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MUCCHE PAZZE O CAPITALISMO IMPAZZITO?


Indice


In questo scorcio di fine millennio la vicenda della "mucca pazza" è una buona metafora del grado di degenerazione raggiunto dai rapporti di produzione capitalistici e ci richiama all’urgenza, oltre che alla maturità, di una trasformazione in senso comunista dei rapporti sociali.

Che il capitalismo non potesse, per sua intrinseca natura, sfamare l’umanità lo avevamo appreso dalla critica radicale fatta da Marx alla legge dell’accumulazione e della moderna rendita capitalistica, ma ce lo hanno anche confermato due secoli di storia, in cui il progressivo sgretolamento delle economie di sussistenza, ha prodotto la diffusione della fame endemica per la stragrande maggioranza delle masse povere ed oppresse del mondo. Queste ultime sono al massimo destinatarie di pelosi aiuti più o meno umanitari che, quando non servono a piazzare derrate scadute e oramai invendibili, servono a creare il terreno per la penetrazione delle merci occidentali nei mercati locali e a garantirsi condizioni di rapina e di supersfruttamento per ripagare gli aiuti così generosamente concessi. Senza contare le crisi periodiche che sconquassano il capitalismo mettendo in discussione persino nelle presunte affluenti metropoli la possibilità per il proletariato di soddisfare i più elementari bisogni alimentari.

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Allevamenti di... profitti.

Ma, la ricerca del massimo profitto, e la concorrenza, producono effetti disastrosi anche quando sembrano garantire l’accesso di massa ai prodotti alimentari più nutrienti. La fettina di carne ad un prezzo relativamente accessibile anche per le tasche proletarie ne rappresenta solo l’esempio più clamoroso. Gli allevamenti intensivi, diventati delle vere e proprie catene di montaggio per produrre carne, sottostanno alle stesse identiche leggi delle altre fabbriche: massimo utilizzo degli impianti, massima produzione nel più breve tempo possibile, privilegio della forma e dell’immagine del prodotto a discapito della sua sostanza, etc.. Il tempo di crescita dell’animale, dalla nascita alla macellazione deve essere ridotto al minimo possibile. Ecco allora affermarsi tutti i sistemi che, forzando i ritmi biologici naturali, consentono di accelerare la crescita e di far raggiungere all’animale il peso ottimale in pochissimo tempo. La stampa, sotto l’impulso della grande preoccupazione suscitata dalla vicenda mucca pazza, ci ha ricordato alcuni di questi metodi: somministrazione di anabolizzanti ed estrogeni per gonfiare la carne, antibiotici e induttori della crescita. Anche se l’aspetto che più ci fa incazzare è il vedere la fettina ridursi a vista d’occhio mentre la cuciniamo, l’effetto più pericoloso di un prolungato consumo di carne prodotta in questo modo consiste nel favorire la diffusione di tumori, squilibri endocrini e impotenza sessuale. Ci sono allevamenti dove il bestiame non tocca mai terra per non fargli consumare energie e farlo ingrassare prima, mentre la stragrande maggioranza dei bovini che arriva sulle nostre tavole non ha mai visto un filo d’erba poiché viene alimentata solo con prodotti chimici, meno costosi del pascolo e del fieno, e con effetti "miracolosi" sui processi di crescita. Per dare un colorito chiaro alla carne dei vitelli, questi vengono alimentati prevalentemente a base di latte. Il consumatore pagherà di più per questo prodotto ricercato e sarà contento di trovarsi nel piatto carne più bianca ma mangerà una fettina anemica e priva di altre sostanze essenziali all’alimentazione. Per aumentare la produzione di latte viene somministrata alla mucche una sostanza ormonale, la somatropina, che produce malattie collaterali, come la mastite, che sono poi essere curate con massicce dosi di antibiotici, trasferiti in buona parte del latte che viene consumato dagli essere umani; questi antibiotici a loro volta riducono le resistenze dell’organismo umano a varie malattie compresi alcuni tipi di cancro.

Ma, il massimo di aberrazione lo si è raggiunto nell’alimentazione dei bovini con carcasse di altri animali che sembra essere la causa principale della diffusione della Bse (encefalopatia spongiforme bovina, detta appunto morbo della mucca pazza). In pratica si è trasformata una specie animale costituzionalmente da sempre erbivora in carnivora. Probabilmente la Bse è solo la conseguenza più eclatante dello stravolgimento introdotto nella alimentazione dei bovini. Del resto fino a quando non si è cominciato a sospettare che la Bse poteva avere effetti anche sui consumatori di carne bovina, producendo la malattia di Creutzfeldt-Jakob (Cjd) con caratteristiche simili a quella riscontrata nelle mucche, non si è nemmeno pensato lontanamente di interdire questo tipo di alimentazione negli allevamenti bovini. Anzi è oramai riconosciuto che la larga diffusione della Bse, che rappresenta la trasformazione di una malattia simile presente nelle pecore con cui le mucche vengono alimentate, chiamata Scrapie, sia dovuta alla deregulation sfrenata introdotta dalla Thatcher anche in questo settore. Per risparmiare ulteriormente sui costi di produzione si è consentito alle ditte produttrici di mangimi contenenti scarti di altri animali di trattarne le carcasse a temperature più basse a cui la proteina, probabile veicolo della malattia, è in grado di resistere.

