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Vita e problemi di partito

MARXISMO E RELIGIONE
conversando coi lettori


Indice


Il materialismo dialettico marxista esclude ogni interpretazione religiosa del mondo. La pratica politica marxista che ne consegue si basa su criteri materialistici di lotta di classe che esclude qualsiasi forma d’impostazione religiosa per le proprie finalità, i propri compiti, i propri mezzi di lotta. Ma il marxismo non respinge chi può battersi, si batte o dovrà battersi contro gli orrori del capitalismo, quali che siano gli orpelli ideologici che tuttora lo avvolgono, a cominciare da quello religioso: ad essi, al contrario, indica la via limpida di una lotta conseguente a questo fine. E’ nel corso di una lotta siffatta che l’individuo alienato dalla religione si libera dalle sue catene ideologiche in quanto membro di una comunità sociale che realizza la propria emancipazione.

Rispondiamo ad una serie di quesiti che ci sono stati posti a più riprese: che posizione ha l’OCI rispetto alla religione?, ammette o no l’OCI di lavorare con elementi che siano credenti, ed entro che prospettive e limiti?, permette l’OCI ai suoi militanti la libertà di fede religiosa?

Sono tre temi che non si possono separare l’uno dall’altro, ma che non stanno sullo stesso piano e non si possono incollare meccanicamente l’uno all’altro. Li tratteremo qui, per obblighi di spazio e sede, "a sé", nell’ordine in cui li abbiamo esposti, dando per scontato che ne diamo solo un abbozzo esplicativo, largamente insoddisfacente (ma chi non comincia non si troverà mai alla metà dell’opera...), ed in particolare per quanto riguarda la prima domanda, che è, poi, quella centrale per definire la "concezione del mondo" marxista da cui dialetticamente deriva ogni "successiva" conseguenza pratica.

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Materialismo dialettico versus religione

Prima questione. In quanto marxista, l’OCI non può che avere una posizione di assoluta ripulsa della religione, di qualsiasi religione, sul terreno per così dire filosofico.

La spiegazione materialistica dialettica della storia implica una determinata concezione del mondo da cui l’idea di un qualsivoglia dio è assolutamente esclusa. Il marxismo pretende di aver individuato scientificamente le leggi del divenire sociale, strettamente determinate dalla base economica della società stessa e, su questa base, abbraccia l’intiera storia dell’animale-sociale uomo dai suoi primordi bestiali alla società comunitaria (la Gemeinwesen) futura lungo un arco storico coerente alle leggi materialistiche di cui sopra. Ma neppure si limita a tanto, perché tale concezione si allarga necessariamente a quella della natura e del rapporto uomo-natura: natura e società non possono essere impunemente dissociate, pena una concezione sdoppiata ed antinomica della realtà. Il marxismo è monista, non dualista.

Perché non ci mettiamo dentro dio, neppure come ipotesi? Perché, lo diciamo qui scherzosamente, rimandando ad altra sede più opportuna uno svolgimento a fondo del tema, questa "ipotesi" non ci aggiungerebbe nulla in più e nulla di diverso, e, se proprio volessimo mettercelo, dovremmo concludere che questo signor dio ha creato (per limitarci alla storia della società umana, senza invadere qui il più generale campo di quella naturale) un mondo che si muove secondo le ferree leggi materialistiche (scoperte dal marxismo) con cui sin dagli inizi della specie-uomo e sino alla fine ci siamo trovati e ci troveremo a far di conto, in un processo di continua trasformazione rivoluzionaria, in contraddizione con la pretesa eternità di immutabili principi e regole morali.

