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Segnali di ricomposizione: Francia...

IL SIGNIFICATO TEORICO E PRATICO DELLE RECENTI LOTTE PROLETARIE IN FRANCIA


Indice


Le recenti agitazioni economiche in Francia non ci dicono soltanto che "lì" il proletariato è vivo, ma che esso lo è ovunque nel mondo, e concretamente ci trasmettono delle fondamentali lezioni su quello che ne sarà -internazionalmente- il seguito sul piano sociale e politico. E sono queste lezioni che vanno colte (al di là dell’immediato ed, a giusto titolo, entusiastico senso di solidarietà col movimento francese) per predisporre al meglio le armi di battaglia della nostra classe.

Quella che noi consideriamo una prima ondata di lotte del proletariato francese, l’ondata che ha squassato la tranquillità della borghesia d’Oltralpe e non di essa sola, pare essersi al momento placata, per quanto persistano dei focolai residui (vedi Marsiglia) e covino prepotentemente le braci di un possibile nuovo incendio.

Il fatto di non doverci confrontare qui con l’attualità di una lotta in corso (che abbiamo, peraltro, seguito e propagandato con tutte le nostre forze attraverso volantini ed interventi pubblici) ci permetterà ancor meglio, in un certo senso, di trarne le dovute lezioni: questione tutt’altro che retrospettiva, ma proiettata verso il futuro della ripresa proletaria metropolitana, di cui ci è stato dato sin qui solo un (solleticante) assaggio. E questione non di arida cronaca, che volutamente omettiamo, ma di inquadramento teorico del tema del ritorno in forza dell’offensiva proletaria (che siamo altrettanto certi che ci sarà come se l’avessimo già veduta), delle sue contraddizioni di partenza, dei suoi prevedibili sviluppi, del suo possibile esito vittorioso.

Si tratta, esattamente, di saper leggere nel presente per incardinarlo al suo futuro, sulla base di esperienze vive che oggettivamente esigono di trovare un indirizzo coerente attorno al quale potersi sin d’ora collegare e costituire in forza politica organizzata, cosciente.

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"Sorprendente!" Il proletariato è vivo e lotta.

Una prima considerazione. Lo scoppio della protesta francese ha letteralmente colto di sorpresa tutti gli analisti ed uomini politici, di destra come di sinistra, e persino quelli fra loro che, pur parlando di rivoluzione socialista come orizzonte lontano, mai avrebbero creduto possibile un tale inatteso risveglio da parte del proletariato.

Non s’erano chiuse le urne con la vittoria della destra? Non c’erano alle spalle anni di relativa tranquillità sociale? E non appariva forse forte, sulla scena internazionale, il capitalismo francese? E, in sovrappiù, non s’erano indebolite in questi anni le organizzazioni riformiste che "rappresentano" la classe, tanto dal punto di vista dei ranghi militanti che da quello dei propri programmi, sempre più slavati in senso liberal-democratico?

Sono le stesse domande che si potrebbero porre un domani in Italia certi "sinistri" estremi (a parte le considerazioni sulla forza del nostro capitalismo, che non sta esattamente sullo stesso piano di efficienza e centralizzazione di quello francese).

Ebbene, cos’è successo allora? E’ successo quello che il marxista sa: che il conflitto di classe non può essere spento, nella società presente, da nessun artificio ed è pronto a riesplodere in momenti cruciali, rispondendo alla prima solida occasione; che la disaffezione nei confronti delle organizzazioni riformiste non significa di per sé un rinculo al di qua delle posizioni da esso difese, ma è il sintomo di un disagio che non sa ancora trovare la propria via oltre di esso, ma cova tutti i motivi di una tale esigenza ed è pronta a riesplodere in una maniera che, in futuro, sarà ancor più inattesa ed incontrollabile della presente; che la storia del movimento di classe si misura non sui tempi brevi di una qualche congiuntura, ma su quelli lunghi di tutto l’arco delle esperienze da esso accumulate e che a periodi, più o meno lunghi, di silenzio ed arretramenti è destinata a succedere una repentina ripresa che non si può limitare a recuperare posizioni precedenti, ma è chiamata a bruciarle in avanti.

