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RULLI DI TAMBURI IN AMERICA LATINA

Indice

Il prato verde di Cordova s’infiamma
Da "Viva Zapata" a "Viva il Capitale"
Promemoria per i distratti

Il continente sudamericano è stato in questi anni terreno di sperimentazione privilegiato delle teorie neo-liberiste per "risanare" le economie locali; le ricette ed i diktat del Fondo Monetario internazionale sono stati attuati con diligente abnegazione dai governanti e dalle classi dominanti locali.

Apparentemente la cura ha prodotto discreti risultati: riduzione degli astronomici tassi di inflazione precedenti, un certo incremento degli indici della produzione, etc.. Solo che, se si va a guardare un poco dietro queste cifre, si scoprono le spaventose conseguenze per questi paesi della terapie applicate, ma soprattutto per le masse: interi pezzi di apparato produttivo passati nelle mani delle multinazionali e della finanza internazionale, un debito estero che solo negli ultimi due anni è cresciuto ad un tasso quasi doppio rispetto a quello del 1984 (America Latina 7/96). La "decade perdita" degli anni ‘80 caratterizzata dall’indebitamento sempre più massiccio, dall’iperinflazione, dai licenziamenti e dalle privatizzazioni selvagge non solo non è stata superata da nessun governo latino-americano ma ha prodotto il decennio del "calvario": gli anni ’90, durante i quali la ancor più violenta pressione economica, militare e politica dell’imperialismo ha trascinato intere nazioni verso la disgregazione e la frantumazione politica e sociale. A pagare i costi di questa acutizzata rapina imperialista sono stati naturalmente soprattutto i proletari locali, le masse povere diseredate e le popolazioni indigene: salari di fame e sfruttamento intensivo della forza lavoro, tagli a tutte le voci della già misera spesa sociale, privatizzazione totale di tutti i servizi, aumento della disoccupazione; le favelas che circondano i centri metropolitani continuano ad ingrossarsi e somigliano sempre più a dei gironi infernali, l’espropriazione della terra prosegue mentre settori enormi di contadini vengono coinvolti in fenomeni di vero e proprio schiavismo di ritorno.

La virata del continente latino-americano al "pluralismo e alla democrazia" (pilotata dalle centrali finanziarie e politiche dell’Occidente), salutata negli anni ’80 da tutta la sinistra italiana come la riprova delle indiscutibili sorti progressive del capitalismo, si è risolta - dunque - in un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita del proletariato dell’area. Rosales Zamorano, sindacalista messicano del "Frente Sindacal Lazaro Cardenas" lo ha detto esplicitamente all’ingenuo e candido Bertinotti : ".....in Italia negli anni 20 per ridurre il potere di acquisto dei salari c’è voluto il fascismo. Qui è bastata la democrazia....(Corriere della Sera 7/1/97).

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Ripresa della lotta proletaria....

Il prato verde di Cordova s’infiamma

Il 29 gennaio gli operai hanno occupato lo stabilimento FIAT di Cordova, inaugurato il mese prima. Alla base della protesta, oltre al licenziamento di un dirigente sindacale e la sospensione punitiva di altri 60 delegati, c’è un accordo siglato tra la multinazionale torinese e un sindacato "giallo" locale, che prevede un contratto peggiorativo sul piano normativo e salariale. Dopo due giorni di occupazione dello stabilimento il governo ha imposto, con la polizia in assetto di guerra, la sospensione dell’agitazione, dando alle parti sociali 15 giorni di tempo per trovare una soluzione alla vertenza. La FIAT ha minacciato gli operai di spostare altrove la produzione, nel caso di continuazione delle azioni di lotta.

