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LA CINA TENTA DI "CHIUDERSI".
DUNQUE: ADDOSSO ALLA CINA!


La Cina non gode di buona stampa in Occidente da almeno un secolo e mezzo. Da quando l’incontenibile forza di espansione del capitalismo britannico "dovette" muovere l’assalto al Celeste Impero e squassare per sempre l’immobilità dei suoi rapporti sociali "patriarcali", e la stampa darne conto al suo più o meno inclito pubblico.

Da allora il marxismo ha fissato (e mai mutato) la sua tesi dialettica: il capitalismo con epicentro ad Ovest cerca in Asia e in Cina, uno sbocco risolutivo per le proprie contraddizioni. Ma non lo troverà. Anzi, svolgerà un’opera, sull’arco storico, assolutamente preziosa per il proletariato e per il socialismo, poiché introdurrà anche lì, con i mezzi più brutali, i rapporti mercantili moderni. Finirà così per esportarvi il proprio disordine. Vi susciterà disordine e rivoluzione. Questa rivoluzione (in un primo tempo necessariamente nazionale) inaugurerà un’era nuova per tutta l’Asia, ripercuotendosi "col tempo" sulle stesse metropoli verso cui la Cina e l’Asia esporteranno nuove ragioni di crisi e di "conflitti di grandissima portata".

Negli anni ’50 Amadeo Bordiga ribadì questa tesi spiegando a teste un pò refrattarie alla dialettica che, certo, le rivoluzioni "demo-nazionali" (niente affatto socialiste dunque, come da mistificazione mao-stalinista) in Asia prolungavano la vita del capitalismo, dando ad esso un sostanzioso, non breve, tempo supplementare. Ma, poiché è impossibile costringere nazioni di civiltà e grandezza della Cina e dell’India entro la camicia di Nesso della dipendenza neo-coloniale, gli "equilibri mondiali del capitalismo" ne sarebbero stati a lungo andare sconvolti. E il campo del proletariato avrebbe avuto di che rallegrarsi sia per l’incasinamento pauroso del campo avverso che, e più, per veder crescere in tutta l’Asia i propri contingenti fino ad allora limitati al Giappone. Abbisognava "solo" che i comunisti europei non avessero il ghiaccio in tasca e fossero capaci di un'attenta partecipazione alle vicende della nuova Asia.

Più di recente, incardinati su questi solidissimi binari, nei giorni del sinistro delirio intorno alla "rivolta studentesca" della Tien An Men, mettemmo in luce (cfr. Che fare, n. 17) quanto centrale sia diventata in effetti la Cina, la "questione cinese" per le sorti dell’intero sistema capitalistico. Nell’incombere -annunciato nel ’74- di un nuovo storico passaggio catastrofico del corso del capitalismo mondiale, l’Asia si presenta come l’"ultima frontiera" dell’espansione, e il "miracolo cinese" come il vero banco di prova della vitalità dell’economia di mercato. Assetato di (scarseggianti) profitti e mercati, l’Occidente gli ha conferito un febbrile impulso, concentrandovi fino al 50% (!) dei suoi investimenti nel Terzo Mondo. E’ suo interesse vitale che questo sviluppo duri. Ma, insieme ed ancor più, ch’esso rimanga sotto fermo controllo esterno, in condizioni di indefinita, e crescente, dipendenza dalla metropoli "finanziatrice" (in realtà: finanziata dai sovra-profitti che lì vi estorce). Identico, ma al contempo opposto, è l’interesse della borghesia cinese. L’apertura, non incondizionata, ai capitali e alle merci occidentali è per essa un mezzo, "reciprocamente vantaggioso" -dice-, per conquistare alla Cina piena concorrenzialità sul mercato mondiale e per evitare lo scatenamento degli antagonismi sociali e politici interni.

Questa convergenza di interessi antitetici non può andare avanti all’infinito senza manifestarsi per quello che realmente è: una via, alla fin fine obbligata, allo scontro tra Cina e imperialismo, e allo scontro di classe in Cina tra classe sfruttatrice interna/esterna da un lato, proletariato e masse contadine espropriate e in miseria dall’altro.

