Mentre la direzione del Pds cerca di combattere la destra fagocitandone programmi e rappresentanti, Rifondazione si propone di farlo preoccupandosi di custodire la propria distinta identità. Un proposito giustissimo. Ma su quale base il vertice del Prc cerca di fare questo? Sulla base della riconferma del patto di desistenza con un Ulivo nel frattempo allargato a Dini. Sulla base, quindi, di un'impostazione che porta alle stesse nefaste conseguenze della politica di D'Alema. Su questo chiamiamo i compagni di Rifondazione a una cruda riflessione.
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O parlamento o... muerte!
I dirigenti del Prc dicono: se non facciamo questo patto, accadrebbero due cose esiziali. Da un lato ci sarebbe la vittoria elettorale delle destre e una "minaccia grave per la democrazia". Dall'altro lato si ridurrebbe al lumicino la rappresentanza parlamentare comunista. Mettete insieme i due addendi, concludono, e otterrete un funerale, giacché non ci sarebbe più la possibilità di una rappresentazione del conflitto sociale sul piano politico. Se facciamo il patto, invece, impediamo l'una e l'altra cosa e salvaguardiamo la possibilità di dar voce ai bisogni del proletariato: "la situazione del paese -spiega Bertinotti- sarà più aperta".
Un ragionamento del genere è davvero una ricetta per il naufragio.
Anzitutto: l'esperienza del governo Dini (sulla riforma delle pensioni) ha dimostrato che, anche se il Polo è fuori dall'esecutivo, può poi passare, sia pur con qualche zuccherino, la stessa politica economico-sociale-istituzionale di Berlusconi. Quindi la lotta contro la destra non si esaurisce certo con il tenerla fuori formalmente dal governo. Comporta innanzitutto la ripresa dell'iniziativa di classe anti-capitalista e di un programma conseguente che ne sia l'anima. Ma il patto di desistenza favorisce od ostacola questa ripresa? Favorisce od ostacola la capacità di Rifondazione di raccogliere positivamente il disincanto e la rabbia delle masse proletarie?
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Da cosa si desiste?
Noi crediamo di no. Perché la logica del patto di desistenza porta con sé come conseguenza pressoché automatica l'immobilizzazione delle forze proletarie. Nei mesi scorsi ci sono stati al riguardo due episodi assai istruttivi: la campagna di autunno e la manifestazione degli immigrati del 3 febbraio a Roma.
La prima, malgrado le frasi scarlatte, non è mai partita. Certo non poche sono state le difficoltà oggettive. Ma come mai Rifondazione non è stata capace neanche di valorizzare e far convergere quelle lotte contro i licenziamenti che pure ci sono state, al Nord come al Sud, e che pure vedevano impegnato il fior fiore delle sue avanguardie proletarie? Come mai, inoltre, il 3 febbraio Rifondazione non è stata "accanto -come ha riconosciuto lo stesso Bertinotti- a decine di migliaia di immigrati mentre manifestavano le loro inquietudini, la loro rabbia, la loro speranza"?
Ciò è accaduto perché la direzione del partito ha avuto il timore che una reale iniziativa per la tessitura dell'unità di classe potesse creare ostacoli all'accordo con l'Ulivo. Il che mostra per l'ennesima volta che la via elettoral-parlamentare e quella della battaglia anti-capitalistica non sono strade percorribili insieme, ma due percorsi divergenti e opposti.
La controprova si è avuta subito dopo, con la manifestazione del 24 febbraio. Era stata presentata dai dirigenti e vissuta dai militanti come un rilancio (anche autocritico rispetto alla campagna fantasma di autunno) dell'iniziativa di partito. E' bastato l'annuncio delle elezioni perché la manifestazione cambiasse tono, diventando una mobilitazione di partito sì, ma per "contare" di più nel mercato anti-partito e anti-proletario dell'Ulivo. Si è messa la sordina agli obiettivi più classisti, la cui conquista è stata comunque affidata alla raccolta di firme, ai risultati elettorali e non all'unico mezzo efficace, la mobilitazione di classe. Nello stesso tempo è stata portata in primo piano la difesa del proporzionale (con le "realistiche" revisioni del caso per non rimanere isolati). Si è separata così la svolta reazionaria in atto dal suo contenuto di classe e ci si è ritrovati con interlocutori che super-proletari quali i popolari di Bianco e i verdi di Ripa di Meana.
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Una logica paralizzante
Non è difficile immaginare quali conseguenze avrà una politica di questo tipo in futuro quando l'eventuale governo democratico si scontrerà con le esigenze antagoniste del proletariato. Sarà intaccata la capacità dello stesso Prc di rimettere in moto sul terreno dell'azione diretta anche solo le proprie fila proletarie, dopo averle illuse e spostate tutte attorno al baricentro elettorale.
Sui militanti proletari peserà inoltre l'effetto paralizzante della tanto decantata "logica della desistenza". Sarà inevitabile per essi chiedersi: se facciamo un'opposizione come si deve (quindi extra-parlamentare!) al governo Prodi, non rischiamo di aprire le cateratte alla destra?
