Tre mesi sono passati da quel 16 ottobre in cui, a Milano, ventimila studenti, a sorpresa, scendevano in piazza insieme con il il Liceo Artistico. I movimenti reali nascono sempre e solo così: "a sorpresa", dopo un periodo di incubazione non sempre del tutto tangibile.
A distanza di tre mesi da quell'improvviso inizio, cosa ne è del movimento degli studenti?
Un risultato è certamente conseguito: il movimento si è costituito come movimento nazionale. Anche Alberoni è stato costretto a scrivere: "Prima del movimento questi ragazzi non si sentivano una collettività con comuni problemi, con un comune destino. Oggi sì. In pochi giorni hanno avuto l'esperienza stupefacente di riconoscersi. Hanno scoperto di avere qualcosa in comune, anzi di essere, per molti aspetti identici" (Corriere della Sera, 12/12/85). È stato il primo passo, e non da poco.
Ma proprio perché la controparte, oggettiva e soggettiva, degli studenti era ed è il governo, con la sua legge finanziaria, la sua politica scolastica e la sua politica "del lavoro", questo movimento, appena nato, si è trovato a aver fare i conti con una serie di problemi politici di grande portata.
Nessuna sorpresa, quindi, almeno per noi, se dopo la piena delle enormi manifestazioni di Roma e Napoli, complici anche le vacanze, ci sia stato un momento di pausa. Il problema del momento (metà gennaio) non è solo la continuazione della lotta, dato che nessuno degli obiettivo è stato conseguito, ma anche un primo bilancio delle lotte di questi mesi, quanto mai necessario perché possa aprirsi davvero una "seconda fase" e venga impedita la dispersione o addirittura la frantumazione in senso particolaristico e persino corporativo.
La prima cosa su cui la massa degli studenti deve essere chiamata a riflettere (e di certo già sta riflettendo) è il crescendo di contrapposizione da parte del governo Craxi e della classe dominante in genere.
L'aumento delle tasse scolastiche è rimasto sostanzialmente invariato nella legge finanziaria. Il governo, dalla Falcucci a tutti gli altri, se n'è infischiato della protesta di centinaia di migliaia di giovani e ha risposto "no". Il fatto che abbia deciso di destinare all'edilizia scolastica una parte dell'introito delle nuove tasse non ha alcun significato, se non quello di riconfermare che il costo di una scuola (che non dà nulla...) deve essere sempre più accollato sugli studenti stessi e le loro famiglie. Addirittura beffarda è poi la decisione di concedere esenzioni solo a quelli che prendano 60/60 alla maturità o il massimo dei voti a fine anno, beffarda se non fosse trasparente il tentativo di incitare alla corsa frenata, ad una balorda competizione da cui comunque il 99% resterà escluso.
Ma il governo non si è limitato a questo secco rifiuto sulle rivendicazioni materiali del movimento; aveva cominciato il suo "dialogo" con gli studenti dell'85 mandando avanti il ministro di polizia, Scalfaro, e l'ha continuato cominciando a far intervenire la polizia di stato. Un insignificante pretesto è bastato a Milano e Roma, per far ricomparire manganelli, lacrimogeni, arresti e connessa caccia all'estremista. Ma anche laddove i pretesti mancavano, come all'istituto Gramsci di Torino o al corteo delle facoltà universitarie a Napoli il 18 dicembre, non è mancato invece l'intervento dei poliziotti o il loro asfissiante cordone di controllo. Né si sono fatti attendere i primi provvedimenti di sospensione individuale o collettiva e si è andata moltiplicando col passare delle settimane la pressione di presidi e rappresentanti dei genitori (negli organi democratici, ahi la democrazia!) contro la continuazione e l'estensione della lotta.