La lotta di classe è un dato storico necessario ed ineliminabile, così come tutte le conseguenze cui essa porta in tutti i suoi passaggi storici determinati. Ci volete mettere il creatore di mezzo? Ebbene, dovrete convenire che la sua creazione è stata fatta secondo tutti i crismi del materialismo dialettico, il che è un po’ troppo anche per... dio. L’uomo, per il marxista, è un essere storicamente (socialmente) determinato, che procede innanzi affrontando, conoscendo, padroneggiando dialetticamente le contraddizioni materiali che gli si parano innanzi, con ciò trasformando l’ambiente sociale che lo circonda e trasformando se stesso. Non esiste per il marxismo l’Uomo con la maiuscola, non esistono -con la stessa maiuscola- una Morale, una Coscienza fuori dalla storia, bensì esiste questo cammino storico fatto di continui cangiamenti -facendo esso la propria storia nelle condizioni deterministiche date- lungo un tragitto che procede dal basso della scala animale alla prospettiva presente (che solo lo stadio di sviluppo capitalistico poteva permettere) di approssimazione ad una società finalmente umana in grado di sottrarre la comunità dalle leggi cieche della necessità proprie delle società divise in classi antagoniste.

Per il marxismo, dio è, dunque, detronizzato dalla storia, e lo è anche da ogni più riposto angolo delle scienze, dalla fisica, dalla biologia etc., le quali non fanno che confermare nella "propria specifica sede" i postulati della generale e complessiva visione materialistica del mondo. (In questo, almeno, concordiamo coi credenti: la vita dell’uomo e quella dell’universo sono dei fenomeni congiunti, unitari, che non ammettono dualismi di sorta).

Di più. Il marxismo non solo detronizza Dio-creatore dalla natura e dalla storia, ma rende conto della sua creazione da parte del soggetto-uomo, nella sua concretezza storica, ribaltando l’impalcatura religiosa che fa dell’uomo l’oggetto della creazione divina. L’uomo-umano sarà finalmente senza dio, in quanto privo delle catene, ai piedi ed al cervello, da cui l’idea di Dio scaturisce.

Su questo non possiamo qui ulteriormente soffermarci, se non per rimandare agli scritti dei nostri maestri in materia, da quelli sparsi di Marx, antologicamente disponibili, ed a quelli soprattutto di Engels, dall’Origine della famiglia, della proprietà privata, dello stato alla Dialettica della natura, giammai invecchiati nella sostanza.

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Marxismo e credenti: un "confronto" che s'imposta non su basi ideologiche, "illuministiche", ma secondo le leggi del divenire sociale.

Altra (ma in stretta, dialettica consequenzialità) è la questione del rapporto tra il partito della rivoluzione ed i credenti.

Mai e poi mai l’abbiamo posta nel senso di una contrapposizione di idee astratte ad altre idee astratte. Fedeli al nostro materialismo dialettico, rinunziamo dapprincipio ad applicare al termine "credenti" un’etichetta astratta, considerata idealisticamente (alla moda dell’ideologia borghese) al di fuori della storia e dei suoi concreti contrasti di classe. Non esiste per noi la figura extra-storica del Credente, eternamente eguale a sé stesso (cui contrapporre un Non-credente della stessa fatta), ma ci sono degli uomini storici, determinati (determinati a fare la propria storia), per i quali, in varie fasi e luoghi storici, la "fede" rappresenta dei valori materialisticamente diversi, che su questa base vanno apprezzati.

Non a caso, il marxismo è il maggior apologeta del significato rivoluzionario del cristianesimo al suo sorgere o dell’Islam (sin dentro l’oggi, per certi versi), e non perché abbia mai creduto alle Verità del Vangelo o del Corano, ma perché, dissezionandoli, vede in essi il riflesso agente di uno scontro storico reale, di classe, che, come ogni riflesso, non può presentare la realtà che in maniera deformata e, nondimeno, affrontandola in maniera utilmente rivoluzionaria, in corrispondenza alle determinazioni oggettive (ergo: soggettive) di determinate condizioni storiche di sviluppo.

