A chi, anche tra le fila del suo partito, gli rimprovera di trascurare le questioni sociali a vantaggio dei temi istituzionali, il segretario del Pds risponde affermando che "questione sociale" e "questione istituzionale" sono strettamente legate tra loro e che non si può affrontare la prima senza prendere per le corna la seconda. A qualche lettore potrà sembrare paradossale, ma lOCI condivide in pieno questimpostazione di DAlema.
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La questione del governo
I mille problemi quotidiani con cui sono costretti a fare i conti i proletari e le loro famiglie non possono essere affrontati senza prendere di petto il problema dei problemi: chi governa la società. Di più: i problemi sono così gravi che li può affrontare solo un governo efficiente, un governo stabile che non sia ostaggio dei mille appetiti corporativi che si agitano nella società, un governo che segua con fredda determinazione una rotta ben precisa.
Su questo, ripetiamo, DAlema ha perfettamente ragione. Si pongono, però, alcune domande. La prima è se la prospettiva indicata dal Pds permette al proletariato di mettere su un suo governo, perchè è di questo che si tratta, o no? Se permette, cioè, di accentrare il potere nelle mani di un esecutivo che assuma gli interessi dei lavoratori come suo asse politico. La risposta è negativa. L'asse politico di un governo dell'Ulivo sarebbe il risanamento dell'economia e il recupero della fiducia dei mercati internazionali, esattamente come le politiche governative degli ultimi 20 anni, che non hanno portato alcun beneficio alla classe operaia, ma l'hanno condotta di arretramento in arretramento.
Seconda domanda: è possibile rispettare le leggi del mercato e, contemporaneamente, promuovere il ruolo del "lavoro" nella società? Nella sua conversione liberale, il Pds assicura di non aver dimenticato la sua natura di "partito del lavoro", ma questa quadratura del cerchio diventa sempre più impossibile allorquando i mercati dichiarano senza mezzi termini la loro guerra al proletariato salutando con rialzi di borsa ogni massiccio annuncio di licenziamenti e con crolli verticali qualche timido segnale di ripresa dell'occupazione e dei salari (Newsweek del 26.2.96: "Più sono i licenziati, più la borsa è contenta").
Terza domanda. Pur ammettendo che non si vogliano rifiutare le "leggi del mercato", né che si voglia dare centralità al lavoro ai danni del profitto, sarà, almeno, possibile ottenere che un governo dell'Ulivo riduca la quantità di sacrifici ai danni dei lavoratori, distribuendoli "equamente" su "tutte" le classi sociali?
A ben vedere, l'impegno che il Pds e l'Ulivo si assumono nei confronti dei lavoratori è solo quest'ultimo. Essi, infatti, non dichiarano di voler fare gli interessi solo dei lavoratori, o quando lo dichiarano è perché intendono che gli interessi dei lavoratori si possono perseguire solo se le cose vanno bene per le aziende e per i profitti. Né dichiarano che per sostenere l'interesse dei lavoratori sarebbero disposti a violare anche solo una sola legge capitalista. Dichiarano, invece, di voler distribuire "equamente" i costi del risanamento. Ma possono garantirlo?
Una equa ripartizione presuppone o la disponibilità di "tutti" ai sacrifici, o un governo in grado di imporli a tutti con la forza. La disponibilità ai sacrifici manca da parte di ogni padrone di ordine e grado, per il semplice motivo che le imprese sono destinatarie non di sacrifici, ma delle risorse che con essi si liberano. Ma essa manca pure a tutto il "lavoro autonomo" e al commercio (piccolo, medio e grande) che, tanto per sciogliere ogni dubbio, ha dato avvio a una aperta campagna di mobilitazione contro le tasse.
Accantonata la disponibilità, non rimane che la forza. Vi ricorrerebbe l'Ulivo? Escluso, senza bisogno di leggere nella sfera di cristallo. Basta vedere come ha risposto il centro-sinistra ai fischi a Prodi dei commercianti di Torino: ingaggiando con la destra una gara a chi promette un più veloce e credibile abbassamento della pressione fiscale. Meno demagogicamente della destra? E sia. Ma se oggi gli promettono di ridurgli le tasse, potranno, domani, imporgliene con la forza un aumento?