Altrettanto negativa è stata, al di là dei convenevoli, la risposta data da De Michelis sul problema del lavoro ai giovani. Le sue parole si commentano da sole: "Cari giovani, abituatevi a pensare che un lavoro ve lo dovrete creare con le vostre mani. Pensate sempre meno al posto sicuro, all'assunzione o a risolvere la disoccupazione con la partecipazione di massa ad assurdi concorsi. Il problema del lavoro non è solo una questione di posti in fabbrica; dovete mettervi in testa che la strada principale da seguire è quella di "fare impresa" per conto vostro: individualmente, in forma associata o cooperativa. Ma comunque vi salverete dalla disoccupazione solo diventando imprenditori di voi stessi" (Repubblica, 18/12/85). Insomma, ancora una volta, il governo ha ripetuto ai giovani che "lavoro non ce n'è", in particolare che "lavoro, stabile e sicuro" non ce n'è, e che quindi debbono già considerare come una fortuna qualsiasi forma di lavoro precario. Se vogliono qualcosa di meglio, se lo conquistino diventando "imprenditori" (una cosetta da nulla, visti i costi di costituzione di un'impresa e le incertezze di quella giungla di briganti che è il mercato). La domanda aleggia nell'aria, e persino la zelante neo-redattrice della Repubblica non riesce a non porsela: "E chi non avesse la capacità (accumulativa, nn.) di autoimprenditorialità?... Sarà dura: il ministro non fa nulla per nasconderlo. Spiega anzi... alcuni concetti chiave dell'economia politica italiana...". Chiaro no? Al primo posto c'è "l'economia politica italiana", ovvero il profitto dei padroni e affini, all'ultimo il futuro dei giovani, per i quali il governo non può fare nulla (impegnato com'è, tempo e denari, a sostenere i profitti di loro signori).
Non è finita. La pennellata finale, la chiusura del cerchio, l'ha data il solito Alberoni sul "Corriere". Ha spiegato agli studenti che il modello da assumere sono USA e Giappone, là dove non si sogna l'istruzione per tutti, ma c'è una scuola fortemente selettiva che "costa decine di milioni l'anno". Se il movimento vuole davvero "rinnovare la scuola", è questo il modello che deve assumere. I singoli istituti dovrebbero autofinanziarsi con nuove tasse sulle famiglie (oltre quelle già aumentate dal governo). Le scuole dovrebbero mettersi in competizione tra loro, quelle di Secondigliano con quelle di Posillipo, quelle di Primavalle con quelle di Prati, quelle di S. Babila con le "gemelle" di Quarto Oggiaro. Così, in questa competizione... ad armi pari, sarebbe assicurato il progresso che come tutti sanno non "conosce altra strada" se non quella che "incomincia dall'individuo" e dalla concorrenza.
Ecco, dunque, che in poco più di due mesi sono scomparse le carezze e la scena della risposta padronal-governativa al movimento degli studenti è dominata dal "no" alla riduzione delle tasse, dall'estensione della repressione, dal rifiuto di assumere qualunque impegno per il "lavoro ai giovani" e dalla proposta di una scuola ancora più selettiva e costosa di quella contestata dal movimento dell'85.
L'accusato, passato il primo momento della sorpresa, scarica tutta la responsabilità sui timidi accusatori, rovesciando su di loro una caterva di doveri: "dovete pagare le tasse aumentate, dovete competere di più tra di voi dovete evitare di lanciare persino i pomodori dovete diventare imprenditori di voi stessi, dovete mettervi in testa che l'alternativa a questa situazione è solo una situazione ancora più pesante sul piano materiale e più selettiva e disperata per i giovani proletari, dovete comunque accettare il lavoro nero, etc.". Può sembrare un intollerabile paradosso, e tale è. Ma innanzitutto bisogna rendersi conto che è un dato di fatto: il governo Craxi (e i mass media a suo supporto) scarica tutte le colpe sui "governati", di cui attacca il diritto alla protesta sia con la propaganda che nelle piazze. Il governo consente sempre meno illusioni sul futuro comportamento di stato e classe dominante.