Sotto le insegne di un determinato vessillo religioso si sono combattute, e in parte possono combattersi, effettive battaglie classiste di progresso, quale che ne sia la coscienza negli attori storici, ed è questo quello che a noi interessa. Per questo semplice motivo noi marxisti evitiamo con cura di contrapporre in astratto fede (e lo potrebbe diventare -nel peggior significato del termine-, interpretato a sproposito, lo stesso marxismo) ad altre fedi. Consideriamo gli uomini vivi, storicamente reali, e ad essi, quando si muovano in lotta, non opponiamo l’anti-fede, ma la necessità di lottare, di farlo in maniera organizzata, per gli obiettivi che essi stessi sentono vicini, conseguibili, e crediamo che (senza mai nascondere ad essi il nostro ateismo, diretta conseguenza della concezione materialistica della storia e del mondo) per questa via ce li possiamo trovare vicini e, attraverso la lotta, in grado di superare il pregiudizio religioso di partenza in quanto svelato nella e dalla lotta come ostacolo ad essa.

Non diciamo nulla di diverso da quanto diceva il Lenin del 1905 (se pure si deve tener conto delle diverse coordinate spazio-temporali cui egli si riferiva, ma che in nessun modo possono mutare il senso del ragionamento di fondo):

"Engels condanna (..) esplicitamente l’idea pseudorivoluzionaria di Duhring circa l’interdizione della religione nella società socialista. Dichiarare una tale guerra alla religione, dice Engels, significa "essere più bismarckiani dello stesso Bismarck", ripetere cioè la sciocchezza della lotta bismarckiana contro i clericali -la lotta per la cultura- (che, di fatto) ha solo rafforzato il clericalismo militante dei cattolici... Engels esigeva che il Partito operaio, invece di gettarsi nell’avventura di una guerra politica contro la religione, lavorasse pazientemente all’opera di organizzazione e di educazione del proletariato, che conduce all’agonia della religione".

E, a rendere più esplicito il significato del lavoro vero di partito, contro l’avventurismo antireligioso alla bismarckiana (che, non a caso, sarà poi ereditato dal "volterriano" Stalin con le sue campagne ateistiche in nome del dio-stato, del dio-socialismo in un solo paese, salvo poi a concludere, altrettanto non a caso, in un nuovo patto solidale con l’oscurantismo pretesco di fronte alle esigenze patriottiche della seconda guerra mondiale), ecco cosa Lenin aggiunge:

"Per quanto sottomesso ed ignorante, il clero ortodosso russo si è ridestato anch’esso al frastuono della caduta del vecchio regime medioevale in Russia. Persino il clero si associa alla rivendicazione della libertà, protesta contro l’autocrazia statale e l’arbitrio dei funzionari, contro lo spionaggio poliziesco imposto ai "ministri di dio". Noi socialisti dobbiamo appoggiare questo movimento, spingendo fino in fondo le rivendicazioni dei rappresentanti onesti e sinceri del clero, prendendoli in parola quando parlano di libertà, esigendo che spezzino risolutamente ogni legame tra la religione e la polizia.""La nostra propaganda comprende necessariamente anche la propaganda dell’ateismo... Ma non dobbiamo in nessun caso scivolare verso un’impostazione della questione religiosa in termini astratti e idealistici, in termini "razionalistici", come fanno spesso i democratici radicali borghesi. Sarebbe assurdo credere che, in una società basata sull’oppressione e l’abbrutimento illimitati delle masse operaie, i pregiudizi religiosi possano essere dissipati per via della pura predicazione... L’unità (della) lotta effettivamente rivoluzionaria della classe operaia per crearsi un paradiso in terra è più importante per noi dell’unità di opinione sul paradiso in cielo".

Per qualche ultra-ortodosso di stampo anarchico o "comunista puro" questo potrà suonare come bestemmia, e senz’altro si imputerà a noi di bestemmiare.

Non s’era detto che la religione è un "oppio dei popoli", o, per dirla con lo stesso Lenin, che "Dio è (secondo la storia e secondo la vita quotidiana) prima di tutto un complesso di idee generate dal brutale schiacciamento dell’uomo da parte della natura, dell’ambiente e del giogo di classe che stabilizzano questo schiacciamento ed assopiscono la lotta di classe"? O che "la religione è uno degli aspetti dell’oppressione spirituale che grava ovunque sulle masse popolari"?

