Elezioni e società

"ITALIA E FRANCIA:
DUE LEZIONI PARALLELE"

Indice

Alcuni dati sulla Francia

Ubriachi e mascalzoni


Un filo comune collega le vicende politiche e sociali di Francia ed Italia (e si potrebbe andare anche oltre...). Polarizzazione degli antagonismi sociali ai due estremi, convergenza delle "rappresentanze" politiche al "centro". Una corda tesa che dovrà prima o poi spezzarsi. Spetta ai comunisti lavorare sin da oggi in vista di questa rottura per la soluzione rivoluzionaria dello scontro di classe. Chi non si mette su questa strada coopera alla disfatta del fronte di classe. In questo, riformisti vecchi e nuovi sono dei consumati maestri: le loro pecette "realistiche" non potranno in alcun caso far da argine all’offensiva borghese; possono sì predisporre disarmata la nostra classe allo scontro decisivo che si prepara.

Rubiamo il titolo di quest’articolo ad un intervento di L. Maitan su Liberazione del 26 aprile perché lo troviamo azzeccato. Non così, ahinoi!, la sostanza del ragionamento e la pratica politica che se ne deriva.

Maitan parte, in sostanza, dal riconoscimento di un dato essenziale, quello di "un contesto di crisi e lacerazioni profonde" nella società, in forza delle quali "strati crescenti non solo popolari, ma anche di ceto medio, inquieti per il loro futuro, rompono con le direzioni politiche tradizionali e sono sempre più sensibili ai motivi di una demagogia reazionaria". Ma ne trae subito due conclusioni false e malandrine.

Primo: lo schieramento borghese ne esce "più diviso che mai" (al suo interno "le differenziazioni non solo non tendono a scomparire, ma addirittura si accentuano"), in quanto "in ultima analisi, si stanno delineando tendenze borghesi che si preoccupano sempre di più delle conseguenze di un liberismo spinto alle estreme conseguenze e si chiedono se non si imponga una correzione di rotta in un senso, per così dire, neokeynesiano".

Secondo: a sinistra, dal PCF ai Verdi, passando per Lutte Ouvrière e, tutti, sotto l’egida del PS, cresce invece una convergenza in quanto i vari e distinti soggetti in questione "hanno in comune non solo il rifiuto dei progetti conservatori, ma anche il giudizio critico sul mitterrandismo e sull’esperienza socialdemocratica, sullo sfondo di un rifiuto più generale della politica delle classi dominanti".

(Questa convergenza, scrive il nostro, risulta, al momento, più difficile da costruire in Italia, ma anche qui, se dio vuole, le cose si aggiusteranno, a condizione di trovare un Jospin nostrano che corregga la "prospettiva di partito democratico all’americana" alla Rocard-D’Alema...)

Dov'è finito il proletariato?

Ciò che balza subito agli occhi, in tutto questo discorso, è che in primo luogo si fa astrazione da un serio discorso sul proletariato. Ovvero: ci si accontenta di constatare l’allentamento -od anche peggio, specie in Francia- dei suoi storici legami con i "propri" partiti di classe, ma non ci si chiede come mai ciò sia potuto e possa avvenire proprio in presenza di un processo accentuato di polarizzazione dell’antagonismo sociale, vale a dire quali siano, in questo, le responsabilità delle "organizzazioni tradizionali della sinistra" (troppo forte il termine "di classe"!), e meno che mai si fa riferimento ad esso in vista di un’"alternativa".

Il referente diventa (da un punto di vista sociologico) il "popolo" assieme ai ceti medi pensosi della propria sorte nel vortice della crisi e (dal punto di vista politico) un possibile vasto fronte ultrakeynesiano a correzione dell’ultraliberismo di una parte della borghesia.

Un discorso molto di centro, sia sociale che politico. In rotta di collisione con Balladur e "le correnti predominanti (non tutte, per carità!) in Forza Italia" e in concorrenza con quelle "neokeynesiane" o populiste di Chirac, Le Pen o Fini. E c’è da ben sperare, dal momento che la "demagogia reazionaria" della destra, in Francia e qui, "minaccia il movimento operaio" sì, ma rappresenta anche, nel contempo, un utile "elemento di conflittualità e instabilità per le classi dominanti e i loro schieramenti politici"!

