Medio Oriente |
Contrariamente alle promesse dellAmerica di Bush e dei suoi alleati europei, la devastazione dellIraq non ha portato né pace né sviluppo (il bugiardo binomio dell89) alle masse arabo-islamiche. In questi anni il Medio Oriente ha continuato a scendere i gironi della dipendenza dallimperialismo, del sottosviluppo e della miseria. Ed è solo per mezzo della politica del pugno di ferro "consigliata" dalle "nostre" democrazie che i locali regimi borghesi e semi-borghesi riescono a impedire che lo scontento delle classi sfruttate scoppi in tutta la sua furia. Sotto questa cappa di piombo "algerina", però, la polarizzazione sociale non si è mai arrestata. E linstabilità del dominio del capitale sta estendendosi fino a scuotere i più sicuri bastioni dellimperialismo nella regione: Arabia Saudita, Turchia, Israele. Non per nulla un Gingrich indica nel "fondamentalismo islamico" e nel suo originario centro di "infezione", lIran, i pericoli principali dei prossimi decenni, e Clinton autorizza la CIA ad agire di conseguenza.
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Lautunno dellautocrazia saudita
La fragilità dello stato saudita era già stata messa a nudo dalla sortita di Saddam. Ché se, per ipotesi, le truppe irachene avessero avuto in programma di spingersi fino alla vicina Riyad, vi sarebbero arrivate quasi senza colpo ferire. Si trattava però, spiegarono i più, duna fragilità esclusivamente nei confronti di un "aggressore" esterno. Di conflitti con la loro popolazione, i Saud non ne avevano punto. Di gravi, almeno. Qualche eccesso di tradizionalismo, corruzione, dispotismo, li si può perdonare a uno stato-provvidenza che stilla sui suoi sudditi latte e miele...
La guerra del Golfo ha fortemente, e definitivamente, mutato la situazione, mettendo in questione il complesso incastro di rapporti socio-politici su cui ha poggiato per decenni la stabilità di una delle ultime monarchie assolute del mondo.
Ai Saud va il merito storico della formazione di uno stato nazionale unitario in quella penisola arabica che, dopo esser stata la culla del primo Islam, ne era rimasta per lunghi secoli, escluso lHigiàz, una dimenticata e rozza provincia periferica.
Ma una volta raggiunto questo traguardo, sè posto loro il dilemma: appoggiare il movimento rivoluzionario nazionale teso a unificare il mondo arabo in un solo stato e in un solo mercato, o sabotarlo in combutta con limperialismo? lavorare a espiantare le reazionarie tradizioni ed istituzioni pre-borghesi, o tentare con ogni mezzo di mantenerle in vita? Salvo casi individuali e momenti dobbligata prudenza, la scelta della casa regnante saudita è stata senza tentennamenti, e sempre più, a favore del connubio subalterno con gli interessi imperialisti.
Pur se vè stata una qualche influenza del moto rivoluzionario anti-feudale e anti-coloniale su limitati strati borghesi e proletari (i primi scioperi operai allAramco negli anni 50 ebbero per insegna il pan-arabismo baathista), il regime è riuscito però a mantenere la società saudita nel suo insieme fuori da quel moto. Servendosi delle rendite petrolifere a sua disposizione, il "clan-classe" al potere si è assoggettata lantica borghesia dei commerci e ha guarito dalle loro adolescenziali febbricole nasseriane i moderni intraprenditori nati con lo sviluppo dipendente. Sempre grazie ai proventi delloro nero, la dinastia saudita ha aperto alla massa dei beduini le porte della guardia nazionale, delle polizie civili e religiose, degli impieghi statali, evitando loro un destino di proletarizzazione e di pauperizzazione, e mantenendoli separati così da quei popolani di rango inferiore (i contadini del sud-ovest affini agli yemeniti) che sono stati avviati alla condizione del comune salariato. Anche a questi ultimi, però, ha potuto garantire un welfare state di fatto gratuito, sebbene qualitativamente non eccelso. E laffollarsi al fondo della scala sociale di un gran numero di proletari arabi e asiatici super-sfruttati, e di vere e proprie schiave o semi-schiave, è servito a fomentare anche negli "indigeni" meno favoriti uno stabilizzante sciovinismo interclassista. Rovescio della medaglia: tutti i sauditi non dinastici, dai capitalisti in giù, sono privi dei più elementari diritti borghesi, per non dire dell'assoluta proibizione di scioperi e sindacati, della soggezione feudale delle donne, dellocchiuta vigilanza dei corpi repressivi confessionali e laici, della tortura, etc.