La sorpresa generale che ha accolto quest’ondata di lotte mostra solo sino a qual punto il modo di vedere le cose corrente da parte dell’ambiente politico di sinistra sia quello del bottegaio piccolo-borghese abituato a vivere alla giornata, col suo bel libro mastro di entrate-uscite, e per il quale il corso degli eventi evolve lentamente (in direzione, com’egli spera, del rafforzamento dell’ordine presente). A questa visione positivistica, gradualista, si sono bene adattati anche gli estremisti di cui sopra, che forse non vorrebbero, ma si sentono costretti ad ammettere che dal capitalismo non si esce e semmai si può, al massimo, correggerlo a suon di correttivi riformistici per quel tanto (un nulla!) che si può. (Avete presente Rifondazione, le sue tesi, i suoi programmi tutti incentrati sui giochetti elettoralistico-parlamentari?, la sua sostanziale sfiducia nelle masse che "non rispondono" e che bisognerebbe tutelare o risvegliare da... Montecitorio? E’ questo un tratto tipico di tutte le formazioni fuoriuscite dal solco marxista ed a nessuna di esse sarà dato liberarsene, sotto nessun cielo).

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Cos'è che muove la lotta di classe?

Seconda considerazione. A promuovere la necessità materiale, fisica, della ripresa non è mai stato né mai sarà una qualche volontà o coscienza di avanguardie organizzate, di partito, ai quali è demandato di anticiparla sì e di dirigerla; a farlo è il capitalismo stesso, contro ogni sua buona intenzione.

Se così non fosse, davvero staremmo freschi quanto a prospettive a venire! Nessuna predica potrà mai convincere il proletario che questa società è ingiusta e va abbattuta se la realtà stessa non viene a mordere nelle sue carni, ed è solo a questa condizione che la sua avanguardia, forte della scienza di tutto il corso storico capitalista -che è altra cosa dalla ricezione degli stimoli immediati-, può dare ad esso un indirizzo coerente che lo conduca ad aggredire il bubbone alla radice.

C’è un articolo di Barbara Spinelli (La Stampa, 12 dicembre) che sintetizza al meglio i nodi del conflitto "sindacale" francese a conferma di quanto diciamo. Lo seguiamo pari passo.

Il governo Juppé, "dicono i maligni", "voleva l’esplosione sociale, per meglio applicare i suoi tagli alla spesa pubblica... perché la crisi economica apparisse finalmente quella che è: non una parentesi passeggera ma una necessaria mutazione degli usi e dei costumi; non una correzione marginale dello Stato Provvidenza ma una sua rifondazione... Il governo nominato da Chirac voleva far capire che un mondo era finito". Il tumulto che ne è derivato "somigliava ad una rivoluzione", ma in realtà "anelava a conservare i vantaggi strappati nell’era felice della crescita" (ormai definitivamente alle spalle), contrapponendosi -conservatoristicamente- ai "veri rivoluzionari del momento -il governo assieme ai mercati, l’Europa di Maastricht assieme alla mondializzazione-" (e lasciamo stare la qualifica rivoluzionaria assegnata ad un modo sociale in agonia: quel che qui c’interessa è l’esatta descrizione degli scenari futuri e del loro carattere non locale, ma "mondializzato", internazionale!),

Avanti! "Ancor ieri sembrava ovvio che democrazia fosse sinonimo di prosperità, nonché di consenso. Adesso si sperimentano nuove forme di democrazia, più autoritarie, asiatiche: il caso francese mostra che non è possibile attuare radicali tagli alla spesa pubblica (la rivoluzione spinelliana!, n.), con il consenso di tutta la popolazione. Occorre una mano di ferro, e simultaneamente evitare di somigliare a Pinochet" perché ciò detta "la terribile realtà della mondializzazione". Un fenomeno tutt’altro che solo francese: "E’ anche italiano, spagnolo, perfino tedesco, e per superarlo non è neppure più chiaro se la socialdemocrazia e la strategia classica del consenso siano sufficienti. Saranno probabilmente necessarie misure molto più aspre, stile francese, che non è più possibile negoziare col metodo socialdemocratico del negoziato protratto per anni. Saranno necessarie nella stessa Germania".

