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Sindacale

SLAI-COBAS, SIN.COBAS, CUB, RdB, SdB...

I NODI IRRISOLTI
DEL SINDACALISMO "ALTERNATIVO"

Indice

La vittoria dell’Ulivo e la nascita del governo Prodi col sostegno di Rifondazione sta producendo effetti anche nel mondo del sindacalismo extra-confederale. Nel partito si scopre la necessità della lotta al settarismo, sul piano sindacale emerge la necessità di un orientamento unitario (di subordinazione al governo). Nella Cgil si spacca Alternativa Sindacale -che già non scherza quanto a subordinazione al governo "amico"- per dar vita alla più "disciplinata" Area programmatica dei comunisti, verso i sindacati alternativi si aumenta la pressione affinché assumano un atteggiamento più ragionevole verso il governo.

Il primo a fare le spese delle attenzioni di RC è stato lo Slai-Cobas. Prima con la vicenda della Malavenda, poi con la campagna scissionista dei soggetti più legati al partito con l’accusa allo Slai di volersi costituire in soggetto politico. La critica vera era che lo Slai voleva "fare politica" ed era nettamente schierato contro il governo Prodi.

Per quanto è dato sapere le stesse "attenzioni" il Prc le sta dedicando anche agli altri sindacati alternativi nella misura in cui vi si afferma un orientamento apertamente ostile a Prodi e alla sua politica. Si sta scatenando una forte pressione affinché prevalga un atteggiamento che non disturbi il manovratore, con relative minacce di scissioni anche nei loro riguardi. Il segnale più clamoroso della rottura del feeling tra sindacalismo autorganizzato e RC si è avuto in occasione della manifestazione del 26/10 a Roma delle varie sigle extra-confederali. La mobilitazione, causa le divisioni tra le varie organizzazioni promotrici, non aveva al centro la lotta contro il governo, ma solo la critica alla finanziaria, ma tanto è bastato a Liberazione per ignorarla, prima, e per dedicarle, poi, un commento pieno di un livore degno di ben altra causa.

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Dove originano le vere difficoltà?

Le difficoltà per gli extra-confederali non derivano però solo dalle manovre del Prc per renderli subalterni al quadro politico e al governo, ma scaturiscono in buona misura dall’andamento complessivo dello scontro di classe in questa fase: la pesante offensiva borghese a scala nazionale e internazionale; la disorganizzazione e gli arretramenti che subisce il proletariato e di cui il riformismo sindacale e politico porta le principali responsabilità. Altrettanto decisivi sono, però, i limiti e i nodi irrisolti di un sindacalismo nato in contrapposizione a quello riformista confederale, ma che non ha saputo rompere radicalmente con la sostanza della strategia riformista, limitandosi a contestare gli effetti di essa senza saperne individuare e mettere in discussione le cause.

La critica al sindacalismo confederale si è infatti appuntata soprattutto sui fenomeni di burocratizzazione e istituzionalizzazione, sulle politiche di consociazione e concertazione, elementi senz’altro reali della degenerazione riformista, ma che sono la conseguenza obbligata di un’impostazione generale che mette, e non da ieri, al primo posto la difesa degli interessi del capitalismo nazionale e aziendale, e subordina la difesa degli interessi proletari alle compatibilità capitalistiche e allo stato di salute dell’economia. Una strategia che essendo basata su posizioni riformiste, cioè di adattamento al regime della proprietà privata, deve adattarsi allo stato capitalistico e lottare per una sua cooperazione.

Ci si è illusi, così, che per eliminare i pericoli di deriva istituzionalista, e tornare a un sindacalismo classista, bastasse cambiare le forme organizzative e assumere posizioni più combattive e radicali sugli obiettivi di difesa immediata. Con quale prospettiva di fondo? La stessa perseguita dagli odiati confederali, sia pure con strumenti organizzativi più democratici e praticando una lotta più dura: conciliare gli interessi di borghesia e proletariato, condizionare questo stato per renderlo più sensibile alle istanze dei lavoratori fino a farlo diventare espressione dei propri interessi di classe.