La guerra diede un primo serio colpo a questo "compromesso sociale"- attribuzioni materiali in cambio dellinesistenza civile e politica- col sottoporre per la prima volta alloccupazione militare straniera (degli "infedeli") il "sacro" suolo saudita, e col fare dellArabia la base dellattacco occidentale ad un paese "fratello". Ciò non era previsto nel "patto nazionale". E non può sorprendere che la massa della popolazione saudita, e perfino dei militi sauditi (tra i quali sannovera -è un pilota di sangue reale- un solo "eroe" di guerra!), non abbia sentito sua laggressione allIraq. Anzi, in molti lhanno sentita come unintollerabile umiliazione per un paese che non aveva mai conosciuto loccupazione coloniale. Come un tradimento di quella causa islamica di cui i Saud si professano custodi ("Fahd, bestia, hai venduto la Mecca per un dollaro"... gridavano le piazze arabe).
Un secondo e più grave colpo lo sta dando ora la crisi finanziaria in corso, innescata proprio dai protettori yankee con il salatissimo conto-spese per la guerra (da 60 a 80 miliardi di dollari!, con una spesa bellica giunta al 30% del bilancio statale), e con le manovre per far cadere il prezzo del greggio ben più giù dei promessi 20-21 dollari a barile. Inevitabili le conseguenze a cascata su tutti gli strati della popolazione, proletariato e minuta borghesia in testa. E la "fine dellEldorado". Si pagheranno i servizi. Crescerà limposizione fiscale. Tracolleranno investimenti industriali e una produzione agricola protetta da sussidi astronomici. Saranno tagliati gli impieghi-rifugio statali. Tra i giovani sauditi ha fatto la sua comparsa lignoto spettro della disoccupazione. E nel cuore super-blindato di Riyad, quello di un "terrorismo islamico" rivendicante (giustamente) lespulsione degli occupanti americani.
La fortezza saudita appare ora vulnerabile pure dallinterno. Per lesperto Foulquier "sul piano politico il pericolo non è imminente, la catastrofe non è per domani", poiché "non cè un proletariato autoctono suscettibile di sollevarsi, né unopposizione organizzata" (1). Daccord, monsieur Foulquier. Ma la situazione è in evoluzione, e, lei stesso lo annusa, si respira laggiù unaria da fine regime che ricorda gli ultimi tempi di Reza Palehvi. No, non ci attendiamo dallArabia per domani né lannuncio di una liberatrice "catastrofe" sovietica, e neppure quello di una insurrezione proletaria-popolare sul tipo Iran-1979. Basterebbe anche molto meno, però, per aprire una nuova, pericolosissima crepa nellincompiuto edificio del "nuovo ordine mondiale". Basterebbe... che andasse avanti lo scollamento tra il regime e la massa della popolazione; che si accendessero qua e là (come a Buraydah nel 94) proteste di massa represse nel sangue; che il proletariato non autoctono iniziasse a reagire alle mille angherie patite (e un segnale in tal senso è la simpatia raccolta anche in Arabia Saudita dalla coraggiosa ribelle Sarah Balabagan, la giovane schiava filippina che pugnalò il padrone-sceicco violentatore); che limprevista distretta finanziaria e sociale acuisse lo scontro tra i sotto-clan di corte sulla opportunità (o meno) di aperture "riformatrici" e/o "anti-occidentali"; che tutto ciò rafforzasse, di conserva con i militari sauditi, linterventismo degli USA, cui è sempre più vitale il petrolio del Golfo; e questo a sua volta provocasse più accesi sentimenti anti-americani e, per altro verso, più fitti intrighi dei concorrenti degli Usa sbaraccati dalla regione e ansiosi di rivincite, etc. E a un "meno" del genere, che sarà un "più" d'ossigeno alle lotte metropolitane, anche se nellimmediato verrà capitalizzato localmente dallinconcludente (e reazionario) islamismo militante, sarà davvero difficile sfuggire. Così come alle sue esplosive conseguenze.
