Un "compagno coinvolto nellinchiesta Mastelloni" relativa alle iniziative politiche svoltesi in Veneto, tra cui quelle per il ritiro delle truppe italiane dal Libano, ha fatto pervenire ai nostro, come ad altri giornali dell'"area" comunista rivoluzionaria, un lungo ed impegnativo documento di analisi ed indicazione di prospettive, sollecitando i destinatari ad una discussione nel merito.
In questo numero, in luogo di una risposta "a tu per tu", preferiamo presentare per ampi stralci il documento stesso senza troppe chiose nostre. Ciò per due motivi:
1) perché riteniamo che questo documento sia importante per un articolato dibattito tra le avanguardie (e nostro compito, perciò, farlo innanzitutto conoscere al massimo di completezza consentitoci);
2) perché... non abbiamo troppo da aggiungere o rettificare rispetto a quello che il compagno scrive. Chi ha seguito quanto abbiamo sin qui scritto in merito alla repressione ed all'intreccio tra lotta contro di essa ed azione di classe può, agevolmente verificarlo (si veda in questo stesso numero l'indice sommario dei numeri precedenti del "che fare" e l'elenco dei "Quaderni", il primo dei quali entra direttamente nello specifico dei tema in oggetto).
Sappiamo per altro, che non a tutti i destinatari questo documento è piaciuto o può piacere e confidiamo che le critiche che esso ha sollevato o solleverà saranno rese esplicite, in particolare da parte di quelle forze che costituiscono il chiaro bersaglio della parte conclusiva dei documento. In questo caso, entreremo apertamente in una discussione che anche noi, per quel che ci compete, abbiamo più volte sollecitata.
Resta solo da aggiungere che la nostra azione, all'epoca dei fatti qui richiamati, non poté incrociarsi con quella dei compagni del Veneto, della quale, però, abbiamo subito avvertito il significato di una prima manifestazione di massa (per esiguo che potesse essere il numero dei proletari coinvolti allimmediato, ma comunque di massa, secondo il concetto "dinamico" che Lenin ci insegna si deve avere di questo termine) e della concreta saldatura tra avanguardie comuniste, comunque connotate, e movimento proletario.
Proprio perché questo esempio possa ripresentarsi a scala più vasta e nelle condizioni migliori di attrezzaggio dei comunisti a svolgere i loro compiti di direzione, riteniamo di grande importanza la conoscenza di questo documento e la discussione più ampia possibile attorno ad esso.
Il documento esordisce con una precisa dichiarazione d'intenti: non si tratta di inventare una "formula magica che sappia dare la libertà immediata ai compagni arrestati e la serenità ai rimanenti inquisiti", ma di contribuire a "definire il quadro entro cui possono correttamente collocarsi tutte le possibili iniziative". A tal fine è necessario "affrontare i problemi posti dall'inchiesta Mastelloni mirando ben oltre l'inchiesta stessa, perché questa si colloca in un quadro che va ben al di là della contingente situazione (1985) che la società italiana sta attraversando".
Una premessa innanzitutto: "Non è tema di discussione in queste pagine, ma è utile ricordare quale dev'essere il punto di riferimento, per dei comunisti rivoluzionari, determinante questo o quell'atteggiamento di fronte alla repressione dello Stato: l'inevitabilità della società comunista, che già vive in forma fetale all'interno dell'attuale marcia società, che dovrà essere liberata a seguito della distruzione violenta degli attuali rapporti di dominio borghese; l'inevitabilità della violenza rivoluzionaria dei proletariato, cementato in una centralizzata organizzazione politica comunista. Questi centrali punti di riferimento sono tutt'altro che "scontati": particolarmente dopo il dilagare del "pentitismo" e del "dissociazionismo", che hanno attraversato tutto il movimento e le forze nate e sviluppatesi a seguito dell'ondata di lotte a cavallo fra gli anni '60-'70". Punto centrale, si sottolinea, "non perché un "lontano domani" sarà all'ordine del giorno, ma perché già oggi esso si presenta sotto la forma dei corretto atteggiamento da tenere nei confronti del baluardo centrale contro cui ogni lotta deve scontrarsi: lo Stato controrivoluzionario democratico-blindato della borghesia".
Ogni altro punto di partenza significherebbe, nel concreto, "lasciarsi trascinare dalla corrente del 'caso'", finendo per seguire la corrente dell'ideologia e della prassi borghesi, sino "ad armeggiare gli arnesi tratti dallarsenale ideologico ed organizzativo della classe dominante". Ed è perciò che, prima - e per - poter fare azione politica su questo, come su ogni altro caso repressivo borghese, occorre ben definire "i presupposti politici di ogni agitazione e propaganda".
