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ANCHE SE VINCERÀ L'ULIVO,
SUI LAVORATORI PIOVERANNO PIETRE.
PREPARIAMOCI ALLA BATTAGLIA, SENZA ILLUSIONI.


Indice


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In democrazia, decide il mercato, non il voto.

Per la terza volta in quattro anni, il "popolo" degli elettori è convocato alle urne. A stare al copione democratico, i vertici dello stato "ci" chiamano a decidere la composizione e la politica del nuovo parlamento e del nuovo governo. Ma si tratta di una finzione.

Da un secolo la classe capitalistica le sue decisioni fondamentali le prende fuori dalle assemblee elettive, il cui compito è semmai quello di confermarle ex post. E’ così anche questa volta. Il programma del futuro governo, sia esso del Polo, dell’Ulivo o di "unità nazionale", non sarà deciso il 21 aprile: è, per l’essenziale, già stato scritto.

La forza (sociale) che ne ha dettate le coordinate, non si presenta alle elezioni. Non è stata "eletta" da nessuno. Ma dall’alto del suo soverchiante potere economico (e quindi, politico), domina eletti ed elettori, parlamento e governo, centro-destra e centro-sinistra. E’ la forza dei mercati finanziari mondiali. Questi -per dirla con il finanziere Soros, un signore che ha qualche competenza in materia- "votano tutti i giorni", non ogni tot anni. E a differenza del voto dei comuni cittadini che conta zerovirgolazero, il "voto" dei mercati è pesante. Se è vero, parola ancora di Soros, che può "forzare i governi a adottare misure impopolari ma indispensabili" (Repubblica, 28.1.’95). Con annesse e connesse misure di riorganizzazione degli apparati dello stato in senso centralizzatore e disciplinante.

Piaccia o meno, così stanno le cose. In qualsiasi modo vadano le elezioni, i mercati finanziari (e il grande capitale di casa nostra) hanno già in serbo "impopolari" misure anti-proletarie da far varare al nuovo governo e al nuovo parlamento. I capi del FMI ed il governatore di Bankitalia sono stati già espliciti in proposito.

Ne prenda atto la classe operaia. E si prepari a dare battaglia ai provvedimenti in arrivo sul terreno suo proprio, quello della mobilitazione di massa organizzata e unitaria.

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Sacrifici al cubo

Gli attacchi sferrati negli scorsi anni dai governi Amato, Ciampi, Berlusconi e Dini sono poca cosa in confronto a quelli in arrivo. Se gli anni ’70 portarono sacrifici "semplici" e gli anni ’80 sacrifici al quadrato, gli anni ’90 portano con sè, con le prime guerre di un nuovo criminale ciclo capitalistico di distruzioni (Iraq, Somalia, Jugoslavia), sacrifici proletari al cubo. L’alluvione di demagogia e di fanfaluche di queste settimane, è naturale, farà di tutto per nasconderlo. Non si possono strappare consensi con l’annuncio di finanziarie da 70mila miliardi, né trascinare alle urne gli elettori delusi di entrambi i fronti, in un clima di lacrime e sangue.

E dunque lasciamo che a contarla chiara su quel che ci aspetta anche qui in Italia, siano, dalla Germania, il cancelliere Kohl e il capo degli industriali tedeschi, Murmann.

Il primo ha varato, a fine gennaio, un piano in cinquanta punti che prevede la riduzione del carico fiscale delle imprese; il taglio dei prepensionamenti, dell’assistenza sanitaria e dei sussidi di disoccupazione; incentivi alla flessibilità del lavoro; decurtazione del salario d’ingresso per i neoassunti; prolungamento dei contratti a tempo determinato; privatizzazioni, etc.

Il secondo, ai sindacati che hanno proposto (anche lì) un "patto per il lavoro", ha replicato in questo modo: la disoccupazione potrà essere ridotta alla sola condizione che il costo del lavoro diminuisca di almeno il 20%. E ha contro-proposto: per incominciare, allunghiamo di un’ora (non pagata) l’orario settimanale; congeliamo le gratifiche estive e natalizie; rinunciate al pagamento delle ferie straordinarie... (La Stampa, 11.3.’96). Il resto (dei sacrifici a senso unico), seguirà.

Altro che co-gestione ed "economia sociale di mercato" come alternativa europea al reaganismo! Il "modello tedesco" a cui guardano, ciascuno a suo modo, Prodi e parte della CGIL, Bossi e An, e che è un punto di riferimento anche per molti lavoratori, sta sempre più omogeneizzandosi a quello statunitense.