L’imperialismo non può tagliare il nodo gordiano cinese. Può solo renderlo, e lo sta rendendo, più inestricabile (salvo il ricorso ai mezzi bellici, già rivelatisi inefficaci nella prima guerra dei cent’anni con la Cina). Potrà invece tagliarlo, al momento propizio (che si avvicina), il proletariato, a condizione di far convergere e fondere le sue forze dai due "estremi" del pianeta per spezzare l’oppressione dei mega-stati imperialisti (USA in testa) e del neo-stato della famelica borghesia cinese, e ritessere il rapporto Est-Ovest su basi realmente cooperative e non mercantili.

La premessa (un pò lunghetta) serviva a dir questo: quando vedete la cinica stampa occidentale improvvisamente ansimare per i "diritti umani" dei cinesi, gli stessi che l’immondo colonialismo europeo e giapponese ha calpestato per un secolo (se ne vede un assaggino in Sorgo rosso), gli stessi che le imprese occidentali calpestano oggi nelle zone speciali su cui hanno messo le grinfie, siatene certi: c’è un'avvisaglia di collisioni con la Cina.

Negli ultimi mesi di brevi, ma intense campagne anti-cinesi se ne sono contate almeno tre: quella "pro"-donne cinesi in occasione della Conferenza ONU a Pechino (i cui araldi dimenticarono una vera minuzia: di essersi battuti fino all’ultimo respiro -e l’ONU ne sa qualcosa, avendo tenuto in anticamera per 22 anni la Cina popolare- contro quella rivoluzione "popolare" borghese che ha fatto fare alle donne cinesi un balzo in avanti di secoli); quella anti-pene capitali (in cui i soliti galoppini delle borse bianche, e dalle coscienze nere, omisero di spiegare che si trattava quasi sempre di criminali comuni); e infine la più toccante di tutte, quella d’inizio anno "pro"-bambini degli orfanotrofi di Shanghai (una città che ben conosce le amorevoli cure di "noi" occidentali che all’ingresso dei suoi più bei giardini apponemmo cartelli "vietato l’ingresso ai cani ed ai cinesi"...), bambini, dicevamo, massacrati, seviziati, torturati, s’è solo omesso di dire: violentati e spolpati vivi a colazione dai membri del "Partito"... ma questo le mammolette lo riservano per una futura occasione. Sapete quante decine di "dossier" sono già in stamperia per il momento "giusto"?

(Un pò in ribasso, invece, i peana per il Dalai-Lama, colto con le mani nel sacco dell’amicizia pericolosa col "guru" giapponese Asahara, quello degli attentati al gas nervino. Marginali come sempre, è ovvio, anche sugli organi della "sinistra", le notizie sull’ecatombe di operai morti in incendi di fabbrica: che diritti può riconoscere loro chi ambisce a succhiarne il sangue?)

Bene: sotto queste eruzioni di "lacrime" a comando, novanta volte su cento statunitense, c’è la reazione del capitale imperialista ad un nuovo, sempre più organico, tentativo di "chiusura" da parte della Cina. Usiamo le virgolette perché se non è stato possibile in passato alla Cina maoista percorrere una via "autarchica" di sviluppo secondo il modello staliniano, ancor meno lo è alla Cina oramai post-denghista tenersi fuori da quel mercato mondiale che tutto domina e a cui si deve parte cospicua del suo "miracolo". Non chiusura autarchica, quindi, ma rinnovato sforzo, di estrema complessità, per afferrare le redini di una crescita che rischia di finire completamente fuori controllo. Sia nel rapporto eccessivamente esposto con l’Occidente, sia per le diseguaglianze territoriali di sviluppo, sia per la rottura di un qualche equilibrio tra industria e agricoltura, sia per l’acuirsi dei conflitti sociali con protagonisti operai (anche disoccupati) e contadini poveri.