Sì, esattamente, ma badando bene al fatto che le masse possono e si devono mettere in moto anche se gravate da quest’oppressione spirituale e proprio nel corso della loro lotta sono chiamate a superarla. Non diremo mai che la "menzogna" religiosa è la causa prima dell’oppressione stessa, ma un suo riflesso agente, che, in quanto tale, vela e deforma la lotta. Pertanto, solo aggredendo questa causa prima dove essa sta è possibile unificare realmente la lotta della massa e sottrarla al condizionamento micidiale del riflesso stesso. Victor Hugo ipotizzava un giorno in cui le chiese si sarebbero chiuse "per mancanza di ignoranza", lasciando luogo, chiosiamo noi, alla Verità del razionalistissimo capitale. Noi diciamo: si chiuderanno per mancanza di capitalismo, dopo che sarà stata schiacciata la sua Razionalità, ed a questa lotta parteciperanno fior di credenti, spinti dalla determinazioni materiali ad essi imposte, forse prima che da fior di atei alla maniera borghese, di cui non sappiamo che farcene.

Si dirà dai più "dialettici" tra i nostri critici: ma l’esempio cui Lenin si riferisce non può essere trasportato meccanicamente qui ed oggi. Certamente vero, e andrà spiegato, poni caso, come e perché non sia più rieditabile la funzione rivoluzionaria che il cristianesimo o lo stesso Islàm hanno avuto all’origine. (Il che non significa, però, che ne sia definitivamente cancellata la presenza nello scontro di classe. Significa solo che un movimento sociale oggi dovrà commisurare il proprio travestimento religioso ad una realtà storicamente diversa, ed infinitamente più avanti, di quella degli albori cristiani ed anche islamici, approssimandosi con ciò alla resa dei conti con sé stesso. D’altra parte, la stessa rivoluzionaria Riforma protestante aveva realizzato questo dato di fatto: il travestimento religioso non copriva più una rivolta di schiavi, ma esigenze rivoluzionarie borghesi e persino quel formidabile anticipo di rivolta proletaria incarnata da Munzer. Esaurita, per il cristianesimo almeno e nelle metropoli, la fase rivoluzionaria borghese, ciò significa che è all’ordine del giorno oggi quella della rivoluzione proletaria. Ad essa ci si potrà tuttora avvicinare conservando i vecchi travestimenti, ma, per l’appunto, sulla soglia della loro completa dismissione nel corso della lotta. Concretamente, ciò significa da bel principio che ogni serio movimento "travestito" dovrà prender le mosse, assai più che ai tempi di Lutero, con le strutture gerarchiche della vecchia Chiesa conservatrice per poter aggredire la borghesia. E, difatti, la "teologia" dei rivoluzionari sud-americani è alquanto diversa da quella vaticana, con gran rammarico del santo padre, che mai si stanca di rimproverarlo...)

Ciò che dice Lenin ha, pertanto, e come sempre, un valore non contingente.

Nella presente situazione metropolitana -per non parlare delle aree extrametropolitane o marginali rispetto alla metropoli in cui si trovano ghettizzate (vedi paesi arabo-islamici, vedi neri USA)- non è un caso che una somma di energie vive, soprattutto giovanili, s’incontri, nella sua ripulsa dell’ordine presente e nel suo tentativo di rispondere ad essa, con la Chiesa, o meglio: con una certa idea (non woytiliana) della Chiesa. Noi apprezziamo enormemente questo serbatoio di energie ed anzi non esitiamo a dire che, sotto molti e decisivi aspetti, lo preferiamo allo sterile "illuminismo" che affetta determinate sette "marxiste" (per le quali il socialismo si riduce ad una Verità ideologica, da coltivare nelle proprie teste, e non un imperativo di lotta). Ad esse si applica tuttora la prospettiva di Lenin.