Definite queste dorsali di principio (di cui alla fine si vedranno le conseguenze pratiche nell'ambito delle iniziative specifiche sul "caso"), il documento entra nell'analisi del significato delle lotte nell'area veneta entrate nel mirino della magistratura. Una tale definizione è necessaria per chiarire poi che cosa - ed a quale fine - si vuoi difendere dalla repressione borghese, nonché i mezzi propri di un'azione politica in tal senso.
"Le iniziative svoltesi nell'area veneta per il "ritiro delle truppe italiane dal Libano" e culminante nelle manifestazioni, a Mestre, dei 17 dicembre '83 e 21 gennaio '84, si distaccano nettamente da ogni altra manifestazione di carattere pacifista a cui abbiano partecipato strati più o meno ampi di proletari. Questa diversità qualitativa non è data tanto dal fatto che molti dei proletari presenti fossero immediatamente coinvolti dalla presenza militare italiana in Libano" né "da ciò che pensavano tutti quei proletari, in questo o in quel momento specifico", ma nel carattere oggettivo dell'obiettivo contro cui si dirigeva la loro lotta e dal significato che, di conseguenza, essa veniva - ancora una volta oggettivamente ad assumere. E l'obiettivo era la cosiddetta "presenza di pace", come strombazzato dalla propaganda borghese, dietro cui si nascondeva in realtà l'effettiva "natura di guerra, rivolta non solo contro i proletari palestinesi e libanesi, ma anche contro l'imperialismo britannico, francese e statunitense... La presenza italiana a Beirut stava ad indicare: 'Signori, nella spartizione della torta ci siamo anche noi; non siamo più una potenza di seconda serie, e siamo decisi a difendere la nostra fetta". Questa la reale natura del contingente "di pace" in Libano: natura che molte cosiddette avanguardie allora non compresero, ed altre oggi stanno forse dimenticando".
"Quale la risposta che i proletari hanno dato, partecipando attivamente alle iniziative sfociate nelle due manifestazioni? Dal punto di vista soggettivo immediato, la loro risposta indicava che non gli interessava nulla di quanto succedeva in Libano; volevano i loro figli a casa, punto e basta! Dal punto di vista oggettivo - ed è questo che lascia il segno all'interno dei rapporti fra le classi - fu una risposta immediata contro un'azione di guerra condotta dalla borghesia in casa propria. Questo non è pacifismo, ma ( ... ) si colloca sul terreno del disfattismo contro il proprio militarismo, contro gli interessi dei "proprio" capitale nazionale".
"Ciò che si sviluppò in quei mesi non avvenne in maniera puramente spontanea ( ... ), ma, fin dall'inizio, vi fu l'azione consapevole di comunisti rivoluzionari che seppero non tanto preparare piani preconfezionati ed organismi di lotta puramente cartacei, quanto catalizzare le naturali ed immediate esigenze antimilitariste di quegli strati proletari, dando corpo organizzativo alla loro tensione di lotta", sicché il "Comitato per il ritiro delle truppe italiane dal Libano" risultò "il prodotto reale della volontà dei proletari di organizzarsi in un Comitato reale di lotta" riuscendo, dal punto di vista soggettivo, a "esprimersi politicamente e denunciare in maniera inequivocabile la natura della spedizione in Libano e le linee di forza lungo le quali l'imperialismo italiano intendeva muoversi".
"Il Comitato ha svolto il suo lavoro di denuncia (suonando l'allarme su "come la borghesia stesse concretamente preparandosi al prossimo macello imperialistico", n.) quasi quotidianamente: attraverso le radio locali, volantini, manifesti, mostre, non senza mettere in evidenza, in talune circostanze, notevoli contraddizioni e limiti. Ma non è questo il punto. Ciò che è importante sottolineare, e che va "capitalizzato", è che, pur nell'arco di tempo di pochissimi mesi, vi è stato l'incontro fra un movimento, una tensione spontanea anti-imperialista con il lavoro consapevole di comunisti rivoluzionari i quali hanno saputo dare organizzazione, direzione e voce politicamente classista a quella rabbia proletaria".
Se questa è "la grande lezione politica che si deve trarre" in vista delle lotte che, "su scala ben diversa", sono destinate a ripresentarsi domani, si può ben dire che bene l'ha tratta, dal suo punto di vista controrivoluzionario, la borghesia.