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Il contagio islamico in Turchia
Anche perché il contesto regionale non è dei più tranquillizzanti per Riyad. Gli "antagonisti" più temuti dai sauditi, lIraq di Saddam, lIran post-khomeinista, il Sudan di al-Tourabi sono ancora sulla breccia. LEgitto è una polveriera a permanente rischio di esplosione. Il vicino Qatar instaura buone relazioni con Teheran. In Kuweit torna a farsi vivo unembrione di opposizione non certo filo-saudita. La lotta rivoluzionaria delle masse palestinesi non è finita. E il contagio dellislamismo anti-occidentale è evidente anche al capo opposto della regione, in Turchia.
Qui, cè un crescente aggrovigliamento della situazione, risultante di molteplici fattori. Il primo dei quali è il corso oscillante e caotico delleconomia turca, che non riesce a reggere linasprimento dello scontro inter-capitalistico. Strettamente collegato a questo, vi è poi lacutizzarsi dello scontro di classe. Lesecutivo Ciller è stato buttato giù dalla lotta del proletariato. Dal "più ampio sciopero generale della recente storia turca" (Avvenimenti, 4 ottobre 95), indetto contro la politica di austerità imposta dal FMI, a seguito del quale il partito socialdemocratico, che aveva stretto un patto di governo con la destra (un vizietto non solo italico), è stato obbligato -dalla piazza- a revocarlo.
Ma alla base dellimpasse turco ci sono anche i non più occultabili contrasti di interesse con le grandi potenze imperialiste, che stanno precludendo alla fida alleata Turchia le sue possibili vie di sviluppo, quelle a ovest e a est come quella verso lIraq e il mondo arabo, poiché ambiscono a svolgere in proprio, luna contro laltra, quel ruolo-chiave in Medio Oriente, nei Balcani, nellarea turcofona che, sopratutto dopo la dissoluzione dellURSS, Ankara sperava veder riservato a sé (se sentite i capi occidentali accalorarsi di quando in quando alla causa curda -di cui nun glie ne pò fregà de meno-, state sicuri che sotto cè questo contenzioso aperto con la Turchia).
Vi è infine, appunto, lannosa questione curda. E bastato, infatti, il simulacro di "autonomia locale" elargito ai curdi di Iraq per la "buona condotta" portata nella guerra del Golfo per rianimare le speranze e la mai spenta volontà di battersi dei curdi di Turchia. Contro i quali lesercito turco si è scatenato in unaltra di quelle missioni "anti-terroristiche" che, dal genocidio degli armeni, lhanno reso sinistramente famoso (2). E che tuttavia non hanno dato e non possono dare alcuna soluzione al problema curdo.
In questa Turchia zavorrata dal debito estero, dallo sbilancio commerciale e dallinflazione, lacerata sul piano sociale ed etnico, e tuttavia lanciata verso impraticabili sogni di grandezza a ovest e ad est, a nord e a sud, capaci solo di renderne più insolubili le contraddizioni, va diffondendosi nelle grandi città, fra gli strati poveri e più emarginati, come sola possibile soluzione dei problemi, il messaggio islamico del Refah. Questa formazione politica, che si richiama al riformismo "rivoluzionario" e "anti-imperialista" di Sayyid Qutb (3), ha conosciuto un percorso di "radicalizzazione" simile a quello sperimentato (fino al 92) dal FIS algerino, che la pone in concorrenza, spesso da "sinistra", con la sinistra socialdemocratica tradizionale. La sua prospettiva? Svincolamento (graduale) dalla soggezione allUnione europea e agli USA; più stretta unione col mondo islamico, "per la liberazione di tutti i musulmani" e l'instaurazione di un "ordine sociale giusto". E questa prospettiva, per vaga che sia, pesa sulla scena politica turca molto più del suo 21% di voti. Lo stesso vale o varrà, con furore dei generali macellai per i quali "non esistono" curdi, per limpegno del Refah a risolvere con mezzi pacifici la questione curda, che ne ha fatto il primo partito anche nella "capitale curda" Diyarbakir.