Non è un caso, dicevamo. Primo: perché il "comunismo", e tanto più la "sinistra" ufficiale, ha dismesso la tematica e la pratica di un cambiamento globale della società. Secondo: perché l’esigenza di quest’ultimo comunque si afferma. E se lo fa, inizialmente, attorno alla parrocchia non è perché questa diabolicamente trama a deviare un movimento "puro" in atto (che non c’è) dal suo letto "naturale" (virgolettiamo ciò che per noi marxisti è bestemmia!), ma proprio perché il "movimento operaio" ufficiale si acconcia vergognosamente allo stato omicida del presente nel momento stesso in cui da ogni suo poro s’alza il grido della necessaria ribellione. La "comunità ecclesiale dei credenti" mostra di saper raccogliere ed organizzare ancora, a suo modo, il grido di protesta che sale dal profondo della società; che non lo possa fare conseguentemente, riducendosi in fin dei conti alla "carità" del volontariato è scontato, dati i suoi presupposti ideologici; che ancor meno lo possa fare sotto l’impulso di una gerarchia legata mani e piedi all’ordine sociale presente lo è altrettanto. Ma prima di prendercela con Wojtyla (i nostri sentimenti verso il quale sono ben noti!), dovremo fare i conti con "noi", con l’ideologia e la pratica di questo movimento operaio, da Stalin a Cofferati, tanto per dire, non banalmente negando le istanze che si muovono alla base di "certi" credenti, ma assumendocele e riscattandole in pieno.

Prendiamo un esempio. Quando padre Zanotelli proclama ai "beati costruttori di pace" che "la Guerra del Golfo ha visto la vittoria dell’Impero del denaro sui nuovi nemici: i poveri, specie quando risiedono sui depositi dell’oro nero", un "Impero legato saldamente all’apparato militare per proteggere privilegi e processi di sfruttamento" e parla di "un miliardo di uomini dichiarati "inutili" dalla Banca Mondiale, inutili come produttori e come consumatori, ma anche come oggetto di sfruttamento: veramente cancellati", per concludere che "quando l’economia uccide bisogna cambiare", non è che siamo tentati di offrire a quest’uomo (uomo veramente!) la tessera dell’OCI, ma constatiamo che egli mette in bell’ordine la somma di problemi reali, materialistici con cui noi per primi dobbiamo avere a che fare e che il suo appello ad "una conversione dall’idolatria" significa, al di là del vacuo argomentare evangelico, distruzione del capitalismo, delle sue leggi oggettive. E constatiamo persino la differenza in positivo tra questa dichiarazione di guerra (che per essere conseguente dovrà trovare nel marxismo le armi affilate con cui combattere) e l’inverecondo indifferentismo che ha contrassegnato certi "marxisti puri" dal Golfo in qua, sino all’emblematico caso jugoslavo. Che poi padre o compagno Alex che sia rappresenti pressoché un’eccezione per chiarezza nell’ambito degli stessi "costruttori di pace" non ci fa cambiare opinione: se la massa di quei "costruttori" è più arretrata rispetto a Zanottelli, incombe a noi non di abbandonarla al suo destino, ma di portarla più innanzi. Oltre Zanotelli, beninteso, laddove noi ci posizioniamo inequivocabilmente.

"Noi dobbiamo appoggiare questo movimento", diceva Lenin, e lo possiamo ripetere noi. Appoggiarlo sulle nostre posizioni, lavorando ad una reale unificazione di classe, quindi combattendo contro i presupposti di falsissima coscienza da cui esso parte sul terreno dell’iniziativa concreta. Perché, ove disertassimo questo terreno di "confronto", la partita sarebbe davvero per noi definitivamente persa: la rivoluzione non può vincere, insegnava Lenin, se non ci si sa immergere nelle esigenze e nella mentalità dei contadini e in quella delle decine di milioni di credenti delle classi sfruttate; e lo si può, lo si deve fare, a patto di assumerne le esigenze materiali profonde che possono essere convogliate nel senso nostro, non a suon di prediche e distinguo ideologici, perché "nessun libro di divulgazione potrà sradicare la religione dalle masse abbrutite dalla galera capitalista, soggette alle cieche forze distruttrici del capitalismo, fino a che queste masse non avranno imparato, esse stesse, a lottare in modo unitario, organizzato, sistematico e cosciente contro (la) radice (sociale) della religione, contro il potere del capitale in tutti i suoi aspetti".