Benissimo. E’ dunque assodato che la "mondializzazione" costringe il capitalismo a misure economico-sociali "più asiatiche" (non perché l’Asia venga oggi a prevaricare il vecchio centro occidentale, ma perché da qui il sistema capitalista si è espanso in tutto il mondo "asiatizzandolo", cioè: occidentalizzandolo secondo le regole del massimo profitto e il prodotto di ciò gli ritorna oggi indietro, erodendo ogni residua possibilità di far ricadere al di fuori di esso le contraddizioni sociali che ne derivano nelle metropoli stesse). Noi marxisti ci rallegriamo altamente della "cieca intransigenza" di monsieur Juppé: segno davvero che lì esiste una borghesia conscia dei suoi sovrani doveri e decisa ad affrontare il toro per le corna, costringendo quest’ultimo ad affrontare sul serio la lotta. (Qui da noi, tutto è infinitamente più souple, ciò che a molti sembra uno stato di privilegio da custodirsi gelosamente, mentre è nient’altro che il segno di una mancanza di nerbo di cui si dovranno, domani, pagare tutte le conseguenze ad interessi moltiplicati).

Tutte le conquiste che "appena ieri" potevano sembrare stabili o addirittura destinate ad incrementarsi -il benessere sociale, il welfare state, la conseguente pace sociale- devono essere tagliate, in quanto le leggi della competizione mondiale non permettono più il mantenimento di questi costosi gingilli. Tra essi la tanto decantata democrazia (che, come diceva Trotzkij, è il lusso del capitalismo affluente: un signor defunto!). Brava Spinelli: qui ci vogliono dei Pinochet che non sembrino tali...

Ogni atteggiamento "conservatore" da parte del proletariato non può essere, pertanto, che un accidente transitorio perché il capitalismo, per primo, non può più permettersi il lusso di esserlo ed è costretto ad abbattere le basi su cui s’era materialmente costruita la pace sociale metropolitana. Dilemma storico: o si accetta di disciplinarsi alle superiori esigenze della neo-"rivoluzione" capitalista, o si deve mirar dritto al cuore del sistema. Ed è quello che gli attuali "tumulti" (non dispiaccia alla Spinelli!) preannunziano.

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Necessità di una politica rivoluzionaria e percorso di essa

Potrebbe sembrare in contraddizione con quanto diciamo il fatto che, anche al culmine delle lotte in Francia, non si sia visto immediatamente (per l’appunto!) un di più di coscienza politica nel senso di una cosciente affermazione anticapitalista e men che mai di affermazione rivoluzionaria. Anzi. Poche bandiere di partito, scarse le bandiere sia pur genericamente rosse. Addirittura la convinzione generalizzata che si trattava di rispondere ad un attacco inatteso, anch’esso!, di "questo governo" per rimettere le cosucce al punto di partenza. Che si trattava di una lotta essenzialmente, se non esclusivamente, immediata, di carattere sindacale, senza eccessive valenze politiche. Sentimento che le organizzazioni riformiste, come vedremo, han fatto di tutto per incoraggiare. Il PCF si è affrettato ad assicurare (i borghesi): "Non bisogna far dire al movimento ciò che non dice. Il movimento, oggi, non è per un cambiamento politico"; figuriamoci se lo è per un cambiamento sociale!

Lo stesso, ed anche peggio, si sarebbe potuto dire per il movimento in piazza contro il governo Berlusconi, che pur partiva dalle stesse istanze e con non minore disponibilità alla lotta, ma che si è ancor prima fermato, delegando al Parlamento il compito di registrare la "domanda" che veniva dalla piazza.

Ebbene: nessuna contraddizione, ma una conferma ulteriore.

