Non bastavano gli accordi a perdere degli anni precedenti. Ce ne voleva a tutti i costi un altro, per continuare la marcia allindietro. Ed è arrivato, tutto sommato puntuale.
La grande novità è questa: a un bidone senza accordo nell'industria ha fatto da battistrada un accordo-bidone per il pubblico impiego.
Inutile diffondersi sui dati, che sono ormai di dominio pubblico da almeno un mese. Ci limitiamo a ricordare che, con il nuovo accordo, la scala mobile - per la massa dei pubblici impiegati - è stata ridotta, tra grado di copertura inferiore e semestralizzazione, di circa il 20%. Contropartite? Eccole qua: 1) la riduzione di due ore settimanali per una parte dei pubblici dipendenti che ancora lavorava (contrattualmente) 38 ore, ma si tratta di una merce di scambio già venduta altre volte sotto altro nome; 2) un generico impegno per l'occupazione, subito smentito da Goria, che ha prospettato come necessari licenziamenti e cassa integrazione anche nel pubblico impiego. Inoltre, l'intesa, a richiesta dei governo, dovrà essere accompagnata dall'impegno dei sindacati per lautoregolamentazione degli scioperi. Tutto qui? No, una piccola contropartita, c'è, ma per chi? Si tratta del cosiddetto fondo di incentivazione, che ovviamente dovrebbe andare a vantaggio dell'incremento di produttività e sarà quindi, immancabilmente, uno strumento per premiare i gradi superiori e per consentire a questi ultimi di discriminare tra i propri sottoposti.
Ah, dimenticavamo che vi è un'altra grossa conquista per i lavoratori, quella della flessibilità dell'orario e della mobilità tra i posti di lavoro.
Questo è l'accordo-pilota di cui i vertici di CGIL-CISL-UIL hanno invocato l'applicazione anche all'industria, questo è l'accordo la cui applicazione alla classe operaia per la parte che riguarda la scala mobile è stata definita dai bonzi sindacali "una sconfitta di Lucchini".
Vediamo anzitutto se è così, e perché la Confindustria si è rifiutata di arrivare ad un accordo complessivo con i tre sindacati.
Un "signore sì che se ne intende", Gino Giugni, ha fatto questa analisi dell'estensione all'industria dei nuovo meccanismo di scala mobile e del mancato accordo. Ci sono vincitori e vinti, ha detto (Repubblica, 20/12/85). 1 vincitori sono i "lingottisti", diciamo noi: la Confindustria. Perché "hanno ottenuto senza nulla concedere", hanno ottenuto, cioè, una diminuzione del grado di copertura della scala mobile, senza dare un fico secco. Non si può dire certo che abbiano vinto i sindacati, i quali "hanno ceduto quel che avrebbero fatto bene a cedere anni addietro (secondo Giugni!); ma oggi senza una contropartita". Daltra parte, anche un giornale come il Manifesto, non certo massimalista, ha scritto che "il sindacato ha dovuto incassare una riduzione, pur contenuta, della scala mobile, senza contropartita alcuna".
Dunque, parlare di sconfitta di Lucchini (come fa ad es. L'Unità del 19/12) significa toccare i vertici della più spudorata falsificazione dei fatti. E se si afferma che si è trattato comunque di uno "smacco politico" perché Lucchini avrebbe dovuto accettare un accordo firmato con altri, un'affermazione del genere può solo essere supportata da calcoli truccati. Da parte dei vertici sindacali e del PCI si è difesa l'estensione dell'accordo sulla scala mobile anche all'industria anche con l'argomento che verrebbe garantito, comunque, un grado di copertura superiore a quello della scala mobile attuale senza i decimali. Ma neppure questo è vero. Infatti, lo si può sostenere solo se si omette di considerare un piccolo particolare: la semestralizzazione il cui effetto sulla scopertura della scala mobile è notevole (v. Che fare, n. 3).
Insomma: la nuova scala mobile è un nuovo taglio, per di più permanente, al salario operaio (come lo è, d'altro canto, a quello dei pubblici dipendenti). Senza dire che, con il sistema della indicizzazione differenziata, comunque, per far parlare anche Giugni, "ha un esito più frenante nei confronti degli appiattimenti". Ovvero, per dirla chiara, aumenta le differenze tra i diversi livelli, indebolendo l'unità della classe.
Ma tanto più se questo è vero, perché mai la Confindustria s'è rifiutata di firmare un accordo complessivo con CGIL-CISL-UIL che pure sugli altri terreni (orario, flessibilità, mercato del lavoro) si erano presentate alla trattativa con amplissime disponibilità a cedere?
