al posto dei croati ci stessero i serbi. Ma senza dubbio questa riottosità dei croati erzegovesi ad acconciarsi allo "stato unitario" bosniaco non può non allarmare il fronte musulmano bosniaco, indotto sempre più a pretendere delle garanzie da parte dei "garanti" USA. Così come, d’altra parte, i dirigenti croati (e la stessa opposizione croata) non possono che restar turbati dalla straripante massa di aiuti militari -dalle armi ai consiglieri- che gli USA stanno scaricando su Izetbegovic.

L’aria che si respira sa di tutto fuorché di pace. E noi siamo convinti (anche questo già scritto con molto anticipo) che: 1) gli iper-nazionalisti croati non si adatteranno ad un vassallaggio verso gli USA che, dalla Bosnia, gioca a loro danno; 2) il fronte musulmano, oggi "miracolato" dagli USA, non potrà affrontare indenne, di fronte al proprio popolo, un nuovo conflitto a guinzaglio yankee e, alla distanza, debba semmai indirizzarsi al referente islamico in chiave "anti-imperialista" per poter pretendere ad una reale union sacrée "popolare". Anche per mantenere l’instabilità nella regione a proprio profitto gli USA dovrebbero mostrarsi capaci di far quadrare questo cerchio. Non sarà facile. (Ieri è stato possibile che gli USA favorissero il passaggio di armi iraniane ad Izetbegovic, cogliendo due piccioni con una fava. Sarà sempre così? Non lo crediamo proprio: l’Islam è potuto cadere nel tranello dell’antiserbismo, ma, alla distanza, le sue lance son più puntate verso l’Occidente che verso Belgrado e già ora la combutta con gli USA ha spostato a nord, in Europa, il fronte islamico; le conseguenze si vedranno in seguito).

Dirigenti croati da una parte e serbi dall’altra si presentano, nei loro rispettivi accessi nazionalistici, parimenti interessati a giocar la parte dell’"antemurale cristiano" contro l’islamismo e questo fatto si prolunga in una Grecia che si sente pericolosamente pressata dal pericolo turco (col quale la stampa occidentale già annuncia un prossimo regolamento di conti per Cipro). Questa linea di contrasto geopolitica (e non religiosa) collide con la politica USA che vorrebbe, ma non può, tenere al proprio servizio, in cucce vicine, cani da guardia bosniaco-turchi e croato-serbi (col post-Milosevic) interessati, prima ancora che a custodire la villa del padrone, ad azzannarsi tra loro. Una ripresa delle ostilità tra le due cucciolate riaprirebbe inevitabilmente i giochi a sfavore del monopolio USA, vuoi per rilanciare il ruolo delle altre potenze occidentali concorrenti vuoi, ove intervenisse un soprassalto di classe, per spezzare definitivamente il cerchio degli odi nazionalistici a servizio altrui.

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Economie e società disgregate. Sarà possibile non ribellarsi?

Ma l’aspetto militare non è il solo contraddittorio. Il fatto è che la "primavera" economica promessa ai vari quisling regionali è ben lungi dal tradursi anche in qualche solo consistente anticipo. Questa "primavera" sta navigando a parecchi gradi sottozero.

In Croazia, ad esempio, non abbiamo solo salari di fame, ma il depauperamento verticale dell’apparato produttivo (classico l’esempio del settore metalmeccanico che, dal ’91, ha visto dimezzato -dimezzato, leggete bene!- il numero degli addetti), mentre i settori che continuano a sopravvivere o, magari, ricominciano a tirare sono passati nelle mani dei capitali esteri, con una presenza USA inversamente proporzionale a quella politico-militare.

Non migliore la situazione in Slovenia, la più "europea" delle nuove repubbliche uscite dallo sfracello jugoslavo, con un tasso di disoccupazione alle stelle, nonostante il polmone dell’emigrazione, ed un apparato produttivo ridotto all’osso, col solo compenso di lucrose (per un pugno di business-men) attività di intermediazione commerciale, droga, casino e... casini. E quel tanto di "autonoma" attività produttiva che rimane passa più per il protettorato economico di altri paesi (Germania, Italia, ma anche Giappone, Cina, Corea, Russia da ultima -persino in Croazia-) che per quello USA, forte della sua macchina bellica e finanziaria, ma più impacciata a radicarsi sul territorio ed a stabilirvi in proprio un ragionevole "compromesso" con le classi produttrici.