Questa strategia è stata, entro certi limiti e con una certa efficacia, attuata proprio dal sindacalismo riformista durante la lunga fase di sviluppo economico ormai alle nostre spalle, ma alle precise condizioni di perdere ogni indipendenza politica e accettare la definitiva istituzionalizzazione.

L’epoca delle vacche grasse è finita e i meccanismi di accumulazione capitalistici sono tornati a incepparsi con la ripresa della feroce concorrenza sul piano internazionale, il riformismo, sindacale e politico, non è più in grado di svolgere quel ruolo ed è costretto (e disponibile) a cedere trincea dopo trincea. Ciò dipende dal fatto che esso si ostina (e, essendo riformista, non può fare altro) a perseguire quella stessa strategia.

Sperare che la stessa prospettiva, pur praticata con più coerenza, dia risultati efficaci nella difesa contro l’offensiva capitalistica, è una micidiale illusione, foriera di cocenti sconfitte sul terreno della difesa delle condizioni immediate, e inevitabilmente veicolo di quelle degenerazioni contro cui si intendeva combattere dando vita ai nuovi organismi.

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I nodi da sciogliere

Scorrendo i programmi e il materiale d’agitazione delle varie sigle extra-confederali (per coi dovuti distinguo), si può constatare come l’orizzonte strategico entro cui si muovono è esattamente quello sopra descritto. Mai compare la esplicita dichiarazione che i problemi immediati del proletariato possono essere definitivamente risolti solo abbattendo il potere politico della borghesia e trasformando in senso socialista i rapporti di produzione; sempre traspare la logica che se si riuscisse con la lotta a imporre ai padroni di fare la loro parte, si potrebbero risolvere i problemi che assillano i proletari e realizzare una società "più giusta". Lo Stato è visto come un organismo politico neutro, casualmente condizionato dagli interessi borghesi, ma che in condizioni diverse potrebbe essere influenzato dai proletari e sostenerli persino nella lotta contro i padroni.

La scelta di rivendicare obiettivi "realistici" nelle vertenze dipende dall’accettazione, consapevole o meno poco importa, delle compatibilità capitalistiche, di non poter superare certi limiti, non solo per i rapporti di forza sfavorevoli, ma anche perché l’azienda o l’economia nazionale possano sopravvivere nella competizione sul mercato. Quando si criticano i padroni, come nei volantini della CUB, perché accetterebbero di sottomettere la sovranità nazionale ai diktat tedeschi, si lascia intendere che le difficoltà dipendono da una volontà politica esterna e non dalla crisi capitalistica, e traspare, anche, un invito al proprio capitalismo a essere più coerente nella concorrenza con gli altri capitalismi nazionali. Il ricorso continuo alle petizioni, alle raccolte di firme, segnala una sfiducia, motivata ancora una volta con i rapporti di forza sfavorevoli, nei metodi di lotta classisti. La fiducia nell’istituto referendario, l’utilizzo prevalente dei ricorsi giudiziari per tutelare gli interessi dei lavoratori in alternativa alla lotta, sono frutto della stessa logica, e, in più, diffondono tra i lavoratori illusioni circa le istituzioni di questo stato e sui meccanismi elettorali. La ricerca disperata dell’agibilità sindacale e il riconoscimento della propria rappresentanza scatena, come nel caso delle RdB, la rincorsa a firmare qualsiasi accordo, ripetendo in sedicesimo la logica dello scambio praticata dalle criticatissime confederazioni.