D'altronde, in questo corteggiamento delle pulsioni anti-fisco dei ceti medi accumulativi, non v'è solo un motivo elettoralistico, ma, per il Pds, vi è un più solido motivo strategico: il consolidamento dell'alleanza con il "centro", che politicamente si riconosce in una frastagliatissima e destreggiante galassia di cespugli, socialmente è rappresentato proprio da questa massa di ceto medio. La paura che questo "centro" si radicalizzi verso destra, impedirà all'Ulivo e al Pds di imporgli la relativa quota di sacrifici, con ciò mandando a monte ogni "equità".
Per risanare l'economia e riconquistare la fiducia dei mercati non resterà, dunque, che scaricare sui lavoratori un'ulteriore massa di sacrifici. Potrà l'Ulivo farlo in modo indolore per le forze che raccoglie? Potrà una coalizione con dentro il Pds gestire con coerenza la manovra da 70 o 100 mila miliardi, che Unione Europea e FMI hanno messo in agenda per il '96/'97, ai danni di "stato sociale" e lavoratori?
Nel caso l'Ulivo non rispettasse i dettami dei mercati internazionali, ben difficilmente potrebbe resistere al governo. La borghesia "interna" e internazionale lo dimissionerebbe in un attimo, e il gioco ritornerebbe in mano alla destra, resa nel frattempo più aggressiva proprio dal fallimento del centro-sinistra. E qui si pone un ulteriore problema: la linea del Pds non serve a portare gli interessi dei lavoratori al governo, e neanche a garantire che l'attacco del capitalismo verso i lavoratori sia attenuato. Serve almeno a preparare una opposizione seria contro una destra destinata ad assumere una sempre maggiore aggressività anti-sinistra, anti-sindacale, in ultima istanza, anti-operaia?
Anche su questo punto la linea del Pds prepara la soluzione peggiore. L'assunzione degli interessi dell'impresa, dei profitti, del mercato come prioritari rispetto a quelli dei lavoratori produce anche un indebolimento del grado di coesione e di organizzazione dei lavoratori. La stessa continua rincorsa al centro si basa sulla depressione del protagonismo della classe operaia, sulla dismissione di quello che rimane della sua distinta organizzazione politica e la sua confluenza in una coalizione democratica all'americana.
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Demolizioni in corso
A fare da battistrada come al solito sono le regioni "rosse": in Toscana e in Emilia-Romagna il Pds è già passato alle vie di fatto nel chiudere le proprie sezioni (con corrispondente vendita delle sedi) e passare la mano alle strutture federative dell'Ulivo. Ma da Firenze e Bologna si vuole solo accelerare un percorso che ha già fatto dappertutto vari giri di boa. In un'inchiesta sul Pds un esponente della Quercia lombarda (Tito Magni, segretario regionale della FIOM) ha rilevato che "il partito nelle fabbriche è praticamente inesistente, è ridotto a un ruolo di testimonianza. Le sezioni non ci sono più, i temi del lavoro completamente delegati al sindacato. Sento il bisogno di un partito di sinistra, anche socialdemocratico, ma che metta al centro il lavoro e i lavoratori". "Il Pds è un guscio vuoto -denuncia un altro dirigente lombardo, Bonalumi, uscito dal Pds nella primavera scorsa- gli organismi dirigenti sono disattivati, le sezioni scompaiono (...). Forse, chissà, ci sarà uno scatto per le elezioni... Ma allora, che siamo, un comitato elettorale?" (da Il Manifesto, 27.1.'96). Lo stesso fatto che non sia successo un pandemonio (come sarebbe accaduto in altri tempi) per la fuoriuscita dal Pds di due dirigenti sindacali quali Cremaschi e Pedò, la dice lunga sullo stato del tessuto proletario militante incorporato nel partito: "è la logica conseguenza -commenta amaramente il segretario della Camera del Lavoro di Brescia- del partito leggero, l'iscrizione e la militanza critica non sono più considerati preminenti, neppure quella dei segretari delle CdL".
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A chi converrà la sbancatura?