La terza contraddizione, in stretto collegamento con quanto sopra, risiede nel quadro politico-sociale dell’area, in corso di rapido mutamento. I proletari in prima fila stanno provando sulla propria pelle che il disfacimento della Jugoslavia non li ha in alcun modo favoriti e come, dietro ad essa, giocassero non i cosiddetti "ideali patriottici nazionali" (ai quali possono anche aver abboccato in parte), ma gli interessi voraci delle proprie micro-borghesie e quelli onnivori dell’imperialismo occidentale. Ricordavamo nello scorso numero il sondaggio di Tuzla col "sorprendente" giudizio dato dalla maggioranza dei suoi cittadini secondo cui la guerra è stata voluta e diretta dall’esterno. A ciò aggiungiamo qui la convinzione crescente, sempre più manifestata in piazza dai lavoratori, che le attuali economie nazionali siano oggetto di una devastante rapina da parte delle locali "mafie" e, soprattutto, dei loro mandanti. "Non svendiamo la nostra industria", scandivano i metalmeccanici croati scesi per le strade gli scorsi mesi ed analoga voce si sente in tutti gli altri settori appetiti (e divorati) dall’imperialismo. Questa voce si è dovuta, in parte, ritrasmettere sino a livello di dirigenze e non a caso, attualmente, i rapporti commerciali tra gli stati ex-jugoslavi devono in qualche modo riprendere e ridisegnare la vecchia mappa del mercato interno jugoslavo se vogliono sottrarre le "indipendenti" economie dalla più rovinosa dipendenza ad Occidente. Non è un caso che lo stesso Tudjman stia diventando un tantino antipatico agli USA, non per i suoi misfatti certamente, ma in quanto persegue la via di un riallacciamento di rapporti economici e politici con l’ingombrante Milosevic. Rapporti normalizzati tra i due paesi? Non sia mai! Su questa strada si sa da dove si parte, ma non dove si potrebbe arrivare (al di là di ogni onorevole intenzione puramente affaristica).

Ma, quel che più importa, è il proletariato dell’area, scendendo sempre più spesso in lotta nell’ambito dei nuovi confini micro-statali, che avverte di non avere prospettive davanti a sé se non affrontando l’insieme dei rapporti di dominio imperialistici che in loco la fanno da padroni e, perciò, di dover di nuovo intrecciarsi ("sia come sia") coi propri fratelli oltre-confine della disgregata Jugoslavia. Un percorso difficile, non sponsorizzato da nessuno (men che mai dalle gaie inviate di Liberazione presso gli affascinanti studenti delle "metropoli"), ma nondimeno necessario ed inarrestabile. E sta proprio qui la maggior ragione delle preoccupazioni imperialiste per una non sufficiente destabilizzazione e un non garantito controllo dell’area.

Tanto basta a spiegare il fervore anti-Milosevic per consegnare la Serbia ad elementi "democratici" ipernazionalisti, la presa di distanze da un Tudjman "troppo conciliante" con la Serbia (e un po’ meno coi fantasiosi progetti di "cooperazione economica" squadernati dagli USA), la provocazione anti-serba su Brcko, il rinfocolamento dei bollenti spiriti guerrieri in Bosnia, il tentativo di staccare il Montenegro da Belgrado, il ferreo controllo sulla Macedonia, gli sforzi per attizzare il fuoco nel Kosovo (riluttante a bruciarsi, visto quel che accade a Tirana...) e via dicendo. Quest’insieme di manovre, noi confidiamo, non passerà indenne, ma si ritorcerà come un boomerang su chi ha distrutto la Jugoslavia, dal di dentro e dal di fuori.

Dare un calcio a Milosevic? Giusto e necessario, se sapremo esser noi a darglielo, e senza troppi complimenti, perché questa (e questa sola) non sarebbe destabilizzazione, ma ristabilimento di trincee proletarie in Serbia e per tutta l’area.

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