E se questa è la tendenza della borghesia che dirige l’economia più solida e forte di Europa; se una borghesia francese sempre smaniosa di grandeur ha deciso anch’essa, col piano Juppé, che è ancora in piedi nonostante il movimento di scioperi, di dire addio allo "stato sociale"; nulla di diverso o in contro-senso può succedere in un’Italietta che continua a mantenersi a galla solo ricorrendo al dumping della lira sottovalutata.

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Maastricht è il capitalismo in crisi.

Da dove viene questa inesauribile necessità di sacrifici per i lavoratori?

Viene, si sente dire spesso, da Maastricht. Rinegoziamo il trattato, si aggiunge, fosse pure con una (abominevole) intesa trasversale tra tutti i suoi oppositori, da An al Prc, e le cose andranno per il meglio. Maastricht, però, è solo un effetto. I suoi strangolatori parametri non sono stati scelti arbitrariamente dai burocrati della UE, meri funzionari esecutivi del capitale. Essi si limitano a registrare le richieste del mercato mondiale. E’ da lì, da un capitalismo che non riesce a superare la propria crisi, che viene la ininterrotta, feroce aggressione capitalistica al proletariato. Sono le leggi del mercato che comandano ai capitalismi europei, per poter restare competitivi, il violento abbassamento del valore della forza lavoro, ovunque e con ogni mezzo disponibile.

A queste forze che l’attaccano frontalmente, sul piano materiale e su quello politico, il proletariato non può sfuggire con manovre d’aggiramento. Deve affrontarle di petto. Rispondendo ad esse con la ripresa della propria iniziativa anti-capitalista. Con il rilancio del programma rivoluzionario di "uscita dalla crisi". Con la ricostituzione del partito di classe e del sindacato di classe.

Questa nostra posizione, lo sappiamo, è bollata come massimalistica, non realistica, non concreta. Ma quali risultati può vantare la politica della sinistra istituzionale, che si pretende realistica? Nient’altro che un seguito di risultati fallimentari, che lungi dall’evitare il peggio per la classe operaia, lo sta avvicinando.

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Soluzioni illusorie

Da vent’anni il proletariato italiano si trova di fronte allo stesso problema di fondo: la crisi generale del capitalismo mondiale. Ma, educato dal riformismo a ragionare in termini angustamente nazionali, continua a ricercare invano nel perimetro dell’Italia le cause del fenomeno e le possibili soluzioni. Soluzioni rigorosamente inter-classiste, che vadano bene per tutte le classi della nazione.

Ecco allora, di volta in volta, individuare la chiave del problema nei binomi (negativo-positivo) corruzione-moralizzazione, mafia-antimafia, proporzionale-maggioritario, centralismo-federalismo, e da ultimo in quello assistenzialismo-mercato, di schietta matrice pololiberista (1).

Ebbene: abbiamo avuto "Mani pulite" con record mondiali di audience; Craxi in esilio ad Hammamet; Pomicino in soggiorno (sia pur breve) a Poggioreale; un’anti-mafia (borghese) di qualità; una riforma elettorale in senso bi-polare maggioritario; una corsa sfrenata al federalismo; le prime privatizzazioni; un decennio di tagli liberisti a quei "lacci e lacciuoli" che in qualche misura legavano le mani al capitale. Eppure non s’intravvede neanche lontanamente la fine del tunnel dei sacrifici. Anzi, la Confindustria avvisa: siamo appena all’inizio della "riforma sostanziale" del welfare state. E la "progressista" Banca d’Italia di suo aggiunge: i salari debbono restare al palo, cioè regredire. Come l’intera condizione operaia. Non solo non siamo fuori dalla crisi del capitale, ma la crisi, l’arretramento, lo schiacciamento politico e la divisione del mondo del lavoro si aggravano di giorno in giorno. A tanto ha portato la politica "riformista" di subordinare gli interessi dei lavoratori alle compatibilità delle imprese e della nazione.

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Interessi inconciliabili, scontro inevitabile.

Il fatto è che la crisi che la borghesia sta scaricando addosso al proletariato non è italiana, è internazionale. E non se ne uscirà né con presunte soluzioni "italiane", né -meno ancora- con misure che vadano bene a tutte le classi coinvolte, i cui interessi sono inconciliabili. Non a caso, la via che sta percorrendo la borghesia italiana è l’inversa di quella soft e "concertativa" sperata dalla "sinistra". America e Asia "ci" incalzano? Per batterci ad armi pari contro i nostri concorrenti (ed i lavoratori!) americani e asiatici, dicono i padroni, dobbiamo il più ed il prima possibile "americanizzarci" e "asiatizzarci". Ovvero: dovete, voi operai, "americanizzarvi" ed "asiatizzarvi".