Noi non ci aspettiamo affatto che il semplice assaggio delle misure antiproletarie che si sta fucinando da parte borghese riallinei, per così dire, immediatamente il proletariato al suo programma ed al suo partito. Sino ad un certo punto di saturazione entrano in gioco nella faccenda questioni assai più complicate. Un proletariato che, lottando -sempre-, ha acquisito nel corso del ciclo precedente delle briciole, ed anche sostanziose, non può capacitarsi d’un tratto, e spontaneamente, che quel ciclo sia alla fine. Tanto meno potrà, immediatamente e spontaneamente, sbarazzarsi della propria fiducia verso il riformismo che quelle briciole gli aveva assicurato ed ora stenta anche solo a promettergli di riscattare per l’avvenire; o, quand’anche questa fiducia fosse venuta meno nei confronti di questa o quella "sua" organizzazione ufficiale, non viene, immediatamente e spontaneamente, meno la fiducia nel programma e nel metodo del riformismo, che si tratterà, al più, di sollevare in proprio quand’esso è lasciato cadere dalle tradizionali rappresentanze organizzate di esso.

Non è questa fantasticheria che ci sognavamo. Quello che ci aspettiamo, ed è accaduto, è che un proletariato che incomincia ad essere preso per la gola cominci a reagire, a lottare. Non importa, sino ad un certo punto, con quale ideologia si affronti l’inizio della battaglia. L’essenziale è che esso sia un fatto reale (condotto avanti, cioè, in prima persona e coi mezzi tipici dell’azione di classe, nei luoghi di lavoro e nelle piazze) e che segni uno sviluppo dell’unità la più larga possibile nella lotta tra le varie frazioni del proletariato.

Questo è quanto si è verificato in Francia, e sta esattamente qui l’anello concreto che si riannoda alla catena dell’indirizzo e dell’organizzazione politici, cui sarà obbligato, in un certo senso, a pervenire nel suo ulteriore svolgersi per rispondere ad un attacco non di "questo governo", ma del capitalismo. Certo, sarebbe "preferibile" se questa via più tortuosa potesse evitarsi, se agli occhi dei proletari potesse apparire subito evidente quel che i rivoluzionari sanno e dicono. Ma non possiamo proprio noi ignorare la tragedia che per decenni li ha segnati: lo sfiguramento ed il tradimento del programma comunista, l’annichilimento della sua organizzazione reale, il galoppo delle ideologie e delle pratiche riformiste sempre più inclinanti al liberalismo. Questo cancro è entrato nella pelle del proletariato, non di Francia solamente, ma di tutte le metropoli. Perciò esso deve ricominciare da molto indietro (sembrando esserlo a tal punto da prendere le distanze dalle formazioni riformistiche tradizionali contrapponendosi alla loro impotenza senza opporvi una complessiva visione politica in proprio o persino con l’illusione di poter fare a meno di una qualsiasi visione del genere); ma, contemporaneamente, dovendo confrontarsi con un nemico che è andato molto più avanti e a che questa stessa trincea lo obbliga.

La "disaffezione politica" attuale, se guardata dal nostro punto di vista, non segna affatto che le masse stiano costituzionalmente e per sempre dietro le organizzazioni che pretendono di rappresentarle, ma il sintomo di un disagio a ritrovarsi dietro bandiere incolori e impotenti. E’ il preannunzio di una ridiscesa in campo sotto nuove ed efficienti bandiere, perché è legge storica (a meno di ammettere la possibilità di un’integrazione d’interessi -oltre le ubriacature ideologiche- tra le classi antagoniste della società) che al fallimento di un vecchio movimento operaio succeda un nuovo movimento operaio. Nuovo nelle forme, nella radicalità dell’azione e degli obiettivi; non già nuovo rispetto al programma marxista, che esso, piuttosto, per dirla con Lenin, è chiamato a restaurare e riconfermare.

