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Situazione politica italiana

RILANCIARE LA LOTTA, L'AUTONOMIA E L'UNITA' DI CLASSE

Indice

Il Congresso della Cgil s’è aperto e chiuso in nome dell’autonomia dal governo Prodi. Per Cofferati questa autonomia è poter criticare liberamente la politica economica del governo, ricorrendo, nel caso, anche alla lotta per contrastarne scelte non condivise. La Cgil chiedeva di chiudereil "secondo biennio" dei contratti col precedente obiettivo del 3% (e non il 2.5 proposto da Prodi), riequilibrare la finanziaria con meno risparmi e più entrate, escludere nuovi tagli alle pensioni, concertare una riforma tipo-pensioni per la sanità, mettere l’occupazione al centro della politica governativa .

Sul 2,5% Prodi ha "ceduto". Il "merito" è finito a Bertinotti, ma non v’è dubbio che la posizione della Cgil abbia pesato più dei "ricatti" del Prc. Sulla finanziaria il governo s’impegna a non toccare pensioni, sanità e pubblico impiego (dove tagliare visto che le tre voci coprono il 75% del bilancio statale, esclusi gli interessi sul debito?). Sull’occupazione è cominciato il confronto governo-sindacati-Confindustria che punta a portare alla conferenza del 27.9 a Napoli un accordo in cui il governo mette l’avvio dei "grandi-lavori" e un po’ di impegni sulla formazione e i sindacati un aumento della flessibilità della forza-lavoro.

Gli industriali hanno arricciato il naso: "I sindacati comandano più di Prodi". Un arguto borghese (Sergio Romano, la Stampa, 6.7) ha concluso: "Meglio lo scontro di una "pace" che condanna il governo a diluire i programmi e impedisce al Paese di fare una politica coerente per il suo futuro europeo".

Meglio lo scontro! Guardata dal punto di vista capitalistico la politica prodiana è del tutto insufficiente. Il "sistema Italia" per rilanciarsi avrebbe bisogno di capitali immensi, e può trarli a un’unica fonte, il proletariato, aumentandone lo sfruttamento e sottraendogli tutto il salario "indiretto" (pensioni, sanità, ecc.). L’uno e l’altro processo hanno fatto passi avanti e ne fanno anche col governo dell’Ulivo, ma sono ben poco difronte a quanto richiede lo scontro capitalistico mondiale sul piano finanziario e su quello commerciale.

Per il padronato la colpa del ritardo è dei sindacati, che impediscono un’aggressione senza mediazioni alle postazioni proletarie. Questo è il "potere sindacale". Esso non produce -da due decenni- miglioramenti per i lavoratori, ma condiziona la velocità e la profondità della politica borghese di "riacquisizione" ai danni della classe operaia.

Questo "stallo" (sempre relativo, perchè il proletariato di cedimenti, su tutti i fronti, è stato già costretto a farne molti) non può durare all’infinito. I tempi della crisi internazionale del capitale urgono -e non solo quelli di Maastricht!-. La borghesia per recuperare il recuperabile, deve mettere al bando la sua irresolutezza politica e darsi l’organizzazione militante atta per andare all’assalto della classe operaia. Quand’anche non vi riuscisse, la situazione del proletariato non potrebbe, ugualmente, rimanere inalterata.

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A rischio la tenuta di classe

La politica di "contenimento" dei sindacati (e di Pds e Prc) ha consentito un peggioramento -per quanto moderato- della condizione operaia. Malgrado ciò, la classe operaia ha conservato finora una certa tenuta organizzativa. Più che gli iscritti al sindacato, lo prova il grado di partecipazione alle -sempre più rare- iniziative di lotta, alle assemblee, alle votazioni per le Rsu, allo stesso congresso della Cgil. Questa tenuta mostra, però, dei segni di vacillamento, per un secondo tempo di migliorie sempre promesso e mai inveratosi. E, ormai, iniziano ad apparire rischi di vere e proprie "crepe".