Tanto basti a far comprendere quanto siamo distanti da chi, intellettualisticamente, aborre dal contatto con i credenti "in errore", quanto, e più decisamente, da chi fanfaluca di un "dialogo coi cattolici" nel quale socialismo e cattolicesimo, rivoluzione e reazione, sarebbero chiamati a convergere, rimanendo ciascuno sulle proprie posizioni (!), in una "pratica comune".

(E vogliamo aggiungere che il metodo del nostro approccio ai credenti non si applica neppure soltanto a coloro che, tra di essi, si stanno già mettendo per conto loro in moto. Una grossa responsabilità, al contrario, ci competerà nell’affrontare i fenomeni di fede religiosa che, pur esprimendo a loro modo una ripulsa di fondo nei confronti del mondo presente -e proprio per questo pescano soprattutto fra gli strati bassi della società-, conducono piuttosto alla passività di fronte ad esso, come nel caso dei Testimoni di Geova od altre fedi millenaristico-apocalittiche. Perché se appare più facile lavorare sul cattolico che si mette positivamente in urto con le direttive della centrale vaticana, sarà un’impresa non da poco, ma non per questo meno necessaria, ad esempio, portare a scioperare un Testimone di Geova, convinto di non dover entrare negli affari di questo mondo malvagio, di cui -al pari di noi marxisti- sente che sta per scoccare l’ultima ora.)

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Militante comunista e religione: due termini inconciliabili.

Terzo punto.

Ammette l’OCI nel suo seno militanti che professino, contemporanea-mente, una determinata fede religiosa? Ebbene, no. Sarebbe una gravissima deviazione, scrive Bordiga, "dedurre che il militante marxista resti libero, accettate alcune direttive di azione politica e sociale, e "confessate" alcune teorie economiche e storiche, di dichiararsi per una delle tante filosofie: realismo o idealismo, materialismo o spiritualismo, monismo o dualismo" o addirittura per una qualche forma di religione (vedi Comunismo e conoscenza umana). Il militante comunista non è quello che si limita a sciorinare poche parole d’ordine ed a distribuire qualche volantino od anche a lottare sul serio, ma chi è chiamato a dirigere la lotta, forte della complessiva concezione del mondo che il partito gli assicura.

Lenin postulava che nello stesso partito può trovar spazio un certo ragionevole margine di contraddizione. Se il sincero, devoto militante conserva tuttavia un qualche aggancio all’idea di dio, possiamo, egli affermava, anche lasciar correre, a condizione che questa rimanga una sua contraddizione privata ed escluda ogni collegamento con le strutture reazionarie delle fedi ufficiali.

La seconda, inflessibile, condizione sarebbe l’unica cauzione del primo compromesso. E, nella situazione di una Russia che lavorava ad uscire dalle strettoie feudali ed in presenza di un movimento dirompente da parte delle masse, questo si poteva ammettere. Non possiamo ammetterlo noi oggi in una situazione in cui si tratta di creare i quadri preliminari in vista del partito futuro ed in assenza di quel tal movimento largo e deciso che, utilmente, porterebbe al partito energie decisive (quand’anche individualmente cariche di una qualche contraddizione in testa -che non sarebbe, poi, il fatto dirimente). Ad un corpo scelto non si possono concedere le deroghe che si concedono ad una truppa. Che l’OCI non si pretenda a partito non solo non infirma queste considerazioni, ma addirittura le rafforza: non si va alla edificazione del tetto se si parte male con la cazzuola al momento di gettare le fondamenta.

Questo non significa che chi si presenti a noi con siffatta contraddizione venga da noi semplicemente allontanato. Al contrario, l’organizzazione è ritenuta responsabile del lavoro ch’essa deve svolgere nei suoi confronti per superarla. Nessun aut-aut, quindi, nessun "esame di fede", ma un fermo lavoro collettivo di organizzazione (dal quale tutti hanno di che imparare, e specialmente i "già convinti" e i più "inflessibili" tra essi).