Si potrebbe ancora continuare, ma può bastare per capire quanto sia decisiva una precisa e netta identità anticapitalista anche per svolgere conseguentemente l’attività sindacale. Senza di essa non si resta in un limbo neutro, ma si è preda inevitabilmente dell’ideologia borghese, si finisce "spontaneamente" in una posizione di adattamento al regime della proprietà privata e allo Stato capitalistico, ripercorrendo il doloroso calvario già attraversato dai sindacati riformisti . Con una aggravante. Il limitato numero di aderenti agli autorganizzati, la loro frantumazione sul territorio nazionale e nelle categorie, favorisce oggettivamente il diffondersi di spinte particolaristiche con rischi di arretramenti persino rispetto a un ottica confederale che, in una certa misura, Cgil Cisl e Uil continuano a mantenere. Basti ricordare la vicenda delle ferrovie, con la nascita del sindacato macchinisti e poi a seguire di altri organismi, quasi uno per ogni figura lavorativa, col risultato di indebolire l’unità e la forza della categoria. Scivolate su questo terreno non hanno potuto evitarle nemmeno organismi sorti con una più marcata identità classista. Il Cobas di Arese, che pure rappresenta un’interessante esperienza di autorganizzazione, si è trovato più volte a rivendicare contro l’attacco dell’azienda che alcune produzioni non fossero spostate in altri stabilimenti, finendo su un terreno di oggettiva concorrenza con gli altri lavoratori Fiat, invece di puntare a uno scontro generale che vedesse impegnati in una lotta unitaria tutti gli operai del gruppo. Ancora, lo SdB in un recente volantino teorizzava che "la vera lotta che permette di cambiare i rapporti di forza è quella azienda per azienda, fabbrica per fabbrica", senza rendersi conto dell’involontaria ironia visto che l’obiettivo del padronato è esattamente quello di frantumare la residua tenuta organizzativa unitaria della classe, mentre leghisti e federalisti d’ogni risma spingono proprio verso un sindacalismo di tipo aziendale, ben sapendo il vantaggio che rappresenta per la borghesia.

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Riformismo e proletariato: non è solo costrizione.

Altro nodo non risolto dal sindacalismo alternativo è l’illusione che la maggioranza dei lavoratori continui a seguire i sindacati confederali solo a causa dei privilegi legislativi da questi goduti, dal potere che ciò gli conferisce. Una sorta di costrizione fondata sul ricatto e il clientelismo, senza la quale i proletari seguirebbero una via più conseguente e antagonista. Da qui la convinzione che bastasse approntare nuovi contenitori più democratici e meno burocratizzati per raccogliere automaticamente il crescente malessere operaio verso il sindacalismo confederale. Un decennio e passa di esperienze di sindacalismo alternativo dovrebbe aver dimostrato quanto sia semplicistica questa ipotesi. Invece ci si ostina a ritenere che uno dei passaggi prioritari, magari da ottenere a qualsiasi costo, con percorsi e alleanze a volte anche sospette, è la rottura del monopolio della rappresentanza di Cgil Cisl e Uil.

Purtroppo decenni di sviluppo "pacifico" e di dominio incontrastato del riformismo nelle file del movimento operaio hanno profondamente radicato nella massa del proletariato che sia possibile la convivenza tra capitale e lavoro purchè si dia una soluzione equa e democratica ai problemi della nazione. Manca completamente la percezione che l’attacco avversario punta ad annientare politicamente e sindacalmente la forza del proletariato, e manca la disponibilità a battersi su un terreno di difesa intransigente dei propri interessi di classe, di totale rottura con le esigenze delle leggi del mercato e dell’economia nazionale. E’ questo uno dei motivi principali di tenuta dei sindacati confederali e della presa che esercitano ancora sulla grande maggioranza dei lavoratori. Per questo anche gli episodi di contestazione di massa contro i vertici sindacali (come i bulloni) non esprimevano una volontà di abbandono di sindacati istituzionali, quanto una richiesta a loro di fare meglio il proprio mestiere di tutela degli interessi dei lavoratori. Non la rottura con la logica delle compatibilità, ma l’illusione di poter imporre con più determinazione ai padroni di tener conto dei bisogni proletari, costringendoli alla loro parte di sacrifici per risollevare le sorti dell’economia.

Questo dato è ancora talmente prevalente che non solo spiega la relativa tenuta dei sindacati istituzionali, ma condiziona in buona misura gli stessi aderenti al sindacalismo alternativo. Persino un sindacato che avesse le carte in regola quanto a prospettiva e programmi non potrebbe non risentire dell’influenza della propria base ed esserne a sua volta condizionato. Il sindacalismo alternativo attuale risente contemporaneamente delle fragili basi di rottura con l’ideologia riformista e della spinta della propria base a ricercare risposte concrete senza mettere in discussione la subalternità alle leggi del capitalismo.