Non solo non è mai giunto il "secondo tempo", ma i sindacati continuano -e continueranno- a chiedere ai lavoratori ulteriori rinunce per aiutare le aziende italiane e il "sistema-Italia" a resistere alla crisi e alla concorrenza. Moderazione salariale, riforme tipo-pensioni, flessibilità del mercato del lavoro, aumento dello sfruttamento, diminuzione del potere in fabbrica e nella società. Il programma è frutto non dell’autonoma volontà dei sindacati, ma della loro completa sottomissione al capitalismo e alle sue leggi (questa l’autonomia che manca al sindacato e che nessun "no" a Prodi può compensare!). Modalità e tempi dei sindacati per attuarlo non soddisfano -è certo- la borghesia, ma diffondono tra i lavoratori ulteriore sfiducia, ulteriore sconforto, ulteriore convinzione che su quella strada non avverrà mai alcuna reale difesa della propria condizione.

Abbiamo più volte ripetuto che il venir meno della fiducia proletaria nelle organizzazioni "riformiste" non conduce automaticamente neanche dei settori minoritari a dislocarsi su una posizione più radicale di classe, anti-capitalista. Anzi, può essere il preludio a un ulteriore arretramento sul piano politico e organizzativo.

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La demagogia leghista fa breccia tra gli operai

I segnali delle crepe sono già visibili, anzitutto per il successo crescente della Lega tra gli operai del nord. Sul piano elettorale e del "sentimento", il leghismo ha già sfondato nelle piccole e medie industrie, e lambisce, ormai, anche le grandi. A fronte della linea sindacale di moderazione salariale, il discorso di Bossi sul raddoppio dei salari appare sempre più convincente. Lasua forza non risiede -come alcuni sindacalisti credono- sulla dimensione della "sparata", ma sulle sue modalità: rompere la centralizzazione dello stato per smettere di finanziare il debito pubblico, che serve per l’assistenzialismo al sud e il mantenimento di 5 milioni di dipendenti pubblici, per liberare, su questa via, i salari di buona parte del prelievo fiscale! Il discorso raccoglie la sentita antipatia proletaria verso il "succhionismo" dello Stato e gli strati parassitari. Antipatia perfettamente giustificata, con la "piccola" differenza che lo Stato "succhia" sudore e sangue al proletariato a beneficio di tutta la classe di parassiti che è la borghesia, tanto di quella che si adagia dietro le istituzioni unitarie, quanto di quella bossiana che aspira a istituzioni separate proprio per sfruttare meglio il proletariato del nord e del sud.

La Lega vuole anche eliminare i contributi per lo "stato sociale", e molti sindacalisti sperano che ciò trattenga gli operai dall’aderirvi. Speranza vana. Gli operai fuori o ai margini dello "stato sociale", costretti al "lavoro nero", sono già tanti. Lo "stato sociale" è stato già ridotto in modo rilevante, ed è in via d’ulteriore riduzione col consenso degli stessi sindacati. Se l’alternativa è, da un lato, salari bassi e stato sociale ridotto e, dall’altro, niente stato sociale ma salari più alti, non c’è dubbio che una massa crescente di operai, anche delle grandi industrie, troverà molto più attraente la seconda.

Altro problema è se la Padania rispetterà le promesse fatte agli operai. E’ impossibile: in una Padania indipendente gli operai subirebbero attacchi ben più duri di quelli scagliatigli finora dallo stato unitario. Ma, una volta carpita la partecipazione degli operai alla "liberazione della Padania", la Lega continuerà a chiederne l’intruppamento per difenderla dalle "aggressioni" esterne sul piano politico, economico e, nel caso, militare, opponendo alle loro rivendicazioni la priorità della difesa della nuova micro-patria. "Dopo l’indipendenza, tutti in riga!", ha già avvertito Bossi. Quel "tutti" parla anzitutto ai proletari.

Quel che la Lega prepara è, dunque, una dispersione completa dell’unità e dell’autonomia della classe operaia dentro la difesa di un micro-nazionalismo, per ora pacifico, "gandhiano", ma pronto a diventare violento e aggressivo contro i "nemici" esterni e interni, non appena il livello dello scontro lo richieda.

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Centralità del proletariato

Conquistare un largo consenso operaio è, per la Lega, un fatto decisivo. Per due motivi. Primo: quella operaia è l’unica classe che abbia interessi così solidi a conservare la sua unità da potersi opporre risolutamente alla divisione del paese. Secondo: in ultima istanza la secessione è proprio contro il proletariato, in quanto è una soluzione al problema borghese di aumentare lo sfruttamento operaio: distruggerne l’unità è il miglior modo per indebolire il proletariato. S’aggiunga che se scende in campo, il proletariato apporterebbe alle truppe leghiste una risolutezza d’azione che manca a tutte le mezze-classi che sono l’attuale asse portante delle schiere militanti bossiane.