Il settore bovino non è il solo ad essere investito da tali processi degenerativi: i polli, i maiali, gli agnelli o i pesci con cui ci alimentiamo conservano della loro specie solo l’aspetto fisico poiché per il resto sono il frutto di tecniche di manipolazioni genetiche, di allevamento e di conservazione che ne fanno un pericolo per l’alimentazione umana. Né è da credere che i vegetariani se la passino meglio poiché anche in questo campo la produzione capitalistica fa sentire tutti i suoi mortiferi effetti. La possibilità di mangiare frutta e verdura di ogni tipo in qualsiasi stagione, l’aspetto lucido e accattivante dei prodotti vegetali è ottenuto a totale discapito del loro potere nutrizionale e imbottendoli di mefitici veleni, veicolo di pericolose malattie per il genere umano.

Altro che mucche pazze, qui ad essere impazzito è il sistema capitalistico che, nel disperato tentativo mantenere alta la valorizzazione del capitale, non si arresta di fronte a nessun crimine, non solo nello sfruttamento della classe operaia, ma anche nei confronti della specie umana. Per gli imprenditori produttori di carne le mucche rappresentano solo una merce con valore di scambio dalla cui vendita ricavare un capitale superiore a quello investito; che per il consumatore rappresenti soprattutto un valore d’uso attraverso il quale garantirsi la sopravvivenza è per essi un puro accidente. Le conseguenze che il consumo del loro prodotto può causare gli è totalmente indifferente, salvo quando, come in questo caso, il valore d’uso si prende la sua momentanea rivincita e fa paurosamente calare le vendite. Ma tutto ciò non potrà certo fermare l’inarrestabile corsa verso la ricerca del massimo profitto e gli effetti che ciò produce nella sofisticazione degli alimenti. Per ristabilire la fiducia degli acquirenti sarà anche possibile arrivare alla distruzione massiccia dei capi colpiti dal morbo, accollandone ovviamente le spese allo stato, così come forse si vieterà definitivamente l’uso dei mangimi contenenti i resti di altri animali, ma non si bloccherà la sperimentazione di nuovi metodi e nuove sostanze in grado di ridurre i costi di produzione.

Le multinazionali agroalimentari e quelle chimiche-farmaceutiche hanno raggiunto un livello di concentrazione incredibile e controllano in maniera monopolistica la produzione ed il commercio in questi settori. Ciò consente loro di operare a scala internazionale spostando la produzione nei paesi dove i controlli e le leggi sono più permissivi, per poi trasferirli ovunque nel mondo. Tramite le triangolazioni operate sul mercato mondiale è praticamente impossibile ricostruire tutta la trafila di una merce e risalire al modo in cui è stata prodotta. Anche volendolo i coltivatori e gli allevatori non possono scegliere cosa e come produrre. Basti pensare al controllo monopolistico dei semi, che ha portato alla scomparsa quasi totale dei ceppi originari delle piante, per cui attraverso la diffusione degli ibridi si possono riprodurre solo alcuni tipi di prodotti vegetali che a loro volta per sopravvivere hanno bisogno di trattamenti con prodotti chimici particolari, controllati dalle stesse multinazionali o da loro associate. Chi volesse ostinarsi a produrre con i vecchi metodi, ammesso che sia ancora possibile, non potrebbe avere le rese dei concorrenti e si troverebbe in breve tempo falcidiato dalle implacabili leggi del mercato.

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Capitalismo=saccheggio della natura

Comunque la si rivolti questa vicenda risulta essere una inevitabile conseguenza delle leggi del dominio capitalistico, giunto oramai al suo punto di massima putrescenza. I rapporti di produzione borghesi hanno dato un decisivo impulso allo sviluppo delle forze produttive e alle conoscenze tecnico scientifiche, anche se da sempre essi hanno comportato il saccheggio e lo stravolgimento della natura e la degradazione del lavoro umano, che sono le fonti di ogni ricchezza. Questa contraddizione, inevitabile ed ineliminabile stanti gli attuali rapporti di proprietà, ha subito un’accelerazione mano a mano che il modo di produzione capitalistico affermava il suo dominio nei vari campi della produzione e della riproduzione sociale e si diffondeva in ogni angolo del pianeta: il giganteggiare della produzione e l’enorme sviluppo delle forze produttive sono direttamente proporzionali ai guasti prodotti nei confronti della natura e al grado di sfruttamento e di alienazione del lavoro. Nella sua corsa impazzita per la sopravvivenza ad ogni costo degli attuali rapporti di produzione il capitalismo provoca disastri ambientali, veri e propri massacri della natura che, se non fermati per tempo, diventeranno irreversibili, mettendo in discussione la stessa possibilità di un ulteriore sviluppo equilibrato della specie umana. Basti pensare all’urbanesimo demenziale che caratterizza l’attuale società, al non meno sciagurato fenomeno dell’inquinamento provocato da tanta inutile produzione e dal trasporto di massa individuale, alla manomissione incosciente delle specie vegetali ed animali.