(Ed, ancora una volta: non è affatto indifferente che per i proletari che torneranno a muoversi non esista una tradizione organizzata cui riferirsi. In assenza di essa, il nuovo movimento operaio a venire per forza di cose risusciterà, partendo dal basso, tradizioni che l’esperienza del passato e la teoria marxista condannano come superate, in un’orgia di spontaneismo, anarco-sindacalismo, estremismo infantile etc. etc. Tutto starà nel vedere se, nel corso delle esperienze pratiche di lotta, questi vecchi arnesi arrugginiti potranno essere scavalcati a tempo e modo in presenza di un’avanguardia comunista in grado di mettere a frutto nella massa le lezioni della lotta stessa. Disegniamo delle possibilità e ci diamo dei compiti in materia: nulla di più, nulla di meno.)

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Inizi, sviluppi e conclusione del movimento di classe

Considerando le questioni sotto questa luce, è interessante notare come sia partita la lotta presente.

Se riandiamo alla grande agitazione dei ferrovieri nell’86, rileviamo una singolare replica -sotto molti aspetti- degli scenari attuali. Anche allora, il via era stato anticipato (non: creato, determinato) da forti agitazioni studentesche. Anche allora, aveva fatto seguito il movimento di una categoria particolare del proletariato (sempre quella dei ferrovieri), richiamando le altre alla lotta (seppure -ed è un dato di estremo interesse, a significare la diversità tra due fasi- rimanendo, in quella circostanza, largamente sola). Ed anche allora su questo ordine di successione si erano imbastite due opposte e concordanti speculazioni: quella dei fautori della primogenitura rivoluzionaria della non-classe degli studenti o delle categorie proletarie corporativamente più "mature" e quella sommamente forcaiola della contrapposizione tra "vero movimento operaio" (vero in quanto muto e ubbidiente alle leggi del capitale!) e categorie extra-proletarie o privilegiate.

Scrivevamo nel nostro opuscolo I ferrovieri e la ripresa della lotta di classe in Francia (febbraio ’87) a questo proposito:

"Certo, i ferrovieri francesi si sono avvalsi, più immediatamente, del potente esempio lanciato dal movimento di lotta degli studenti. Questi ultimi avevano lanciato un poderoso insegnamento: si deve, si può!... I ferrovieri lo hanno (raccolto) per primi, in Francia. Ma un vento sociale nuovo, potente, sta attraversando, in questi ultimi mesi, tutta l’Europa. E’ per questo che giornali, sociologi, politologi, intellettuali si sono mobilitati per circoscrivere, delimitare, ridurre la lotta dei ferrovieri ad una esperienza tutta locale, tutta nazionale, prodotta dall’estremismo reaganiano di uno Chirac (ed oggi ci risiamo di bel nuovo!, n.) e segnata dal corporativismo di settore, riedizione di un sindacalismo "autonomo" modello FISAFS. Le similitudini, innegabili, sono diventate, nelle pagine dei giornali interessati (a vario titolo tutti, dal Corsera all’Unità) quelle "deprecabili": i danni agli utenti, la difesa dei privilegi, la resistenza "di settore" a danno degli altri".

Ai forcaioli di tutte le risme dell’"interesse collettivo" (equivalente al... collettivo disciplinamento) noi opponevamo, già nell’86, la realtà di una lotta partita da un settore (non a caso: quello più "privilegiato" in fatto di acquisizioni materiali superiori a quella di altre categorie, purché si aggiunga: strappate con la lotta al governo, al capitale), ma potenzialmente tutt’altro che chiusa in sé stessa. Di apparentemente "corporativo" c’era solo l’inizio, il segnale dato all’insieme della classe, in quanto coinvolta al pari -ed anche più- dei "singoli ferrovieri" da uno stesso ordine di problemi; di realmente corporativo, e peggio, il disegno riformista di isolare questa lotta dal suo contesto generale di classe, con ciò colpendo questa e l’insieme.