Per sfondare definitivamente tra gli operai, la Lega deve, inevitabilmente, raccoglierne le spinte sul piano sindacale -il che fa con sempre maggior cura-, ma deve rappresentarle anche sul piano organizzativo.

Su questo piano sconta ancora dei ritardi. I tentativi di diffondere nelle aziende il Sal (Sindacato autonomo lombardo) sono falliti. E non è detto che la nuova sigla (Sinpa, Sindacato indipendente della Padania) incontrerà miglior sorte. "Costituire un sindacato in quattro e quattr’otto" -dice, l’Unità del 23.8, Panzeri, segretario della CdL di Milano- "è frutto solo dell’imbecillità di qualcuno". Ha, in certo senso, ragione. E’ difficile costituire in poco tempo un sindacato di massa ex-novo.

Ma egli, e tutti i sindacalisti che rispondono a Bossi con uguale supponenza, considera solo il caso di costituzione ex-novo, e non prende affatto in considerazione un’altra ipotesi: che pezzi interi degli attuali sindacati (confederali, "autonomi" e "alternativi") transitino verso la Lega. Fanta-politica? Affatto. Il federalismo s’è già diffuso nei sindacati, in documenti , risoluzioni nazionali, in vari accordi (da ultimo, con i "contratti d’area": salari ridotti del 25-30% nelle zone "in crisi"), e, ancor più, nelle politiche delle strutture periferiche di nord e sud. E’ un federalismo ammantato ancora di "unità nazionale". Ma, se realizzato, porterebbe lo scontro tra intere aree del paese a un punto tale da rendere inevitabile la secessione. Del pari, se si verificasse -come è probabile- irrealizzabile, è destinato a radicalizzarsi sempre più, fino a divenire secessionismo.

Bossi -da politico di buon fiuto- ben coglie la possibilità quando afferma (l’Unità, 20.8):"Vogliono fare la destra o la sinistra? Benissimo, purché in Padania". Si riferiva a Bertinotti, ma vale per tutti i partiti e gli stessi sindacati. Fatte le debite differenze, non fece così anche il fascismo: operai scioperate pure, ponete pure le vostre rivendicazioni, purché sulle vostre bandiere sia scritto "per l’Italia"?

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Bossi: contro Cgil-Cisl-Uil o contro il sindacato operaio?

L’iniziativa di Bossi contro la "triplice" è sempre più pressante:" Dal 15 settembre sarà vietato iscriversi ai tre sindacati storici perché dovranno esserci sindacati padani" (Bossi, l’Unità, 5.9). La creazione dei sindacati padani passa attraverso la messa in crisi di Cgil-Cisl-Uil. Il problema non è solo organizzativo. E’ anzitutto di indirizzo politico-sindacale. I sindacati cui mira la Lega devono avere una chiara caratterizzazione "padana". Non organizzazioni a presidio degli interessi dei lavoratori, ma organizzazioni di lavoratori al diretto servizio del progetto di micro-nazione. Sindacati del partito micro-nazionalista oggi, col progetto ancora da realizzare. Sindacati di stato rigorosamente allineati al "proprio" capitale domani, a progetto realizzato.

Quanto poi all’autonomia dai padroni il programma liberista della Lega semplicemente la esclude.

Bossi proclama, quindi, la lotta a Cgil-Cisl-Uil non perché siano troppo legate allo "stato centralista", ma proprio per quel minimo di autonomia che conservano da padroni, aziende e governo, e per creare al loro posto un sindacato ancor più sottomesso agli interessi delle aziende e dello stato della "comunità padana".

In questo senso fa- come lui dice- il Picasso, cioè non "crea", ma semplicemente rivela quanto è già maturo. Non nel "popolo padano", ma nel capitalismo in crisi, che per aumentare lo sfruttamento operaio non tollera, ormai, neanche quei sindacati collaborazionisti da lui favoriti nel tempo delle "vacche grasse".