"In questi ultimi anni essa ha saputo trarre, dal suo macabro arsenale, le supercarceri, la carcerazione preventiva, le leggi speciali, il tutto racchiuso in una strategia dell'emergenza che non ha niente a che vedere con l' "emergenza del terrorismo", ma con la più reale, irreversibile e gravida di lotte rivoluzionarie emergenza delle crisi della società borghese".
Perciò essa si è mossa immediatamente contro quella che è stata una delle prime, se non la prima tangibile manifestazione di disfattismo antiborghese del periodo post-boom. Lo Stato non ha atteso: "si è messo in moto da subito: raccogliendo le cose dette, le cose scritte, le cose fatte; catalogando organismi di lotta nati in quel periodo, studiando la loro evoluzione; schedando i proletari più attivi e, particolarmente le "teste" del movimento e... aspettando. Aspettando che si esaurisse (provvisoriamente n.) ogni tensione", con l'esaurirsi prima del "Comitato" in seguito al ritiro (per calcoli propri, della borghesia italiana) del contingente di truppe dal Libano, poi col suo defluire in iniziative sempre più ristrette, lungo una linea "dovuta alla traiettoria inerziale" susseguente alle iniziative precedenti, "aspettando che si esaurisse ogni tensione che ancora aveva permesso ( ... ) lungo il corso dell'84 l'iniziativa contro la Mostra Navale di Genova e la successiva riunione dei Ministri della Difesa dei paesi NATO, a Roma".
Di qui "quattordici arresti fra l'8 febbraio ed il 18 giugno '85 (altri 5 in questi ultimi tempi); circa una cinquantina di comunicazioni giudiziarie (270-bis: associazione sovversiva con finalità di terrorismo); visite ed interrogatori volanti a persone non formalmente indiziate. 1 compagni colpiti sono quelli che sono stati particolarmente attivi nel movimento contro la guerra, oltre ad essere impegnati già da tempo anche sul fronte della solidarietà con i proletari in prigione, sul fronte della lotta per la casa, delle lotte operaie etc. Per la borghesia non si tratta di colpire delle lotte ed i responsabili di lotte passate: non è semplicemente un'azione di vendetta postuma (grassetto nostro). Col suo atto repressivo essa mostra la volontà di spezzare preventivamente la possibilità del ricrearsi di tensioni di lotta organizzate oggi e, soprattutto, domani. Questa specifica azione repressiva mira particolarmente a tagliare il potenziale cordone ombelicale fra le lotte di un anno fa contro il militarismo italiano e le lotte future per il disfattismo nei confronti della volontà di guerra della nostra borghesia".
"Questa azione repressiva non ha nulla a che vedere ("al di là delle motivazioni contingenti di questo o quel giudice", n.) coi tentativo di tagliare ipotetici legami fra movimenti di lotta contro la guerra e "terrorismo". Tutte le frazioni borghesi, tutti i partiti politici sanno benissimo che il "lotta-armatismo" - così come si è configurato, nelle più diverse espressioni organizzate, lungo il corso degli anni '70 - è stato sconfitto, sia militarmente, quanto, soprattutto, politicamente". Non esiste più un problema di "lotta armata" tale da giustificare lo stato di emergenza, ma da questo stato è impossibile uscire: "non perché sia ancora vivo il pericolo del recente movimento di lotta armata, ma perché -è bene ripeterlo - non è possibile uscire dall'emergenza della crisi dell'attuale società, che ormai irreversibilmente scivola sempre più velocemente verso una nuova generalizzata guerra imperialista. 1 compagni colpiti non sono tali perché considerati la longa manus del terrorismo all'interno dei movimenti di massa; non sono colpiti in quanto "residui" di un movimento passato. Tutti questi compagni sono stati colpiti dalla repressione di stato in quanto organizzatori potenziali delle lotte di domani e, particolarmente, data la natura della soluzione borghese della crisi (la guerra), della lotta disfattista e rivoluzionaria dei proletariato. Non sono stati colpiti dei compagni in quanto "pacifisti". Sono stati colpiti dei compagni in quanto disfattisti antiborghesi e comunisti rivoluzionari".
Ovvero, da un punto di vista marxista: "quale difesa delle iniziative, dell'esperienza politica ed organizzativa sviluppatasi sul terreno del "ritiro delle truppe italiane dal Libano?"".