Nel contesto d’un’economia mondiale sempre più integrata e dilaniata dalla competizione tra capitali la sola soluzione capitalistica alla crisi è, in effetti, questa spirale universale di intensificata spremitura e oppressione del lavoro salariato, questa irrefrenabile corsa allo scontro -infine anche bellico- tra capitalismi nazionali. Processi provocati, "voluti" proprio dal tanto celebrato mercato. Vittima predestinata: il proletariato di tutto il mondo.

No, non c’è nessuna possibilità di salvezza comune del capitale e del lavoro. La salvezza dell’uno è necessariamente l’affondamento dell’altro. E non c’è nessuna consultazione elettorale che potrà spostare di un’acca i termini della questione.

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Il capitalismo non è riformabile.

Bisogna togliersi dalla testa che il mercato, che è come dire il capitalismo, specie in una fase di così profonda crisi, sia libero di fare questo e quello. Il mercato è regolato da ferree leggi inscritte nel suo codice genetico, che non sono affatto riformabili. La prima delle quali è la legge antagonistica e anarchica (non solidale, né prodianamente trasformabile in senso solidale) del profitto. E questa legge non è mai stata tanto tirannica quanto lo è nell’era del capitalismo stramaturo e putrescente.

Si consideri l’ultima ripresa. Da tre-quattro anni sono in aumento la produzione lorda, l’indice di produttività, i profitti industriali e soprattutto quelli borsistici e finanziari. Ma l’occupazione è stagnante, o in calo; il 90% dei nuovi posti di lavoro sono sotto-pagati, al nero; i salari perdono potere d’acquisto; i carichi di lavoro toyotisti sono massacranti. Anche gli "esperti" borghesi ammettono che queste saranno delle costanti del futuro. Il conflitto tra carattere sociale della produzione e carattere privato dell’appropriazione non è mai stato oggettivamente altrettanto acuto (con ovvie conseguenze sulla stessa forma dello stato).

"Benessere economico, malessere sociale": la formula è stata coniata da Galbraith per gli USA, dove il 60% della popolazione -150 milioni di persone- ha riserve monetarie nulle o è indebitata, il 15% è al di sotto della soglia ufficiale di povertà, il 48% dichiara di avere avuto (o di avere) disturbi psichici, ciò che riflette la crescente ansia per il futuro di una vastissima parte della società. Ma questa formula è valida ben al di là degli USA. E’ sempre più valida, ad esempio, per l’Italia d’oggi. Benessere del capitale, malessere del lavoro. E, aggiungiamo, crescente totalitarismo nell’esercizio del potere politico di classe. Ciò, nel mezzo di un periodo di crescita economica. Cosa avverrà quando sarà di ritorno la recessione?

Altro che "rinascimenti italiani" alla Dini, o nuovi New Deal kennediani alla Veltroni, o primaverili fioriture di milioni di posti di lavoro alla Berlusconi! Tutte fregnacce.

Il capitale non sa e non può risuscitare quel grande sviluppo post-bellico, che fu in grado di far arrivare un pò di dolce anche sulle mense del proletariato metropolitano. Quello sviluppo è finito. Per sempre. Ora, nel viluppo di contraddizioni e di incertezze in cui si trova, il capitale ha una sola certezza: di poter sanare la propria crisi solo andando avanti nella sua guerra contro gli sfruttati, che sarà sempre più cruenta e senza quartiere. Una guerra che la classe dominante ha "votato" e approvato autocraticamente, al di fuori di ogni democratica conta di voti.

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Riprendiamo la lotta

Non è necessario perciò attendere il 22 aprile per conoscere come va a finire. E’ già chiaro in anticipo. Vincesse pure l’Ulivo dei Dini-Maccanico-Prodi-De Mita-D’Alema-Bertinotti, ed il suo programma di maggior gradualità, di un pò meno iniqua spartizione dei sacrifici e di semi-presidenzialismo attenuato, l’offensiva borghese s’inasprirà ulteriormente. Perché l’eventuale governo "amico" di centrosinistra ha già in partenza giurato fedeltà al mercato (non ai lavoratori). Di più: si è impegnato a "liberare" le forze di mercato (non a liberare i lavoratori dai pesi che il mercato impone loro). Ed il mercato è lì pronto, prontissimo, dalle Borse, dalle sedi del FMI e della Banca mondiale, dalle società di monitoraggio legate alla finanza internazionale, dai consigli di amministrazione della Fiat, di Mediobanca, dalle lobbies messe su dagli interessi forti, etc., a "forzare" i governi (di Roma, e tanto più quelli che dovessero nascere da un’eventuale secessione nordista) ad "adottare misure impopolari, ma indispensabili" (per il capitale). In nome di interessi apparentemente super partes, si capisce, quali la lotta all’inflazione, l’abbattimento del debito statale, la miglior funzionalità delle istituzioni.

