RIFONDAZIONE: CON L'ULIVO O
CON GLI INTERESSI DEL PROLETARIATO?

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Come diciamo nell’articolo sui risultati elettorali, Rifondazione può vantare rispetto ad essi un successo sia in termini di "valori" percentuali complessivi, sia in quelli di un apprezzabile spostamento del voto operaio, in particolare nel cuore produttivo -piemontese e lombardo- verso le proprie liste.

Stando al nostro metodo, questi risultati non sono di per sé significativi di un gran che, ma neppure possono reputarsi indifferenti.

Con la prima proposizione tendiamo a sottolineare come l’indice di radicalizzazione, orientamento programmatico ed organizzazione di classe non stia in meccanica relazione con la "massa" dei voti, specialmente quando questa si attesta su percentuali, tutto sommato, ancora abbastanza ridotte. Sul totale dei voti raccolti da Rifondazione c’è un grosso plafond di protesta tuttora passiva, di simpatia alla lontana con chi "osa alzare la voce" in difesa dei "deboli" e degli "onesti", non influenzata direttamente da una presenza militante dell’organizzazione (tanto che si ottengono percentuali di voti alte anche laddove il partito non è quasi neppur presente) e ben distante dal voler raccordarsi ad essa. La stessa cosa accade in Francia, dove LO strappa un ragguardevole 5,3% dei suffragi pur disponendo in proprio di un paio di migliaia di militanti appena (ma militanti autentici -giudizio politico a parte-) e risultando praticamente assente su larghe fette del territorio nazionale, con una frattura verticale evidentissima tra voto ed adesione organizzata al partito. E, tuttavia, anche questo resta comunque un segno di tendenza da non sottovalutare e su cui spetterebbe al "contenitore" di lavorare adeguatamente.

Più direttamente interessante lo spostamento di voto operaio di cui s’è detto, in quanto collegato non solo sociologicamente al referente di classe comunista, ma a tutta una serie di manifestazioni di lotta, di embrionali sforzi di decantazione ed organizzazione politiche. E su questo si misura ancor più concretamente la capacità del "contenitore"-partito che ha captato questo voto e lo dovrebbe tradurre in fattore decisivo di orientamento ed organizzazione.

Il riformismo è finito. Quindi: di nuovo riformismo.

La nostra analisi (non "elettorale", ma complessiva) ci porta a dire che Rifondazione è portata organicamente a venir progressivamente meno a questi "suoi" compiti comunisti proprio a misura che (provvisoriamente) si gonfia il suo bottino elettorale.

La questione è molto semplice. Se dobbiamo credere a quel che spesso dice Bertinotti (e noi ci crediamo, eccome!), che sono finiti gli spazi per il riformismo, se ne deve trarre la conclusione che stanno perlomeno aprendosi gli spazi per un’azione comunista, rivoluzionaria, di classe, e questa andrebbe marcata nettamente anche sul piano elettorale. Se si aggiunge poi che, sempre stando a Bertinotti, la linea dell’attuale "sinistra", Pds in primis, è orientata verso uno svaccato "liberalismo moderato", privo di prospettive anche dal punto di vista borghese, tanto più ne discende la necessità di una inequivoca rottura con esso da parte dei comunisti che risulti ben visibile, a cominciare proprio sul piano degli orientamenti elettorali e parlamentari.

Il fatto è che, mentre si affermano tutte queste belle cose, il Prc le smentisce da cima a fondo nella sua pratica politica: nessuna rottura "a sinistra" (e non parliamo delle masse, ché sarebbe giusto, ma dei partiti che le "rappresentano"), anzi, massima disponibilità a concordare con essa cartelli e blocchi elettoraleschi, parlamentaristici e governativi quale precondizione per "battere la destra", purché sia concesso al Prc il diritto a giocare un ruolo riconosciuto (istituzionalmente) in questa congrega ed a mantenere in essa una propria identità ideale. E più il "liberalismo di sinistra" va diritto per la sua strada, snobbando le profferte della mosca cocchiera rifondatrice, più quest’ultima si affanna a protestare la propria disponibilità ad entrare nella squadra "a determinate condizioni", di cui la "controparte" si fa beffe.