Il documento fattoci pervenire sottolinea, qui, in modo estremamente energico, che non si tratta di seguire la linea del riflusso del movimento, mettendosi alla sua coda, ma che "il proletariato (anche e soprattutto in queste fasi di provvisorio "arretramento", n.) ha bisogno di ritrovare fiducia in se stesso e di ritrovare fiducia nelle organizzazioni comuniste rivoluzionarie; esso ha bisogno che, nei momenti di riflusso, di una determinata lotta, i comunisti non si abbandonino alla disperazione; ha bisogno che, nei momenti in cui lo Stato svolge la propria azione repressiva, i comunisti sappiano resistere nel difendere lo spirito delle lotte di ieri, facendo così da "ponte" con le inevitabili lotte di domani. ( ... ) Date queste premesse, la difesa delle lotte passate e, quindi, la difesa di quei compagni colpiti dalla repressione proprio perché hanno preso parte in prima persona a quelle lotte, non può collocarsi sulla base dell'attuale e contingente livello di coscienza che il movimento ha di se stesso".
Sì, "quel movimento specifico - nel tempo e nello spazio - è provvisoriamente rifluito, ed oggi "rimane in piedi solo un "movimento di avanguardie" diviso e frammentato", ma "ciò non toglie che i comunisti rivoluzionari non siano esentati dal dare una risposta precisa e che si differenzi politicamente da ogni impostazione ideologica, politica ed organizzativa che scivoli sul terreno borghese, anche se "da sinistra"". Il che, a sua volta, "non significa volere la divisione dei pochi proletari disposti a scendere su di un eventuale terreno di iniziative immediate; significa solamente lavorare sin da subito affinché un possibile movimento proletario si sviluppi (...) in nome della difesa dei propri ed esclusivi interessi e della difesa di quei compagni che per questi comuni interessi si sono battuti".
"Chiarire la propria volontà di porsi su un terreno piuttosto che su un altro non significa rifiutare la difesa di tutti gli arrestati, bensì collocare tale difesa su una base politica classista. (. ..) L'unica risposta che sappia collocarsi su di un piano proletario, che sappia evitare le secche di un pacifismo piccolo-borghese (. ..) è la riproposizione di quell'impostazione politica che quotidianamente emergeva due anni fa e che è possibile brevemente sintetizzare, senza paura di ripetere cose già dette, come segue: 1) natura imperialistica ed azione di guerra dei contingente italiano, con la sua presenza di "pace" a Beirut; 2) natura proletaria e classista, oggettivamente disfattista-antiborghese, della lotta per il ritiro di quelle truppe".
"C'è una differenza abissale, dunque, fra chi vuole ricordare e difendere la natura squisitamente classista di quell'esperienza e chi, invece, la considera "una delle tante" lotte avvenute sul terreno ai un generico antimilitarismo e pacifismo". Non si tratta della difesa di "pacifisti" generici o, meglio, di un'azione "pacifista", ma "va richiesta una difesa - anche alle sole avanguardie, se per il momento non è possibile richiederlo ad un reale movimento di proletari - non tanto per quello che i compagni pensano di essere, ma per quello che di fatto - oggettivamente e, come è già stato detto, in parte soggettivamente - essi hanno fatto per quel movimento".
La questione della difesa dei compagni oggetto dell'inchiesta Mastelloni può essere impostata in due modi diversi, a seconda che si scelga l'una o l'altra delle due impostazioni seguenti: "1) difendere le lotte passate e future per cui quei compagni sono andati in galera e, quindi, senza piagnistei, fare tutto quanto è possibile per essi; oppure: 2) difendere a qualsiasi costo i compagni in carcere e quelli fuori dal carcere barattando, se necessario, il proprio percorso politico e la propria volontà di distinzione netta e contrapposta a tutto l'ordinamento borghese".
La plausibile - anche se non sempre scontato -, sottolinea il documento del compagno, che una difesa dei secondo tipo potrebbe "convincere la borghesia ad essere un po' più "morbida" nei confronti di chi ha partecipato a lotte passate", purché, ovviamente, essi, e chi per essi dal di fuori, accettino di mettere una pietra sopra quelle lotte e soprattutto sopra la prospettiva di una loro riedizione futura. Ed effettivamente varie "avanguardie", tacendo il secondo aspetto della questione, passano a propagandare le mirabolanti possibilità di "difesa dei compagni" che si aprirebbero attraverso l'uso di un' "accorta tattica".
Si tratta, però, solo di una "tattica" giudiziaria, ininfluente sui percorsi politici? E questo che il documento smentisce con chiarezza. Cosa dire, ad esempio, dell'affermazione, avanzata da certi settori, secondo cui "tutta l'inchiesta evidenzia la palese contraddizione fra teoria democratica e prassi democratica" e "se la Costituzione non è una finzione ( ... ) applicando il ragionamento dei democratici, vi dovrebbe essere libertà di associazione, stampa, pensiero"?