In relazione a questa accresciuta influenza del Refah, gli analisti occidentali parlano di svolta potenzialmente destabilizzante per la Turchia. Non per la consequenzialità tra programmi di riscatto islamici (non certo eversivi del capitalismo) e pratica organizzata di lotta delle masse oppresse oggettivamente da essi evocata, che mancherà di sicuro negli Erbakan come, e più, di quanto sia avvenuto con i Khomeini o i Ben Bella. Ma per il fatto che masse di sfruttati si sono messe in marcia e chiedono di unirsi, vogliono unirsi, a scala sovranazionale, con altre masse di sfruttati come loro, perché avvertono che il nemico da respingere non è solo locale, è internazionale, e lo si può davvero affrontare e battere solo con un vasto fronte unitario di lotta. Se il cammino degli operai turchi, dei diseredati turchi e dei curdi di Turchia non è stato fin qui convergente, la possibilità (la necessità) di questa convergenza, e di quella con gli sfruttati del Medio Oriente e del mondo intero, è nella "natura delle cose". Lo sappiamo in due: i reazionari più lucidi e noi marxisti, salvo militare loro per la soluzione borghese controrivoluzionaria che eternizzerebbe lorrore attuale, e noi per quella rivoluzionaria proletaria e comunista che intende spazzarlo via dalle fondamenta.
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Israele: le incognite della "pace"
Ma le luci rosse per limperialismo in Medio Oriente non si fermano qui. Anche in Israele non va tutto per il verso "giusto". Né nella società, né nello stato. La borghesia israeliana, di concerto con la Casa Bianca, si è affrettata ad intascare i dividendi della "pace" imponendo allOLP un "patto leonino": una larva di autonomia sul 27% del territorio, il 20% dellacqua ed il 3% della sicurezza (le cifre sono di Peres) di Gaza e Cisgiordania occupate nel 67, in cambio della totale collaborazione nella soppressione dellIntifadah e del definitivo abbandono del "programma nazionale palestinese".
Il disegualissimo scambio, che in sé e per sé ha rafforzato Israele, presenta però tre grosse incognite che giocano in senso del tutto contrario.
La prima è emersa clamorosamente con luccisione di Rabin. Cè una zona molto ampia della società israeliana e delle comunità della diaspora (specie negli USA) ostile a qualsiasi concessione agli "scarafaggi" arabi, e intenzionata anzi a scacciarli dalla terra che "Jahvé" avrebbe riservato agli ebrei. Questa massiccia tendenza ultra-sionista ha il suo nocciolo più organizzato nei 280.000 coloni e nei movimenti ad ideologia "giudeo-nazista" (lespressione è di Leibovitz). Ma dire coloni o studenti di date scuole rabbiniche vuol dire esercito, reparti speciali e scelti di esso; ossia stato, pezzi degli apparati statali, a ogni livello; e, contemporaneamente, una capacità di mobilitazione della piazza, che negli ultimi anni ha visto la destra nettamente soverchiare la "sinistra". Muove questi settori, insieme con le convinzioni iper-nazionaliste, il timore di dover pagare in prima persona il prezzo della "pace", il non vedere alternativa al mors tua (di te palestinese), vita mea. Tanto più in una società in cui larrivo dallAsia di senza riserve pagabili ben meno dei palestinesi estenderà, con la concorrenza sul mercato del lavoro, anche larea della povertà e della disoccupazione "ebraica".