La contraddizione tra produzione sociale della ricchezza e appropriazione privatistica dei suoi risultati non si manifesta solo nei fenomeni di crisi economiche dagli effetti sempre più disastrosi, nei conflitti mondiali tra i vari schieramenti imperialisti, ma anche nel tipo di produzione che si privilegia e nel modo in cui si produce. Siccome il capitalismo non esiste per soddisfare i bisogni genericamente umani, ma solo i bisogni solvibili, succede che la polarizzazione della ricchezza determinata dallo stesso capitalismo provoca lo sviluppo di produzioni assolutamente inutili o distruttive, mentre buona parte dell’umanità non riesce a soddisfare i più elementari bisogni per la sopravvivenza. Ecco allora il perché della produzione di micidiali armi che, se utilizzate, farebbero scomparire la vita dalla crosta terrestre, ecco perché i nostri supermarket sono inondati di cibo per animali domestici oppure perché si mandano al macero tonnellate di frutta e verdura per mantenere alti i prezzi di mercato mentre milioni di persone muoiono letteralmente di fame. Siccome scopo principale del capitalismo è quello di valorizzare al massimo il capitale esistente, non è possibile per la singola azienda decidere di utilizzare maggiore tempo di lavoro per produrre un bene ritenuto essenziale per l’umanità, ma al contrario è necessario ridurre al minimo possibile il tempo di lavoro vivo e morto in esso incorporato, ridurre al minimo il tempo di circolazione del capitale investito. Ecco perché gli animali vengono gonfiati nel più breve tempo possibile, perché vengono imbottiti di velenose sostanze ed infine perché la frode e la sofisticazione diventano connaturati alla produzione e al commercio capitalistico.

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Il riformismo ecologico è, al meglio, inconcludente.

Negli ultimi decenni il fenomeno dell’inquinamento ed in generale le conseguenze dell’intervento capitalistico sulla natura hanno prodotto una sensibilità diffusa, soprattutto nelle metropoli capitalistiche ed in determinati settori di classi medie. Il guaio è che nella maggioranza dei casi questo movimento sa denunciare gli effetti prodotti da una manomissione dissennata della natura, ma non riesce mai ad individuare le vere cause generali da cui originano questi fenomeni. Ne deriva una continua oscillazione tra proposte utopistiche-reazionarie e una strategia di "riformismo ecologico" fatta di una serie di provvedimenti che, secondo questa tendenza, potrebbero combattere il degrado ambientale e lo scriteriato intervento sulla natura, senza però attaccare alla radice il potere di classe ed i rapporti di produzione borghesi.

Non potendo e non volendo vedere l’origine di classe del degrado ambientale, i movimenti ecologisti propongono una via inconcludente contro l’inquinamento sia perché non ne individuano le radici sociali e sia perché, le due cose son legate, danno una caratteristica completamente interclassista al loro movimento, ritenendo che "tutti gli spiriti liberi" e "tutte le coscienze critiche" sono parimente interessate a combattere la rovina della natura. Non è un caso se queste tendenze hanno finito per assumere una connotazione politica sempre più ambigua che, assolutizzando la questione ambientale, li ha portati ad alleanze "trasversali" che spaziano dalla Chiesa alle forze di destra. Spesso, a causa di questa assolutizzazione, il movimento ecologista ha assunto il ruolo di punta di lancia rispetto ad attacchi padronali contro insediamenti operai, scagliati in nome della pericolosità ecologica di quelle fabbriche.

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Solo il comunismo può fermare il capitalismo impazzito

Ma, se è vero che i delitti contro la natura commessi dal capitalismo possono spingere soggetti di varia estrazione sociale a battersi contro di essi, è altrettanto vero che ciò può avvenire in maniera conseguente solo incardinandosi ad un programma di classe che, nel mentre denuncia e lotta ogni effetto degenerativo dell’uso capitalistico della natura, lavori al rafforzamento dello schieramento e della lotta anticapitalistica fondati sul proletariato, poiché questa rappresenta l’unica prospettiva, per abbattere l’attuale potere di classe e mettere fine al sempre più inumano e contronatura sistema capitalistico.

Senza eliminare a scala planetaria la produzione amministrata per aziende, sia pure di dimensioni transnazionali, senza il superamento della distribuzione per mezzo dello scambio mercantile e monetario, sia per i prodotti che per la forza lavoro umana, non sarà possibile dare vita ad un piano unitario e cosciente di riproduzione della specie in una sola grande associazione produttiva. Solo in questo modo si potrà arrivare al controllo mondiale delle risorse e ad instaurare un rapporto organico tra uomo e natura. Una natura da trattare in maniera razionale e consapevole come condizione ineliminabile di esistenza e di riproduzione della catena delle generazioni umane, che la hanno non in proprietà, ma in usufrutto e con l’impegno di tutelarla "come boni patres familias" per trasmetterla migliorata alle future generazioni.

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