E’ vero, naturalmente, che esiste una "destra aggressiva" contro cui occorre battersi, ma, il marxismo e la storia insegnano che non lo si può fare facendo blocco con una "sinistra borghese" costituzionalmente extra ed antiproletaria da un lato, e, troppo titubante rispetto alle "supreme esigenze" del capitale dall’altro, con l’effetto di spianare la strada alla destra in un duplice senso: mostrandosi capacissima nel promuovere lo scompaginamento del proletariato (col che non si batte alcuna forza borghese) ed altrettanto incapace a rappresentare stabilmente le esigenze d’ordine borghese. Insomma: è finita davvero l’epoca del riformismo e si apre quella della lotta antagonista del proletariato, o è finita l’epoca della classe operaia come soggetto e si apre quella del liberalismo di sinistra?

Isolato Garavini, vincente il "garavinismo"?

La linea Garavini risponde al quesito con brutale franchezza: basta con le "menate" estremizzanti, riconosciamo apertamente che non è più il tempo di "obsolete" centralità operaie, men che meno di comunismi e rivoluzioni, attacchiamoci a quel tanto di stato sociale che può essere preservato a condizione che vinca una sinistra liberale, schieriamoci unitariamente con l’Ulivo contro la destra cominciando a fare il nostro dovere nei riguardi del governo Dini che "attutisce" i colpi da portare (necessariamente) contro la classe preservandoci da Berlusconi... Questa linea è stata apparentemente sconfitta nel PRC, ma essa, nella sua coerenza da sinistra borghese antiproletaria, risulta alla fin fine vincente in esso. Ad essa, infatti, non si può rispondere con equilibrismi di facciata, ma con una chiara contrapposizione da cima a fondo; ed, invece, Bertinotti non può che farla sua, salvo, appunto, i contorcimenti estremi per dimostrare che si può diventare gialli e rimanere allo stesso tempo rossi.

Non "identificazione" con l’Ulivo, egli dice, ma "cartello elettorale" con esso sì. Molto più coerentemente, D’Alema gli risponde: ma che senso ha proporre un "cartello elettorale" se non si accettano (o si fingono di non accettare) le regole cui esso è subordinato? Se si accenna ad un blocco "anti-destra" e non si sposa la concreta politica della "sinistra" cui ci si pretende di collegare? Se ci si ferma al risultato anti-destra elettorale e non si sottoscrivono i patti (antiproletari) di governo che da esso derivano? Il Pds, in effetti, non "discrimina" Rifondazione; semplicemente la mette con le spalle al muro di fronte alle proprie responsabilità, ne svela le intime contraddizioni, e le bugie anche, cui essa è costretta a ricorrere nel tentativo di tenere il piede in due staffe.

La schizofrenia di Rifondazione rischia di arrivare a degli estremi. Così, nel numero del primo maggio di Liberazione, si possono leggere parole di fuoco contro il sindacato, reo (giustamente!) di svolgere un’azione antiproletaria di subordinazione al capitale, lasciando intravvedere la possibilità di una rottura con esso, come insistentemente chiedono i settori proletari "radicali" del partito, nello stesso momento in cui si insiste per l’"unità d’azione" sul terreno politico con quelle stesse forze che determinano l’attuale direzione sindacale. E’ paradossale. Di Bordiga si criticava in passato la formula "fronte unico sindacale e non politico" in quanto essa (presuntamente) tardava a tirare le necessarie conclusioni politiche dall’azione fronteunitaria sul terreno sindacale, comunque data quale presupposto irrinunciabile. Qui rischiamo di arrivare al "fronte politico (elettorale) e non sindacale", con una completa inversione dei più elementari termini marxisti.