La prima cosa che noi ci chiederemmo, in quanto comunisti, è: ma per chi vota la classe operaia?, e perché vota in questo modo?

Stando a dati analitici sufficientemente attendibili (per i quali attingiamo, in particolare, dall’Unità del 25 aprile), risulterebbe un 23% (o un 27, secondo altra fonte) di voti operai per Le Pen, un 21 per Jospin, un 15 per Hue (PCF) ed un 7 per la Laguiller (Lutte Ouvrière); il restante largamente per Chirac. (E pensare che ancora nell’88 gli operai avevano votato per Mitterrand al 42% al primo ed al 75% al secondo turno!)

E’ un quadro impressionante di smarrimento e disgregazione, tanto più che al 22% variamente "comunista" corrisponde un debole tasso di "autoriconoscimento" e mobilitazione attiva in quanto classe, fosse pure all’interno di compagini di per sé non certo rivoluzionarie: Hué ha ulteriormente espunto dal PCF l’immagine "proletaria" (di facciata) precedente e tra il voto a LO ed un inizio, almeno, di inquadramento di forze di classe in partito "rivoluzionario" c’è un vero e proprio abisso.

Se poi si vanno a vedere i dati relativi al voto dei disoccupati (sempre più giovani e di lungo periodo), le cose vanno ancor peggio: il 35% di essi avrebbe optato, al primo turno, per Le Pen, il 31 per Chirac, il 25 per Balladur, lasciando ben miseri resti alla "sinistra". Quindi: allo spappolamento politico del proletariato occupato si deve aggiungere una crescente "incomunicabilità" tra esso e la massa dei disoccupati.

Sull’onda di questi dati, ricorda l’Unità, sottoscrivendo, si potrebbe ben parlare, come ha fatto E. Todd sin da metà degli anni ottanta, del Front National come di "un partito politico della classe operaia" (con l’aggiunta: e del voto a Chirac come "più popolare che borghese").

Dal momento che la base di Jospin risulta composta per lo più da buon ceto medio, intellettuali in particolare, se ne possono desumere, stando a certe facce cornee, alcune interessanti conclusioni: la "sinistra" ha due volte ragione ad uscire dalla camicia di forza della classe operaia; primo, perché essa non costituisce "più" di per sé una possibile "centralità" su cui imperniare una "moderna società"; secondo, perché essa ha poi magari "scelto" di andarsi a schierare a destra in quanto "partito" per sé, corporativo.

E dov'è finito il partito?

Non torniamo a spiegare perché, per i marxisti, il proletariato costituisca storicamente l’ossatura di classe dell’antagonismo sociale ed il soggetto, quindi, dell’alternativa socialismo-capitalismo. "Storicamente" non significa automaticamente, spontaneamente, immediatisticamente. Significa comprendere, però, che unicamente sulla base dell’assunzione di questo antagonismo si può uscire dal capitalismo -cioè da un sistema che, per noi, è destinato a morire e non presenta alternative di sopravvivenza rigeneratrice al proprio interno. Il che comporta il riconoscimento del compito soggettivo di costituzione del proletariato da classe in sé a classe per sé e quindi in partito.

Vi è partito del proletariato quando vi è un programma ed un’organizzazione comunisti. In caso contrario, si può ben assistere ad un’adesione di proletari ("cittadini" borghesi) a partiti estranei ed avversi ai propri interessi storici di classe: fenomeno ben noto sin dai tempi di Marx ed Engels (ricordiamo di quest’ultimo le osservazioni sulla "nullità politica della classe operaia inglese" del suo tempo ed il suo ridursi a stare "alla coda dei partiti liberali borghesi"). Un tale "inconveniente" è spiegabile con fattori oggettivi (le risorse materiali del capitalismo, capaci -in determinati cicli e determinate aree- di corrompere il proletariato) e con fattori soggettivi (la disparità di forze tra organizzazioni politiche legate alla borghesia ed organizzazioni comuniste nell’azione ed influenza nella classe).