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Non meno, ma più politica

Dovrebbe far riflettere il fatto che il crescente distacco di settori del proletariato dal sindacalismo confederale non si sta orientando prevalentemente verso il sindacalismo di base, ma in maniera sempre più significativa verso tendenze sindacali e soprattutto politiche che con la tradizione del movimento operaio non hanno in comune: i vari sindacatini autonomi gialli, la Lega Nord, la Cisnal o An.

Ciò avviene proprio perché, venendo meno la fiducia nella lotta unitaria della classe, indotta dai cedimenti accettati dai sindacati confederali, e mancando ancora una volontà di rottura radicale con il capitalismo, queste organizzazioni portano alle estreme conseguenze la logica interclassista diffusa a piene mani dal riformismo. In più, queste tendenze avanzano una prospettiva complessiva, non limitata al solo piano sindacale. Certo, è una prospettiva reazionaria e suicida per i proletari, ma se vi aderiscono è per la loro percezione sempre più diffusa che dai problemi che si hanno di fronte non si esce solo con una difesa più conseguente dei propri interessi immediati, ma con un indirizzo che risponda al complesso dei problemi sul tappeto. E’ inevitabile, nella situazione attuale, che simili tendenze risultino più appetibili e convincenti secondo la legge del minimo sforzo, ma risalta con maggiore evidenza quanto sia illusoria e perdente la scelta di chi ritiene di poter risalire la china limitandosi al solo terreno sindacale senza "sporcarsi" le mani con la politica. Sia sul terreno oggettivo che soggettivo una scelta di campo netta diventa non più rinviabile, e diventa sempre più urgente e necessario legare la battaglia sul piano sindacale a una prospettiva più complessiva, per renderla più efficace ma anche più convincente.

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Quale prospettiva

Per noi la battaglia principale va concentrata verso la massa del proletariato, a prescindere dalla sua collocazione organizzativa, affinché conduca con determinazione e convinzione la lotta contro l’offensiva capitalistica, su di un terreno quanto più unitario e generale possibile. Questa è la principale condizione per difendersi meglio, per fare emergere l’inconciliabilità degli interessi borghesi con quelli proletari e per aumentare la distanza tra la massa e il riformismo d’ogni risma. La presenza e la battaglia del sindacalismo alternativo può trovare una sua utilità se si indirizza su questo terreno; se la maggiore radicalità e militanza dimostrata da tanti autorganizzati viene utilizzata per un lavoro di unificazione su basi più avanzate di tutto il proletariato; se non si lascia condizionare dalle logiche di parrocchia che possono avere conseguenze micidiali tanto per la massa quanto per gli stessi sindacati di base.

Per svolgere tale ruolo è necessario sciogliere tutti i nodi: rompere definitivamente con la logica delle compatibilità e le illusioni di poter conciliare gli interessi borghesi e quelli proletari; rompere con l’agnosticismo verso lo Stato borghese e le sue istituzioni; dotarsi di una prospettiva politica che vede nell’abbattimento del potere borghese e il superamento del capitalismo lo sbocco necessario della lotta proletaria per mettere fine allo sfruttamento, e subordinare a questo programma l’attività quotidiana; lavorare per far emergere anche sul piano politico una tendenza realmente comunista tra i lavoratori, quale condizione necessaria per affrontare lo scontro che si va preparando e che non è solo tra padroni e proletari ma tra capitalismo e socialismo.

A dei proletari che soggettivamente esprimono la volontà di rompere con il riformismo è giusto chiedere di portare fino in fondo con coerenza questa intenzione. In questa direzione riceveranno tutto il nostro appoggio e la nostra critica costruttiva affinché il comunismo da spettro che angoscia i sogni della borghesia si trasformi ancora una volta in un esercito in carne e ossa dotato di tutto il necessario armamentario per schiacciare l’insaziabile belva capitalista.

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