Quanto all’esempio offerto dal movimento studentesco, dicevamo e diciamo: nessuna meraviglia che a muoversi per primi nella società siano strati socialmente indefinibili da un punto di vista di classe, come quello degli studenti. Il loro mettersi in moto è determinato dalle contraddizioni che la società borghese fa esplodere a tutti i livelli, anche a quello dell’istruzione, della cultura (pur tanto preziose come argine antiproletario!); è una prima risposta a ciò. Ma essa non può surrogare il proletariato; al contrario, essa ha un senso positivo giacché lo richiama in scena in quanto protagonista per sé (e per l’insieme della società, problema dell’istruzione compreso) dell’antagonismo sociale e chiave di soluzione rivoluzionaria di esso. Gli studenti, in determinate situazioni, possono segnalare rumorosamente il disagio sociale "generale" e assumersene a protagonisti; il proletariato può sul serio affrontarlo e risolverlo, rilevando realmente dalle mani impotenti degli studenti il vessillo di una riconsiderazione generale, di un rivoluzionamento, degli assetti sociali.

(Altro dato notevole: al massimo della sua esplosione, il movimento di lotta in Francia ha visto saldarsi attorno a sé la simpatia della maggioranza della popolazione, classi medie comprese. Ciò sta a riprova, per noi, di una tesi fondamentale: il proletariato può "egemonizzare" la "società" solo a condizione di lottare con decisione, di proporsi come la chiave di risoluzione dei suoi problemi generali, quelli che interessano un’infinità di strati e classi non-proletarie schiacciate dal capitalismo; è esattamente questo proletariato che può neutralizzare e attirare dietro di sé le classi medie minacciate di rovina, senza nulla concedere ad esse sul piano dell’ideologia e dei programmi; al contrario, è proprio un proletariato titubante, rassegnato alla corsa verso il centro per salvarsi la pelle a trovarsi ferocemente contro queste classi, come bene insegnano i casi del fascismo e dell’attuale pantano reazionario in Italia.)

Naturalmente, lo svolgersi della lotta nel senso da noi preconizzato è un dato "solo" potenziale, non deriva dalla pura immediatezza secondo un ordine naturale (per quanto l’oggettività del dato immediato, in quanto legata al concreto sviluppo delle contraddizioni sociali, materiali, spinga con maggior forza in una determinata direzione e non vada considerata come qualcosa di irrilevante, "a parte"). Occorrono dei salti di coscienza ed organizzazione per tradurre questa potenzialità in atto. In caso contrario, potremmo davvero assistere ad una ri-dissociazione tra gli elementi soggettivi cui la realtà oggettiva ha offerto l’occasione di compattarsi unitariamente. Potrebbe benissimo accadere, allora, che -provvisoriamente- una categoria "privilegiata" del proletariato sia giocata nel senso di una qualche gratificazione "in separata sede" per essere isolata e contrapposta alle altre; che una protesta come quella degli studenti venga separata dal movimento di classe (e, per logica conseguenza, trasformata persino in punta di lancia anti-proletaria, contro ogni premessa di partenza). A questo lavorano con coerenza riformisti ed opportunisti di tutte le risme, barcamenandosi con accortezza tra l’esigenza di salvaguardare le compatibilità capitalistiche e quella di non perdere il contatto con la propria base sociale, alla quale devono comunque delle risposte materiali (per transitorie ed illusorie che siano).

Noi diciamo solo questo: che, per quanto i nostri avversari possano mettere a frutto le risorse di egemonia sulla classe di cui essi dispongono, in quanto prodotto e riflesso di una precedente fase di sviluppo -oggi in agonia-, non potranno indefinitamente scansare la mutata realtà e, con essa, indefinitamente esorcizzare la necessità da parte del proletariato di far conseguentemente fronte ad essa.

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Il risultato permanente del ciclo di lotte attuale