L’occupazione della FIAT di Cordoba, lo sciopero generale contro la politica neo-liberista di Menem - che esegue i diktat del FMI - si sono svolti mentre in Italia i metalmeccanici erano impegnati nella loro vertenza contrattuale. Questa coincidenza temporale - come pure quella con la magnifica lotta sud-coreana - offriva un’ottima occasione per iniziare a delineare un reale schieramento di classe a scala internazionale, per mostrare alle sezioni di proletariato metropolitano e periferico che il capitalismo "globalizzato" non è un molok invincibile. Ma, nonostante ai cancelli delle fabbriche italiane si percepisse un’aperta soddisfazione al giungere delle (poche) notizie sulla lotta argentina, CGIL-CISL-UL e i partiti riformisti non sono andati oltre il miserevole e ipocrita "fax di solidarietà"!!

Ma siccome la democrazia non si mangia, e la pressione sulle condizioni di vita delle masse proletarie si è fatta ancora più insostenibile, il riesplodere prepotente della lotta di classe del proletariato e delle masse diseredate in Sud-America non si è fatto attendere e con esso, di riflesso il rifiorire del fenomeno, tipico dell’America Latina, della guerriglia.

Questi due fenomeni non si ripresentano, però, con le stesse caratteristiche che avevano in passato. Venti-trenta anni di dominio dell’imperialismo non sono passati invano. Il decentramento degli insediamenti produttivi da parte delle grandi multinazionali hanno determinato una estensione numerica e qualitativa della classe operaia locale, gli stessi processi di rapina ed espropriazione dei contadini, l’ulteriore apertura dei mercati locali alle merci internazionali ed i suoi effetti sulla piccola produzione artigianale, hanno portato ad un aumento della proletarizzazione. Il movimento operaio latino-americano non parte certamente dall’anno zero. Esso ha scritto pagine di storia memorabili nella lotta contro lo sfruttamento capitalistico, ma non vi è dubbio che la forza oggettiva datagli dalla sua estensione, l’esperienza acquisita nel tentativo di dotarsi di strumenti organizzativi sul terreno sindacale nonché i bilanci fallimentari delle illusioni riposte nei vari leader e movimenti populisti succedutisi nell’area, ne fanno oggi potenzialmente il protagonista indiscusso della lotta contro il capitalismo locale ed internazionale.

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...e ripresa della guerriglia

Anche il ritorno della guerriglia affonda le sue radici nelle esplosive condizioni di oppressione e sfruttamento a cui è stato ridotto il continente sudamericano, e noi lo salutiamo come un segnale di significativi settori delle masse a volersi ribellare alla rinnovata rapina imperialista. Non ci uniremo mai al coro dei perbenisti che si scandalizzano per le forme di lotta a cui essa è costretta a ricorrere, soprattutto quando poi si tace o si elevano al massimo proteste "umanitarie" contro i crimini commessi in loco dall’imperialismo e dai suoi tirapiedi locali, oppure agli indifferentisti che senza intendere le cause oggettive che sottostanno alla debolezza degli attuali movimenti ed in nome di una "pura" lotta rivoluzionaria vengono meno al compito di schieramento incondizionato con le ragioni di quelle lotte.

Ma non possiamo unirci nemmeno al coro delle anime candide che, dal cuore delle metropoli occidentali, si esaltano per la guerriglia.

 

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Tendenze verso il conciliatorismo

DA "VIVA ZAPATA" A "VIVA IL CAPITALE"

La svolta zapatista che tanto interesse ha suscitato presso certi intellettuali "chic" occidentali non ha nulla ma proprio nulla di cui far gioire. Essa casomai testimonia una volta di più di come non si diano vie intermedie tra capitalismo e comunismo, tra conservazione e rivoluzione; come in assenza di un chiaro programma di classe e di un forte partito internazionale del proletariato la strada obbligata divenga quella di piegare il capo ai diktat dell’imperialismo, passando da un generico e mal compreso riferimento di classe alla valorizzazione degli elementi etnici e localistici. Le Monde Diplomatique spiega bene questa "svolta", non nascondendo una certa enfasi: "... Un cambiamento nella loro visione del mondo che li ha portati ad esaltare una specificità che fino ad allora avevano cercato di mascherare dietro la retorica classista del marxismo - leninismo, il quale costituiva ancora l’ideologia di riferimento. La tematica indigena appena accennata diventa quella dominante". Prontissimo (a far danno) arriva Bertinotti, in Liberazione del 10 gennaio ‘97, con la sua sponsorizzazione: "... Noi sentiamo invece di aver bisogno proprio della vostra elaborazione, della conoscenza profonda che avete accumulato nella comprensione della contraddizione politica generale e anche dalla particolarità della dimensione dei conflitti etnici...riteniamo fondamentale il vostro contributo... per costruire un progetto di nuovo modello di sviluppo che si fondi sull’integrazione dei popoli, sulla cooperazione tra essi, sulla salvaguardia dei diritti universali che vengono oggi annullati dalla globalizzazione...".