Il fatto, in rapporto al quale Il Manifesto del 19/12 ha parlato di "morte e sepoltura della concertazione", dovrebbe far riflettere certi "rivoluzionari" che ancora ieri parlavano della possibilità del "patto sociale" ovvero davano per scontato un accordo generale, magari "a vita", tra Confindustria e sindacati.
Chi ragiona così compie un piccolo errore: quello di scambiare i desideri (in questo caso dei vertici sindacali) per la realtà. La realtà, non ci stancheremo di ripeterlo, è quella di una crisi sempre più profonda del capitalismo, nella quale è giocoforza, per la borghesia, scaricare costi sempre più pesanti sul proletariato. Ecco perché, col tempo, stanno diventando difficili, e non solo in Italia, perfino gli accordi a perdere, e sta tramontando inesorabilmente la stessa pratica della concertazione. Perché quello che i sindacati collaborazionisti e quanto mai sensibili allinteresse nazionale sono disposti a perdere è sempre troppo poco, nonostante tutto, rispetto a quello che i padroni sono decisi ad avere "per non indietreggiare nella concorrenza internazionale".
Ora, appena finita la effimera ripresina USA, regna la più grande confusione e incertezza sul mercato internazionale. Nella confusione, però, brilla una sola certezza: la concorrenza è destinata a farsi ogni giorno più dura e, una volta compiuto un consistente ammodernamento degli impianti, tutto si gioca ancora una volta sulla riduzione del salario operaio.
Ecco perché in questo momento la Confindustria è così rigida sulla "flessibilità delle prestazioni", sui "rapporti di lavoro", sullo slittamento della contrattazione aziendale e dei contratti di categoria. Perché, in un momento come questo, ha un bisogno vitale di restaurare dentro e fuori le aziende il dominio completo del profitto d'impresa, senza essere più legata neppure dall'impaccio di consultare sulle varie questioni i pur disponibilissimi Lama, Marini, Benvenuto e soci.
Trentin, un altro dei professionisti della svendita degli interessi operai, è, suo malgrado, costretto a riconoscerlo: "si ritorna al più pacchiano dei laissez faire, nel senso che anche per quel che riguarda l'occupazione e il rapporto tra quest'ultima e la crescita economica l'unica grande trovata della Confindustria è quella di dire: eliminate tutti i vincoli di tutela collettiva dei lavoro in entrata e in uscita dalle imprese e in qualche modo l'occupazione aumenterà" (Rinascita, 14 dicembre '85).
Né i consiglieri della Confindustria sembrano essere soddisfatti del tutto da quanto conseguito sulla scala mobile. Modigliani, il Nobel che spesso ha udienza sulle pagine de L'Unità, sul Sole-24ore del 22-23 dicembre spiega che sì, la nuova scala mobile è un l'enorme progresso" (per i padroni), ma va ancora ridotta in relazione all'inflazione importata, agli effetti degli aumenti delle tariffe e alla non sufficiente differenziazione tra le categorie. Andreatta, poi, coglie la palla al balzo della necessità di sfruttare la "favorevole contingenza internazionale' per chiedere nuovi tagli sulla spesa pubblica e il blocco della contrattazione.
Insomma, neppure hanno finito di depredare un'altra fetta di salario operaio che i signori della Confindustria, tutti lingottisti, altro che risibile distinzione tra "buoni" e "cattivi"!, si spingono più a fondo. Accentuano la lotta di classe, accentuano l'attacco della classe padronale al proletariato.
Come reagiscono Lama è soci? Lama reagisce rilanciando il "patto tra produttori" in una nuova versione aggiornata in peggio. In buona sostanza, una sostanza ben colta da Il Giornale di Montanelli (4 gennaio '86), propone un ulteriore "sacrificio del potere d'acquisto dei salari dei lavoratori" per ottenere in cambio... qualche posto di lavoro in più e la possibilità di contrattare le nuove modalità d'impiego (al nero) della forza-lavoro.
Il "no" secco è arrivato dagli ambienti Confindustriali in poche ore: non intendiamo contrattare nulla, visto che ci stiamo già riprendendo certe "libertà" nei fatti, è stata la loro risposta.
Più Lama e soci arretrano, più la Confindustria rincara la dose. E il metodo della Confindustria lo sta facendo proprio anche il governo, ovviamente, che, sulla questione fisco, non solo si è ben guardato dal restituire per intero il fiscal-drag dovuto dal 1983, ma ha varato una riforma del fisco che, tanto per cambiare, introduce novità positive solo per i contribuenti medio-alti.