Nell’ultimo biennio in particolare si vanno, come in un puzzle in formazione, componendo le tessere di questo tentativo. A 15 anni dal varo di Shenzhen, la prima delle zone economiche speciali, è in corso un acceso "dibattito" sul loro destino, che ha messo in dubbio fortemente l’utilità, per la Cina, di permettere il consolidamento dei loro privilegi fiscali e amministrativi. E’ emerso, in esso, un vero e proprio "partito della centralizzazione", composto non da vegliardi "pianificatori" (e dove cavolo esistono più?) bensì spesso da giovani economisti di formazione accademica occidentale, convinti che le zone speciali debbano essere sottoposte a nuovi regimi meno liberisti, se si vuole che continuino a svolgere un ruolo funzionale all’intero sviluppo cinese. Utili in una fase di avvio perché hanno concentrato, invece che disperdere, i mezzi dell’accumulazione "originaria", esse, se lasciate a sé stesse, possono diventare un fattore dirompente della stessa unità dello stato e della nazione. E perciò viene riaffermato il ruolo centralizzatore, unificatore ed equilibratore dello stato e del governo centrale, già "canonizzato" nella riforma fiscale "anti-federalista" varata nel 1994, che prevede di innalzare progressivamente la parte delle entrate fiscali destinate allo stato centrale dal 41% attuale al 52% del 2000, per dirigersi poi verso la soglia, ritenuta "ideale", del 60%.

Deliberazioni certamente non più gradite alla finanza occidentale (padrona della stampa occidentale e delle "libere coscienze" dei suoi redattori) sono quella, unica nell’ambito dei paesi terzi debitori, di tenere in accantonamento una somma di valuta pregiata pari non ai debiti in immediata scadenza ma al debito estero globale -cosa bollata come assurdità anti-economica dagli analisti di Wall Street, specialisti nel "suggerire" ai paesi debitori come affogare nel bicchier d’acqua di crediti concessi loro col contagocce-. Ovvero quella che prevede di costituire entro la fine del ’96 in tutte le fabbriche a capitale straniero il sindacato di stato, onde "organizzare gli operai e gli impiegati per la salvaguardia dei loro diritti e interessi legali" ed assicurare in questo modo, anche "la stabilità dello stato" (Perspectives chinoises, giugno ’95, p. 14). Ovvero l’altra ancora che estende questa medesima misura precauzionale (su due lati, ossia anche contro la possibilità di sindacati indipendenti) alle società per azioni cinesi. O ancora quella "ridefinizione" della politica estera cinese che, oltre a contenere inabitualmente netti avvisi a Gran Bretagna e USA a non far passi falsi su Hong Kong e Taiwan, sta esplicitando con chiarezza l’interesse a stringere dei rapporti "particolari" con Mosca e col mondo islamico. Musica per le nostre orecchie (in fatto di contraddizioni inter-capitalistiche, e non certo di "fronti anti-imperialisti" con i Zuganov, gli Jiang Zemin o i Rafsanjani!). Preannuncio di una "seconda guerra fredda" tra USA e Cina per Kissinger, di uno "scontro epocale tra civiltà" per Huntington.

E’ di particolare rilevanza che la cornice ideologica e culturale di questa politica di auto-protezione dall’imperialismo (beninteso: che contiene la speranza di poter svolgere domani un ruolo imperialista autonomo) sia sempre meno, quasi per nulla ormai, il consunto formulario "marxista-leninista", sempre più invece un "nazional-confucianesimo" che funge da preservativo alle influenze occidentali e da ponte lanciato verso le parti della madrepatria ancora staccate, le comunità cinesi all’estero, Singapore e una serie di paesi asiatici minori di cui la Cina si pone a "naturale" punto di riferimento. Non potrebbe esserci, per noi marxisti, un passo più gradito di questo avvicinamento della classe dominante cinese alla "confessione" che la Cina maoista, denghista e post-denghista (in completa linea di continuità di classe tra loro, pur con tutte le differenze di forma, di cui vanne colte le implicazioni politiche) con il socialismo e la dittatura del proletariato non c’entrano un fico secco. La conflittualità nelle fabbriche e nelle campagne, che si segnala in ascesa, preannuncia un tale riconoscimento anche dalla nostra parte, ne è un’importante premessa.

Tutto qui. Non volevamo far altro che segnalare la cosa. Che questo tentativo di "chiusura" riesca o meno, con o senza traumi interni ed esterni è, evidentemente, tutto da vedere. Ed è chiaro che dovremo tornarci su a fondo, così come sull’accensione della lotta tra le classi in Cina. Per ora, comunque: occhio alle campagne anti-cinesi, ragazzi! Specie se il "piccolo imperatore" dovesse, pur semi-immortale com’e, tirar umanamente le cuoia.


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