Non c’è che dire, un bel mix tra rappresentante di governo a caccia di affari con i paesi del terzo mondo e Woytilismo d’accatto! Siamo noi troppo severi, andiamo oltre gli intendimenti del segretario di Rifondazione? Da Liberazione del 4 gennaio 1997: "...costruire una alternativa e una grande stagione di riforme. Per questa alternativa i rapporti con il terzo mondo non possono più essere fondati sulla solidarietà, bensì sulla capacità di opporsi insieme al processo di globalizzazione, per questo il Prc ipotizza un rapporto diverso tra nord e sud, -che per Bertinotti va costruito- sugli scambi e sulla cooperazione... anche attraverso forme di produzione e di consumo diverse". Contro il capitalismo globale (leggi: l’imperialismo) non il comunismo, ma "culture" e... forme di produzione diverse, "pluraliste", "federate" tra loro. Come sognava Proudhon. Il capitale si centralizza, gli sfruttati si... decentralizzano. Un solo pastore per tante pecore che non osano neppure più essere gregge.

E noi (vero Bertinotti?) siamo il nord del mondo che chiede al sud di non ribellarsi, di cercare con noi un "rapporto diverso". Diverso da tutto, ma non, vivaddio!, dal capitale.

Se per le masse che aderiscono alla guerriglia o che con essa collaborano possiamo parlare di un sano istinto rivoluzionario di classe, non altrettanto possiamo dire per le direzioni di essa che non hanno cambiato la loro più intima natura piccolo borghese e continuano a proporre una strategia inadeguata e perdente poiché l’era dei fronti nazionali e democratici da esse teorizzati è definitivamente tramontata anche in quell’area. Nessuna delle contraddizioni sociali, accumulate in modo esponenziale in America Latina, potranno essere risolte in un quadro nazionale, essendo esse stesse l’effetto del sistema capitalista internazionale e del suo sviluppo ineguale. Esse potranno essere definitivamente risolte solo nel contesto di una rivoluzione di area guidata dal proletariato e dal proprio partito politico indipendente in stretta connessione col movimento comunista rivoluzionario delle metropoli (il "latitante di lusso" che noi richiamiamo all’appello).

In verità siamo di fronte a qualcosa di peggio. Pur facendo i dovuti distinguo, sembra prevalere tra i movimenti guerriglieri una tendenza a muoversi su binari ancora più arretrati e sottoriformistici che in passato. A parte l’esperienza zapatista che espressamente dichiara di non volersi battere per la presa del potere ed i tupamaros che richiedono semplicemente di essere legittimati come movimento politico istituzionale non è che da altre parti vengano segnali migliori. Basti pensare alla ingloriosa fine del sandinismo, talmente abbagliato dalla democrazia formale da cedere il potere senza nessuna resistenza. Ma la vicenda più indicativa è quella dall’accordo di pace sottoscritto in Guatemala tra varie forze della guerriglia ed il governo. Qui, per ottenere il proprio inserimento legale nella vita democratica del paese ed in nome della riconciliazione nazionale, i dirigenti della guerriglia hanno accettato un accordo che mette sullo stesso piano chi si è ribellato all’oppressione e chi ha commesso veri e propri genocidi.

Persino Rigoberta Menchu, che non risulta essere una rivoluzionaria estremista, ha criticato tale accordo a nome di 200 organizzazioni che rappresentano il popolo Maja: "Qui sono avvenuti dei crimini che non si possono dimenticare" (Proceso giornale messicano 5/1/97).