Insomma, davanti all'aggressività crescente di Confindustria e governo, nei confronti di tutto il proletariato e della massa dei salariati, la ricetta di Lama è quella di predisporsi ad ulteriori sacrifici in nome dell'economia nazionale, per scongiurare il declino in "serie B" dell'Italia. Quella di Benvenuto e del vertice CISL è poi ancora peggiore, se fosse possibile, nella misura in cui propone di associare permanentemente a tutte le "trattative" future anche quel governo che è noto per essere stato il primo dell' "era repubblicana" a tagliare per decreto la scala mobile.
Anche noi abbiamo una nostra ricetta, e pensiamo che, più passano i giorni e i mesi, più oggettivamente è destinata ad acquistare forza, e più va soggettivamente riproposta con decisione dentro e davanti alle fabbriche, come in tutto il proletariato.
La nostra premessa è semplice: o il proletariato prende nelle mani direttamente la propria difesa, la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, o nessuno lo farà in sua vece. Ecco perché il nostro primo invito è un invito alla lotta. Senza la lotta per la classe operaia non c'è che un continuo arretramento, questi ultimi anni lo provano senza possibilità di smentite.
Né è possibile ancora avere dubbi sul fatto che, facendo propria la logica dei "sacrifici necessari", si possa contenere i danni. Compagni operai, i danni della politica sindacale e riformista del "meno peggio" sono ogni giorno più pesanti. Del resto, ben lo sanno anche le direzioni sindacali, che non hanno il coraggio di presentarsi a difendere il proprio operato davanti alle assemblee dei lavoratori e cominciano ad evitare persino le assemblee dei propri quadri di base...
Il giusto "pessimismo", il più che motivato sentimento di condanna nei confronti delle direzioni sindacali non deve diventare pessimismo nei confronti della lotta e della possibilità di rispondere con efficacia ai padroni. Tutto sommato, negli ultimi anni, si è perso senza lottare. L'aggressività dei padroni è grande, è vero; ma proprio perché la base su cui sono seduti è pericolante e perché al loro attacco non c'è una linea efficace di difesa che vi si contrappone. Ma noi siamo certi che una grandissima forza potenziale è nascosta in questo momento sotto le ceneri di una situazione che solo ai superficiali può apparire "morta".
Ora si tratta di fare un bilancio degli anni trascorsi, e prendere atto definitivamente che la politica dei sacrifici necessari, la politica di concertazione, la politica di scambiare salario contro occupazione, nonché la delega ai vertici sindacali e all'" opposizione in parlamento" del PCI non hanno pagato e non possono pagare, perché alla loro base c'è la pretesa di poter "comporre" gli interessi operai con quelli capitalistici. I fatti provano che questa composizione è impossibile e che, ogni volta che viene perseguita, si riduce ad una perdita secca per il proletariato.
E quindi tempo di dire basta agli arretramenti, basta ai sacrifici, basta alla crescente prepotenza padronale. E tempo di opporre, con la lotta, un argine all'attacco borghese e governativo!
Non siamo meteorologi dotati di satellite per predire il tempo che s'avvicina, ma siamo ben certi di una cosa. Questo silenzio sui posti di lavoro non significa di sicuro accettazione convinta dei sacrifici, e neppure rinuncia alla lotta. Questo silenzio sta accumulando rabbia, è come se l'erba si stesse facendo ogni giorno più secca. Non possiamo prevedere con precisione come e dove riprenderà la lotta, se in questa fabbrica o in quella, se in occasione di una vertenza aziendale, di un contratto di categoria o di una nuova raffica di licenziamenti. Ovvero in occasione di un provvedimento dei governo o dei padroni particolarmente odioso.
Ma una cosa è certa: ovunque possa scoppiare una prima scintilla, il compito dei comunisti rivoluzionari starà nel fare di tutto per farla arrivare lontano, generalizzando non solo la necessità della lotta, ma anche i contenuti unificanti di cui il proletariato ha bisogno per mettere in campo unita la propria grande forza.
Per ora diciamo ai compagni delle fabbriche di cogliere come un buon segnale di disponibilità alla lotta è venuto già da un vasto settore cl giovani proletari che è nella scuola come sacca di disoccupazione.
Questo autunno almeno questa buona novità l'ha portata. E noi non possiamo che interpretarla come un preludio. La nostra musica deve ancora cominciare. Sentiamo che non si farà attendere per molto. Ma non ci limiteremo certo ad aspettare...