Come la sollevazione palestinese, anche la "pace" spacca Israele. E lo fa secondo linee che, senza essere affatto linee di classe "pure", già oggi fanno parlare di "due nazioni in una", con quali effetti, in prospettiva, sulla sua stabilità si può immaginare. Cè già chi è pronto, in armi, alla guerra civile dentro Israele, se questo è necessario a schiacciare i palestinesi. E poiché non si tratta di un perverso incubo di menti bacate, bensì di un razionale bisogno di un capitale che, conquistata dalle borghesie dellarea la legittimazione al proprio stato, brama ora ad un "pacifico" dominio "neo-coloniale" sullintero mondo arabo (il cd. sionismo economico), sarà giocoforza per quanti non sidentificano con questa prospettiva di oppressione, di andare essi pure fino in fondo nel loro rifiuto dell'oppressione sionista, passando dalla mera aspirazione ideale alla pace a quella milizia di classe anti-colonialista e anti-capitalista che sola può portare alla vera pace tra arabi ed ebrei, col demolire -a partire dallo stato di Israele- tutti gli stati dellarea e lo sfruttamento di classe in generale.
La seconda incognita della "pace" è costituita dagli Stati Uniti e dallEuropa. Se è fuori questione anche per il futuro la protezione occidentale ad Israele di contro alla minaccia insurrezionale araba, non esiste però -non è mai esistita- una totale identità dinteressi tra Israele e i suoi padrini. E quel tanto di "pace" e di relativa "normalizzazione" della situazione che è, sempre tra mille incendi, transitoriamente possibile, non è detto che giocherà in modo lineare a vantaggio di Israele, dal momento che la priva in parte dei vantaggi eccezionali derivanti dallessere in permanente "stato dassedio". Se le borghesie arabe, una per volta, si piegano alla "pax occidentale", la rendita di posizione di Israele quale unico sicuro avamposto dellimperialismo nella regione, un pò alla volta si riduce. Anche ad essa sarà chiesto di navigare sempre più "da sola", come ogni altra "normale" nazione borghese, nei mari tempestosi delleconomia globale, di decurtare i pletorici bilanci statali, di privatizzare, di assicurare la libertà di movimento dei capitali esteri nei suoi confini, di colpire senza riguardi per la sicurezza bellica i propri salariati, i piccoli produttori, etc. E lo spazio economico dellipotetico "mercato comune mediorientale" le sarà conteso, le è già conteso, palmo a palmo, oltre che dalle borghesie arabe (quella egiziana per prima), dai grandi stati e dalle società multinazionali (che dellintascar dividendi, di guerra e di pace, sono maestri), con attriti e colpi bassi in crescendo.
La terza e più grave incognita è rappresentata dai palestinesi, le cui attese di liberazione nazionale e sociale non sono certo state esaudite, semmai soltanto un pò rinfocolate dai primi, limitatissimi passi indietro delloccupante, proprio nel mentre la loro espulsione di massa dal mercato del lavoro israeliano contraddittoriamente ne ha peggiorate le condizioni di esistenza. Lenorme contenzioso aperto (le colonie, lacqua, Gerusalemme, il diritto al ritorno dei rifugiati) e la completa dipendenza delle aree "auto-amministrate" dal capitale e dallo stato israeliano, dicono -tenendo in debito conto il contesto internazionale globale- che la stabilizzazione della "pace" borghese-imperialista è impossibile. Impossibilità simbolizzata da ultimo dal furente odio anti-israeliano delle manifestazioni per Ayyash.
Arabia Saudita, Turchia, Israele... scava, talpa, scava. Sei attesa in Europa. E non soltanto da milioni di Khaled.
(1) cfr. J-M. Foulquier, Arabie Séoudite. La dictature protégée, Albin Michel, 1995, pp. 191-192.
(2) Cè, in proposito, un dato interessante: la diserzione delle nuove leve cresce -si parla di 250.000 giovani disertori-. Ed in una delle più importanti città industriali della Turchia, Izmir, città non curda, è stata fondata nel dicembre 1992 una Unione degli avversari della guerra, che è stata poi messa fuori legge (cfr. Le Monde Diplomatique, giugno 1994).
(3) Per la nostra valutazione dellislamismo "radicale" si può vedere il n. 32 del Che fare.