Pablo Monsanto, leader di uno delle quattro organizzazioni guerrigliere firmatarie dell’accordo e possibile candidato alla corsa per la Presidenza della Repubblica, ha dichiarato che l’obiettivo della nuova fase è "....sostituire le armi da fuoco con quelle della politica, fare uso del voto, convincere la popolazione della necessità di organizzarsi e partecipare al processo elettorale..." (idem).

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Il vero protagonista dei futuri scontri

Non è tanto il revival della guerriglia nel continente latino-americano, dunque, che preoccupa le borghesie locali ed occidentali, quanto la percezione che dietro di essa stia covando una violenza ben maggiore: quella della lotta di classe di tutto il proletariato e delle masse diseredate dell’area contro l’imperialismo. Una violenza che non potrà essere fermata né dagli eserciti né dagli squadroni della morte, né potrà essere incanalata intorno alle sempre più inconsistenti prospettive interclassiste e istituzionaliste a cui si rifanno gli attuali movimenti di guerriglia. Una violenza impossibile da "pacificare" e da sedare perché evocata di giorno in giorno dall’aggressione imperialista.

A questa insorgenza il proletariato occidentale ed i comunisti devono guardare col massimo interesse per dare ad essa il proprio apporto affinché si possa raccordare, anche soggettivamente, alla unitaria battaglia contro il dominio capitalistico a scala mondiale.

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Promemoria per i distratti

La classe operaia latino-americana esiste, e lotta duramente.

Il 26 dicembre scorso si è svolto uno sciopero generale in tutta lArgentina, contro i piani di ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro. Lo sciopero, proclamato dalla CGT (Confederacion General de Trabajo) ha avuto un’ampia adesione e in molte province la protesta si è collegata al profondo malessere di disoccupai e altri settori sociali. Duri scontri con la polizia, saccheggi ed episodi di sacrosanta rabbia proletaria hanno caratterizzato la protesta, nonostante gli inviti sindacali alla moderazione.

Il modello "Messicano", additato dal FMI come esempio da seguire, è naufragato miseramente e la catastrofica crisi finanziaria del paese si è tirata appresso anche l’effimero boom venezuelano. A Città del Messico i sindacati si apprestano ad organizzare il 2 maggio 97 il primo sciopero nazionale del paese dal 1916, mentre a Caracas numerose manifestazioni di massa di operai e studenti hanno contestato il piano di austerità del FMI perorato dal "progressista Petkoff.

La Colombia, già scossa la scorsa estate dalle rivolte dei contadini coltivatori di coca, è pure stata attraversata da potenti agitazioni proletarie che sono culminate nella dichiarazione dello sciopero generale (il primo dopo molti anni) per l’11 febbraio.

In Ecuador, il populista Bucaram, eletto da appena sei mesi presentandosi come il "candidato de los pobres", è stato spazzato via dallo sciopero generale che ha rappresentato la più grande mobilitazione della storia del paese, in seguito ai suoi atti di governo ispirati, manco a dirlo, al più sfrenato liberismo.

Il Brasile che è stato il solo paese la cui economia è sembrata resistere meglio in questi anni, soprattutto a causa della sopravvalutazione drogata del Real, ha visto crescere il suo debito interno del 221% in un anno. Il socialdemocratico Cardoso ha inaugurato il suo governo con una pesante politica di licenziamenti mentre si appresta a mettere mano alla riforma del sistema pensionistico e alla ristrutturazione del pubblico impiego. Intanto riprende la lotta dei contadini "sem terra" nelle regioni amazzoniche del Rondonia e di Parà; gli stati di San Paolo, di Minas Gerais e Perenabuco (le tre realtà industriali più importanti) sono stati attraversati da scioperi nel pubblico impiego, nelle banche e nell’industria meccanica che culmineranno nello sciopero generale indetto dalla Central Unica dos Trabahadores (Cut) per fine aprile.

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