Certo, se dalle urne uscirà vincitore il Polo e sarà un governo di destra a essere incaricato della "terapia polacca" invocata dal FMI, è prevedibile (ma tutt'altro che scontato!) che possa aversi una maggiore disponibilità alla lotta, per lo meno nel senso che la "sinistra" politica e sindacale vi darà un maggiore apporto. Ciò non vuol dire che, in tale ipotesi, tutto sarà semplice o semplificato, in quanto le premesse da cui Rc parte la porterebbero, in un'interminabile via crucis, a ricostituire le condizioni delle "più ampie intese (a perdere) a sinistra" su un terreno non solo minimale, ma impraticabile, con tutto quel che ne consegue. L'esperienza del movimento di lotta contro Berlusconi sta a dircelo, se è vero che esso ha tratto risultati di molto inferiori alle forze messe in campo, arrivando fino al punto di riconsegnare tutta l'iniziativa politica alla destra.
Se non si vuole ripetere, in peggio, quella vicenda, si deve smettere di rispondere ai colpi dell'offensiva capitalistica sognando il "ritorno" a un modo di essere diverso del capitalismo (quello dei bei tempi affluenti) e al corrispondente meccanismo istituzionale (la repubblica del proporzionale); è invece indispensabile guardare in avanti, affrontando lo scontro che ci si prepara con la borghesia e il capitalismo sullo stesso terreno dell'avversario, opponendo forza a forza, classe a classe, organizzazione a organizzazione.
L'esatto contrario della politica di desistenza dei vertici del Prc. Come anche qualcosa di molto diverso dalla linea alternativa dell'opposizione interna, che non sa prescindere dalla difesa della democrazia e dalla presenza istituzionale dei comunisti, quale trampolino di lancio per la realizzazione del "programma anti-capitalistico" di cui si fa portavoce.
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Chi "egemonizza" chi?
Qualunque sarà l'esito delle elezioni, dunque, i dirigenti di Rifondazione stanno dando il loro contributo a ciò che il "buonismo" prepara per il proletariato: l'arrivo del "cattivismo" borghese, attraverso la smobilitazione del fronte di classe.
Tutto ciò non avviene a caso, dato che l'impianto di RC si fonda sullo stesso assunto togliattiano da cui muove D'Alema (democrazia progressiva e relativi compromessi interclassisti), con la differenza che la direzione del Pds va fino in fondo nel trarre le conseguenze social-scioviniste che oggi ne derivano. I vertici del Prc non si azzardano a tanto, ma non possono fare a meno di seguire le tracce lasciate dalla Quercia. Sia (come abbiamo visto in precedenza) sul terreno della concreta azione politica, sia su quello dei programmi più o meno immediati. Anche su questo versante la "logica della desistenza", anziché salvaguardare l'esistenza di una "sinistra antagonista" e la sua possibilità di contendere alla "sinistra moderata e compatibilista l'egemonia sul proletariato", trasforma Rifondazione sempre più in semplice ruota di scorta della "sinistra" borghese.
Non è certo un caso che, sullo sfondo di una ripresa fondata sull'ulteriore compressione del proletariato, Rc abbia messo da parte (anche formalmente) la tesi bertinottiana sulla fine dei margini riformisti e sia passata a un programma che, espunta la questione della transizione al socialismo, si limita a elencare una serie di sogni da realizzare "qui e ora" nel quadro di rinnovate istituzioni repubblicane. Rinnovate nel senso dell'accoglimento di tutte le esigenze che ha in proposito il capitalismo nazionale: dal federalismo all'introduzione di garanzie per dare maggiore stabilità alle coalizioni governative (il che, in assenza dell'espropriazione politica della borghesia -operazione tutt'altro che parlamentare!- vuol dire solo accentramento del proletariato e dell'intera società al potere impersonale del capitale nazionale e internazionale). Cosa c'è di diverso in tutto questo dal programma pidiessino, se non un minor grado di coerenza?
E' allora solo un fatto simbolico la sostituzione della falce e martello con l'icona progressista nei collegi in cui si attuerà la desistenza a vantaggio del candidato di Rifondazione, o non si dà il nome giusto a quello che è realmente RC e cioè "un partito radicale e riformista di sinistra"? Se ce ne fosse ancora bisogno, se ne può avere una contro-prova nel fastidio con cui Rifondazione guarda a tutto ciò che minaccia di turbare l'ordine (capitalistico!) internazionale.
Lo scontro tra Cina e Usa alle porte di Taiwan, le bombe di Hamas in Israele, l'insubordinazione di Iran, Sudan e Libia ai dettami occidentali, l'intervento russo in Cecenia, tutto viene percepito come un ostacolo per risolvere i problemi dei lavoratori italiana a scala nazionale. Una preoccupazione molto comunista, non c'è che dire! E a cos'altro ci si può aggrappare se si perde il riferimento a un alternativo sistema sociale, la fiducia nella propria forza di classe, se si smarriscono i propri veri alleati internazionali e si stringono alleanze con forze politiche e sociali extra e anti-proletarie? Se non si esce da questo pantano, è inevitabile rassegnarsi a riporre le proprie speranze in una disperata difesa e in un impotente tentativo di abbellimento del proprio giardino di casa. Ma compagni, sarà mai possibile contrastare (e non andiamo più oltre!) gli effetti "perversi" del capitalismo italiano senza prendersi carico della struttura internazionale del capitalismo imperialista (da cui consegue la struttura internazionale del movimento comunista)?