La diminuzione dell'attività politica in proprio da parte dell'avanguardia proletaria che fa riferimento al Pds può certamente favorire la "pesca" elettorale al centro. Ma al prezzo di una diminuzione della forza reale di questa avanguardia nei posti di lavoro e nella società e di una caduta della influenza esercitata sulle stesse istituzioni. Con quale conseguenza? Se il proletariato fosse remissivo e disponibile ad accollarsi per intero i prezzi del "risanamento" del paese, i ceti medi avanzerebbero continue pretese verso di esso, e la grande borghesia sarebbe incoraggiata a continuare il suo martellamento anti-operaio e addirittura a fare i conti con il proletariato (e le "sue" stesse organizzazioni) definitivamente e frontalmente, passando la mano a una destra sciovinista e populista che avrebbe nel frattempo raccolto la rabbia e le frustrazioni di non limitati strati proletari.
Insomma: mossa dal desiderio di battere la destra e il suo disegno di riorganizzazione reazionaria e autoritaria della società e dello stato, la politica del Pds le spiana invece la strada attraverso la smobilitazione del fronte di classe. Che non si tratti di menagrame visioni di un pugno di estremisti puri e duri lo mostra, senza andare indietro nel passato (come pure sarebbe utile fare), quello che è successo negli ultimi anni negli altri paesi occidentali.
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Esempi parlanti
In Francia, il mitterandismo è stato licenziato dalle forze di destra, dopo che queste, attraverso di esso, avevano realizzato un decisivo indebolimento del fronte di classe (buon complice il "vetero" Pcf, oggi ripescato quale compagno di strada dal Prc). L'attacco capitalistico ha potuto così essere affidato a un governo più deciso e, nello stesso tempo, ha visto predisposte le basi per ulteriori spostamenti a destra con la consegna di interi strati proletari al Fronte Nazionale di Le Pen (diventato il primo partito operaio!).
In Spagna è accaduto lo stesso, con una borghesia "voltagabbana" che, non contenta dei benefici riscossi a piene mani da Gonzales, ha passato la mano al blocco di destra, ritenuto più affidabile nel compito, che oggi si impone, di aggredire direttamente il movimento sindacale. Non parliamo poi degli USA: qui il "sogno clintoniano" ha fatto da serra non semplicemente per il ritorno in forze della destra, ma per la sua radicalizzazione sia sul piano dei programma che su quello, ancor più decisivo, della mobilitazione sociale. E se essa non ha ancora sbancato, è solo perchè Clinton, fiutata la mala-parata, ha provveduto a fare varie sterzate a destra (sul fisco, la spesa sociale come anche sulla politica estera). Lo riferisce, sdegnato, l'inviato de l'Unità, ed è tutto dire.
E si potrebbe continuare, passando in rassegna i casi degli altri paesi occidentali. Rimandiamo la cosa ad altra occasione, limitandoci per ora a sottolineare il fatto che il movimento proletario degli altri paesi occidentali ha cominciato a prendere atto di queste amare esperienze e a predisporre le prime contro-misure.
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Guai ai proletari, se saranno "buonisti"!
Significativo è il caso degli Stati Uniti. Qui la parte organizzata sindacalmente della classe operaia, che finora aveva delegato la rappresentanza politica dei suoi interessi al partito democratico, ha avviato la costituzione di un Labor Party. Un organo ancora affiliato al partito democratico e basato su una piattaforma ovviamente riformista. Ma la cui costituzione rappresenta comunque una dislocazione in avanti di un settore di classe nella direzione di una distinta organizzazione politica degli operai e di una combattiva difensiva di classe.
Che questa esperienza del proletariato degli Stati Uniti ci sia di esempio e di lezione, compagni, per evitare di scendere fino in fondo negli abissi da cui il movimento proletario sta cercando di risalire, per abbandonare per tempo la fallimentare idea che per essere convenga farsi piccoli, che per vedere accontentate le richieste operaie anche solo all'interno del quadro capitalistico convenga essere ragionevoli e "buoni".
Pur nell'estremo imputridimento della politica "operaia" ufficiale, le basi per operare questa inversione non mancano. Lo provano ad esempio le resistenze di base, ma non solo di base, che ci sono state all'ipotesi Maccanico per la preoccupazione che l'intesa con la destra sarebbe stata inevitabilmente istituzionale e sociale. Sappiamo bene che queste resistenze, come anche il disagio prodotto da una campagna elettorale tutta sbilanciata al centro, non si traducono automaticamente in uno scatto in avanti.
Proprio per questo i militanti proletari più coscienti sono chiamati a reagire a questa corsa verso il baratro, battendosi per non disperdere il proprio grado di organizzazione sindacale e politica, e per un programma fondato esclusivamente sugli interessi del proletariato.