Non vogliamo dire con ciò che la destra del Polo e l'Ulivo siano disposti a scattare davanti alle richieste dei mercati all'identico modo. La destra borghese è ad esse, in Italia e nel mondo, assai più organica. Mentre l'Ulivo, proprio per il particolare rapporto che ha con i lavoratori, potrebbe avere problemi a gestire fino in fondo le politiche di lacrime e sangue per i danni che provocherebbero sul lato operaio. Da queste difficoltà a comporre le esigenze capitalistiche con un minimo di "equità sociale", però, non deriverebbe in nessun caso un irrigidimento pro-operaio dell'Ulivo. Bensì, tutt'al più, un passaggio alla destra del testimone governativo e dei suoi pezzi centristi, le cui manovre di sganciamento dalla "sinistra" sono non a caso già in atto.

E allora? Allora ci permettiamo di ripetere -perché immutato, o mutato solo in peggio, è lo scenario di fondo- quanto scrivevamo due anni fa, nel n. 30 del Che fare, alla vigilia delle elezioni del '94, che la "gioiosa macchina da guerra" progressista era pressoché certa di vincere.

"Non si ferma questo movimento della moderna reazione borghese -dicevamo- con un muro di schede elettorali ‘progressiste’. Esso va affrontato, contrastato e battuto nelle piazze e nelle fabbriche, mobilitando e unificando il proletariato attorno ai suoi autonomi interessi di classe". La "sfida borghese" va raccolta e respinta, con tutta "la forza delle lotte della classe operaia internazionale e della resistenza anti-imperialista dei popoli oppressi!".

Nel marzo ’94 il risveglio dai sogni di gloria elettoralistici fu molto amaro. E in tanto venne un alt alla reazione borghese e al suo devastante attacco al sistema pensionistico, in quanto il movimento proletario seppe dare -scendendo nelle piazze contro il governo Berlusconi- un saggio della propria grandissima forza potenziale. Purtroppo ci si fermò troppo presto, confidando a torto nelle alchimie parlamentari dei Bossi, dei Buttiglione, dei Bianco, degli Scalfaro. E nella presunta neutralità di un governo "tecnico", in realtà nemico dei lavoratori, come quello del banchiere Dini.

Oggi, mentre ritorna l’ingannevole speranza d’una "storica" vittoria del centro-sinistra. Mentre da destra e da sinistra si rinnovano le false promesse di "risanamenti" semi-indolori e gli inviti alla pace sociale. Noi comunisti rinnoviamo il nostro appello ai lavoratori a non farsi illusioni. La borghesia non ci darà tregua, quand’anche dovesse venire un governo di centro-sinistra che indorasse un pò la pillola per farcela deglutire più rapidamente. Sulla nostra testa stanno per piovere pietre. Ricacciamole in gola al mittente. Sia il capitalismo a pagare la sua crisi! Riprendiamo la lotta. Difendiamo in modo intransigente i nostri interessi e i nostri diritti, con le sole armi efficaci a nostra disposizione, quelle della lotta anticapitalista e del programma di classe. Riorganizziamo e risaniamo le nostre fila. Per avanzare verso il nostro potere di classe, verso la nostra liberazione dallo sfruttamento.

(1) Si legge infatti nelle tesi 46-49 dell’Ulivo: il "colpo d’ala" che serve all’Italia, e in essa ai lavoratori, per tirarsi fuori dalle loro difficoltà, è "far nascere il mercato" (sic!), "liberare" il mercato con le privatizzazioni delle imprese di stato (Prodi è un esperto nella loro svendita ai privati) e dei servizi, dotarsi di un "ampio mercato dei capitali" e di "forti e diffuse istituzioni finanziarie". Mercato, mercato, ancora mercato. E questa è la "sinistra". La sinistra più degenerata e asservita al capitale che sia dato ricordare.


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