Contro il tentativo leghista non vale a nulla difendere Cgil-Cisl-Uil così come sono ora (ma, c’è qualcuno che prova, almeno, a farlo?). La classe operaia può e deve difendersi reagendo contro Bossi, ma reagendo, allo stesso tempo, anche contro la linea di deriva di Cgil-Cisl-Uil.

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Sciopero anti-Lega: esigenza seria mutata in boutade

Bertinotti ha accennato in un’intervista al valore anti-Bossi di un eventuale sciopero dei meccanici per il contratto. Non proponeva uno "sciopero contro la Lega" (ci mancherebbe che un vero democratico immagini scioperi contro partiti politici, anche quando questi lavorano a distruggere la forza della classe operaia!). Pensava solo che poteva rubare la scena alle "sparate" bossiane. Malgrado ciò, le risposte dei sindacati sono state di totale negazione: giù le mani dall’autonomia sindacale! Non si confonda un contratto con problemi politici! Cofferati e D’Antoni hanno ammesso che, se mai l’unità del paese fosse seriamente messa in questione, una mobilitazione sindacale ci vorrebbe. Ma non ora (meglio a buoi fuggiti?). Dal coro si sono -timidamente- distinti solo Cremaschi, Fiom piemontese, e la CdL di Brescia.

In realtà, se la classe operaia scendesse in lotta in modo determinato per dei suoi propri interessi, le pulsioni leghiste sarebbero sicuramente sospinte indietro. Non perché la lotta ruberebbe la scena mediatica, ma perché rinforzerebbe i legami unitari del proletariato, sottraendo alla Lega il suo consenso e disponendolo, anzi, contro le sue istanze secessioniste, per il semplice motivo che avrebbe da difendere la sua propria unità, la cui importanza sarebbe rivitalizzata dalla stessa lotta in corso. Bertinotti non giunge a tanto, tant’è che, incassato il no dei sindacati, non s’è certo peritato di sollecitare il suo partito a dar battaglia nella classe e nei sindacati per chiamare all’impegno contro la Lega. Insomma, una semplice boutade agostana, meno seria di un gavettone da spiaggia.

E’, invece, importante che lo sciopero nazionale dei metalmeccanici per il rinnovo contrattuale ci sia e che miri a obiettivi tangibili: non si deve rinunciare neanche a una delle lire richieste. Solo così la classe operaia può ritrovare la fiducia nelle proprie forze e le ragioni della sua unità, e con ciò condurre una vera lotta anche contro la variante leghista della politica borghese.

Ma la lotta contratturale da sola non può bloccare l'aggressività della borghesia, tanto meno quella della Lega. Può essere un utile inizio, ma deve essere immediatamente seguita da un'opposizione operaia seria a tutta la politica di attacco capitalistico, anche a quella morbida dell'Ulivo, alla sua finanziaria, alle sue iniziative federaliste, alla sua politica scolastica, in tema di stato sociale, di flessibilità del lavoro, ecc.

Le ragioni dell’unità proletaria risiedono nel porre al primo posto la difesa dei propri interessi di classe, in piena autonomia dal capitalismo e dalle sue leggi, e in piena autonomia dallo Stato, il che vuol dire smettere di subordinarli al debito pubblico, all’andamento delle aziende, del sistema-Italia o del sistema-Padania.

Per questo la sola lotta contrattuale non può bastare. Se non viene sconfitta la linea riformista, del semplice "contenimento", e della subordinazione al capitalismo, il proletariato dovrà continuare a trangugiare i bocconi amari che essa produce, e che non sono più solo i soliti accordi a perdere, ma rischiano di essere la completa débacle nei confronti del leghismo, con le ricadute sulla tenuta organizzativa della classe.

Quei compagni che credono di poter uscire dall'attuale situazione solo con una buona dose di combattività operaia su questioni sindacali, tenendosi fuori da qualunque questione politica, si sbagliano del tutto.

Una lotta politica aperta contro il leghismo e il federalismo non può più essere evitata.

Ma, anche per condurre quella, non può più essere evitata neanche una lotta politica aperta contro il riformismo, per ritrovare le ragioni dell'unità della classe nell'autonomia dei suoi interessi e del suo programma, per l'abbattimento del sistema capitalista, di cui Bossi non è che un mal camuffato scherano.

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