Ma se anche volessimo accettare -per determinate situazioni a venire- la deroga, mai e poi mai ammetteremmo che un nostro militante da un lato professi la sua fedeltà all’organizzazione e dall’altro acceda a una qualsiasi forma di compromissione con una delle forme qualsiasi in cui si esprime l’apparato materiale della o delle chiese. Poiché siamo in Italia, il 95% del discorso riguarda la Chiesa cattolica. Ebbene, ogni militante dell’OCI deve sapere che, anche solo varcando le soglie di un tempio per sacramentarsi, di fatto egli confermerebbe i diritti di quest’apparato dispotico a servizio del capitale. Le ragioni di "convenienza pratica" a ciò (ad esempio: non turbare i rapporti familiari, evitare grane sul lavoro od altro) sarebbero da noi considerate la peggiore delle ignominie.

Con che faccia andrebbe quel militante a predicare alle masse la necessità della lotta senza compromessi quando egli per primo fosse sceso consapevolmente all’ultimo gradino di essi?, o con quale faccia andrebbe a diffondere i nostri materiali sulla Jugoslavia -tanto per fare un esempio- quando egli per primo si fosse ridotto a sacralizzare, sia come sia, l’autorità di una centrale di potere cui noi addebitiamo una buona responsabilità della carneficina jugoslava?

Il semplice buon cristiano che entra in una contraddizione concreta coi dettami della sua chiesa su questo o quel tema reale dello scontro di classe è da noi altamente apprezzato, e non ci fanno velo i residui di falsa coscienza religiosa che tuttora lo opprimono. Ad esso noi chiediamo di essere conseguente col senso reale della contraddizione che si è aperta in lui. Ma non potremmo farlo se non gli ci si presentassimo di fronte con tutti gli elementi atti a risolverla in positivo, e, quindi, innanzitutto a partire da un’assoluta coerenza (dottrinale, politica, morale vorremmo dire) nei confronti dell’istituzione chiesastica e non fermandosi lì (per non finire nella broda del "cristianesimo ripulito" dalle "deformazioni" pretesche o in quella lunaciarskiana di una riproposizione del partito come "vera religione").

Ci è stata posta un’obiezione: perché mai tanto rigore nei confronti della Chiesa quando poi si accettano dei compromessi con lo Stato, che non è da meno? Perché non rifiutare, allora, anche il matrimonio civile, il giuramento di fedeltà alla costituzione obbligatorio per il pubblico impiego etc. etc.? E si potrebbe aggiungere: perché non abiurare dal capitalismo rifiutandosi di accedere al lavoro salariato?

Perché non siamo della stoffa di quel famoso anarchico che rifiutò la laurea per non riconoscere lo stato (dopo essersi seduto ai suoi banchi di scuola). Non miriamo a sottrarci al capitalismo ed allo stato, suo comitato d’affari, nell’intimo della nostra coscienza o in un impossibile apartheid individuale da essi. Li riconosciamo come nemici da battere posizionandoci con coerenza nelle trincee cui essi ci obbligano e mai cessando di dichiarar loro guerra. Questa è semplicemente una questione di opportunità di battaglia, non un adattamento, un compromesso. Lo sarebbe certamente nel momento stesso in cui li riconoscessimo come soggetti nostri, fosse pure alla condizione di "riformarli" (uno stato più democratico, un capitalismo dal volto umano e via dicendo: la tipica broda riformista). E’ precisamente questo quel che ci ripugna e non faremo mai. E per questo stesso motivo tanto meno potremo mai ammettere, in quanto militanti, di aprire un credito al riflesso religioso in cui si fissa la superstizione dello stato e del capitalismo in quanto valori eterni; e meno ancora alla gerarchia, forte di millenaria esperienza, della Chiesa che su di esso gioca per tener fermi questi "valori".

Incompleto quel che s’è detto, ma sufficiente per la conversazione propedeutica odierna.


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