Questa dissociazione teoria-prassi "dimentica" che, come un tutto, "la borghesia permette ogni libertà, escludendo quella che va a ledere i propri interessi", in linea di teoria e di prassi. Vedere una contraddizione dove vi è pura consequenzialità "è, nella migliore delle ipotesi, una pura scempiaggine". Ma c'è di peggio: partendo dal presupposto che la Costituzione è "lespressione di determinati rapporti di forza fra le classi in una precisa fase storica", il compagno si chiede se si intende dire che col "modificarsi di tali rapporti di forza (magari spostabili attraverso la "rivendicazione" di un'armonizzazione della prassi alla teoria democratica.... n.), la Costituzione diviene modificabile, fino magari ad un possibile "uso proletario" della Costituzione stessa. Ed inoltre: i comunisti "rimangono sempre (?) comunisti, anche se in determinate fasi essi sono "costretti" ad essere, nei fatti, più democratici dei democratici"? Una tale idea "ricorda un po', a dire il vero, la concezione staliniana della rivoluzione (oggi, in tempi di "rinnovamento", si direbbe: movimento) "per tappe"".
"Al di là di ogni chiacchiera, considerare elemento politico caratterizzante nella lotta alla repressione la contrapposizione fra teoria democratica e la prassi democratica, la contraddizione fra le affermazioni di principio e la pratica sociale della borghesia, significa nei fatti non fare alcun lavoro politico ed organizzativo finalizzato alla rottura -in qualunque luogo e presso qualunque strato proletario, anche se, per il momento, numericamente ininfluente - di quell'unitarismo interclassista che al massimo può riuscire a contrapporsi ora a questo ora a quel settore della borghesia, mai alla classe borghese nel suo insieme ed al suo apparato di dominio, lo Stato".
La linea di scivolamento, seguendo questa via "tattica", è materialmente segnata, al di là di ogni intenzione di "rimanere sempre comunisti" (per proprio conto, cioè... nella propria testa).
Posta una tale direttrice "tattica", infatti, "è assolutamente inconcepibile di poter lavorare sul terreno della democrazia senza venire a patti con i partiti che della democrazia (e, dunque, della società borghese) hanno fatto un principio. Ed è su questo terreno, date queste premesse, che diventa inevitabile il passaggio da un lavoro politico indipendente alla funzione di lumicino di questi stessi partiti istituzionali "democratici'". Gli obiettivi "concreti" che si porrebbero, dei tipo "fine dell'emergenza e delle leggi speciali" ("prescindere dall'impossibilità di uscire dall'emergenza", richiamerebbero un'altra questione: "in quale ambito politico potrebbe essere sancita l'abolizione delle leggi speciali?". La risposta è chiara: l'ambito istituzionale, rafforzatosi nella sua funzione di controllo e dominio "democratico". "Per tappe", il cammino sarebbe il seguente: A) lotta sul terreno democratico, 2) rapporti con le forze istituzionali democratiche, 3) intervento sul piano legislativo-parlamentare, 4) appoggio a quelle forze che efficacemente possono intervenire in tale ambito e, per concludere, 5) in caso di elezioni, appoggio ai partiti "democratici" ("governo delle sinistre", "PCI al governo", ecc.)".
E chiaro che chi si tiene sul versante opposto, della difesa dei compagni in linea coerente col significato e le prospettive delle lotte proletarie di ieri, di oggi e di domani, non ha al momento formule magiche da agitare per lo smantellamento dell'operazione repressiva dello Stato (come non le ha neppure qualsiasi "tattica" spericolata sull'altro versante, se non - e parzialmente - - a prezzo di un'operazione attiva di dissociazione dalla lotta di classe stessa!). L'unica soluzione "prospettica", ma sin d'ora impegnativa, sta nel "ritessere una linea politica ed organizzativa interna alla classe (e per la classe), che passi fisicamente attraverso i proletari e gli operai più sensibili"; sta nel "lavoro di organizzazione che con umiltà sappia ripartire "da zero", per un movimento che non sia solamente il "movimento delle avanguardie", ma un reale movimento di classe ( ... ) che miri fin dall'inizio alla distruzione dell'attuale società borghese: democratica e/o antidemocratica".
Ed è precisamente da qui, dalla verifica di questa saldatura tra teoria e prassi comunista, tra lavoro di avanguardia e lavoro nella/per la classe - concludiamo noi - che può e deve essere rilanciata l'azione contro la repressione borghese, parte indissociabile della prospettiva proletaria della propria affermazione di forza sopra e contro la borghesia.