Allo stadio presente, la lotta ha dato tutto quel che poteva dare: una scesa in campo col massimo di rabbia in corpo possibile, un primo alt o, almeno, un serio intoppo ai programmi di ulteriore smantellamento dello "stato sociale", la "riscoperta" di rivendicazioni e mezzi di azione radicali, la generalizzazione dello scontro sino a lambire i settori decisivi del proletariato, e, più, la trasmissione ad essi della sensazione, non foss’altro, che questa è una lotta che interessa l’insieme del proletariato, che dovrà essere una sua lotta ancor più generalizzata e radicale. Di più: essa ha richiamato attorno a sé l’attenzione e la concreta solidarietà di organizzazioni sindacali di ogni parte del mondo, dalla Germania agli USA, in quanto avvertite che qui, in Francia, non si giocano i destini di una frazione nazionale del proletariato, ma quelli di tutto il proletariato mondiale. Che per marzo sia stato indetto un incontro tra le rappresentanze sindacali di tutta Europa proprio a Parigi, la dice lunga sulle necessità di una "mondializzazione" della lotta proletaria e sull’avvertita coscienza di essa persino da parte dei boss ufficiali del peggior riformismo internazionale. (Da ciò non deriva, naturalmente, che costoro si metteranno all’opera per fondere sul serio i "rispettivi" proletariati e men che meno per dare ad essi un congiunto indirizzo rivoluzionario di classe, anzi: è certo che -se lasciato unicamente alla loro gestione- l’incontro parigino sarà studiato principalmente per evitare conseguenze del genere; ma non è senza significato che, ad esempio, i sindacati USA, mirando agli interessi del "proprio" proletariato, vale a dire delle basi della propria bottega di potere, debbano scendere sul terreno di una lotta a più vasto raggio, che impone gli sforzi congiunti dell’intiera congrega riformista internazionale: la "mondializzazione rivendicativa" non elimina il riformismo, ma ne erode la base anticomunista su cui esso si è eretto e ne predispone il rovesciamento).

Con ciò, il futuro ha fatto sentire le sue campane.

Quel di più che ci abbisogna è l’opera di indirizzo ed organizzazione politici che spetta all’avanguardia comunista (indissociabile da una sua full-immersion nella realtà del movimento, dovrebbe esser chiaro!). Come sempre, non si tratta di predicare delle "verità" fuori ed a parte del movimento concreto, ma di saper collegare ad esse, senza virgolettature, il massimo degli anelli possibili della catena rivoluzionaria: la conquista, in primo luogo, di militanti d’organizzazione dalle avanguardie espresse dal movimento spontaneo; ma, soprattutto, l’utilizzo di essi -dell’organizzazione- nella classe, ad indicare testardamente il senso dello scontro in atto, le rivendicazioni e le modalità di lotta adatte a farvi fronte perché il movimento cresca o anche, solo, sappia disciplinatamente ritirarsi provvisoriamente dalla lotta mantenendone intatte le acquisizioni di fondo per il futuro.

E’ su questo terreno che siamo costretti, oggi, a misurare tutte le nostre deficienze, e dobbiamo coscientemente farlo anche e proprio di fronte ad un esaltante ritorno della lotta. Come sottolineavamo nell’inserto teorico del numero precedente del nostro giornale, richiamando Lenin, dalla lotta emerge una "massa di spontaneità" che richiama una "massa di coscienza". E’ quest’ultima che oggi difetta al proletariato, anche al massimo delle sue esplosioni, e ciò si spiega benissimo con l’eredità, dura da smantellare, di decenni di ciclo controrivoluzionario. Saremo gli ultimi a chiudere gli occhi di fronte a questo vero e proprio macigno che incombe sul presente ed il futuro della nostra classe. Ma non dubitiamo che dalla "massa di spontaneità", alla quale il riformismo sempre più si rivela incapace di offrire risposte adeguate, si siano sin d’ora liberate delle energie suscettibili di fare il salto, a sentire le ragioni di una teoria, un programma, un’azione politica conseguentemente rivoluzionarie. Quando, come leggiamo, dalla base dello stesso PCF si levano le voci di disappunto per la "scarsa visibilità" del partito (Il Manifesto, 8 dicembre), avvertiamo un segnale in più che stanno maturando le condizioni proprio di questa visibilità del partito (non certo il PCF...) al quale sono chiamati i proletari più coscienti, fuori e contro le vecchie strutture ed i vecchi programmi che ciò inibiscono.

Lezione che egualmente si applica alla Francia, all’Italia, al mondo intero. E noi faremo intera la nostra parte, per quel che ci è dato, varcando tutte le frontiere.


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