Un "autore" sconosciuto a Maitan, tale Trotzkij, osò affermare che nell’era del capitalismo imperialista putrescente, allorché tutte le condizioni oggettive per il socialismo solo non solo mature, ma stramature ed anzi prossime a marcire, il problema dei problemi si riduce, "in ultima analisi", a quello della "direzione". Se non la si intende come inno al volontarismo imbelle dei troppi aspiranti alla "costruzione del partito", ci siamo perfettamente.

Alcuni dati sulla Francia

Attingiamo a Le Monde Diplomatique / Il manifesto di aprile e da articoli sparsi dell’Unità.

La società è spaccata. Il 20% della popolazione si accaparra il 44% del reddito ed il 68% del patrimonio nazionali. Ad un 60% della popolazione spetta solo il 12% di quest’ultimo.
Il tasso di disoccupazione, che era del 3% nel ’73, supera oggi il 12. Quello giovanile è del 12,7 nella fascia dei diplomati del primo ciclo universitario, ma arriva al 38,5 tra i non diplomati.
Tra il 1987 ed il ’90 i redditi da capitale sono aumentati del 7,5% annuo, quelli da lavoro dello 0,9. Nel ’92 eravamo, rispettivamente, al 7 ed allo 0,1%.
"Una società industriale matura come quella francese non è affatto un amalgama di un "immenso ceto medio", consensuale, prospero, felice, un 80% più o meno omogeneo contrapposto ad un 20% di esclusi ed emarginati..., bensì è divisa pressoché a metà" e ne emerge un conflitto "tra classi medie e classi popolari, tra classi medie che vogliono pensarsi come élites e classi popolari che non si sentono più rappresentate da alcuna dottrina e alcun programma... Attenzione, la Francia popolare esiste sempre. Non sono "esclusi", ma gente che lavora" (E. Todd, a correzione di uno scritto dell’88 sulla "fine del proletariato"). Manca il senso della "rappresentanza", ma non mancano né il conflitto né il soggetto. Potranno mancare per sempre "una dottrina ed un programma"?

L’attuale atmosfera elettorale francese -sono stati in moltissimi a notarlo, a cominciare dai borghesi avveduti- è stata contrassegnata dall’affiorare prepotente di un’irrisolta ed anzi aggravantesi questione sociale che ha per soggetto proprio (indovinate chi?) il proletariato. Questo il tema con cui anche un Chirac ed un Le Pen hanno sentito di doversi confrontare. L’antagonismo sociale viene sempre più al dunque. E, in contemporanea, il nostro soggetto va, politicamente, come abbiam visto. In modo pessimo.

Di chi la colpa? Del proletariato stesso -suggerisce la "sinistra"- così poco incline a comprendere le virtù dell’ultrakeynesismo da essa proposto (sulla carta), a differenza delle classi "acculturate" del ceto medio e dell’intelligentzija. Noi diciamo: "colpa" di un ciclo di capitalismo affluente che ha permesso per decenni la cloroformizzazione dell’antagonismo storico proletariato-borghesia e del concorso ad esso della "rappresentanza" politica ufficiale del proletariato stesso.

Il "mistero" dell’attuale, provvisoria, collocazione politica della nostra classe si può ben comprendere se andiamo ad esaminare le vicende attraverso le quali il "nazional-comunismo" francese ha corrotto e deviato le sue energie, portandole infine alla dispersione fuori dal suo stesso alveo. Senza riandare a tempi troppo remoti (dai quali, comunque, non si può prescindere) basti pensare alla cauzione data dal PCF -e, sul piano della "sola tattica elettorale" anche da LO- al mitterrandismo sino alla compromissione ministeriale con esso, al tardivo scioglimento di tale legame senza mai abbozzare un programma alternativo di classe, alla rincorsa successiva alla "conquista del centro a partire dal proletariato" ed al finale "rinnovamento" del partito in senso interclassista, il tutto sulla base della difesa della "nostra grande patria", del "nostro capitale". La "compatibilità" con tali esigenze "superiori" entra oggi in rotta di collisione con le necessità immediate, irrinunciabili, della classe; ma per il modo in cui ci si è arrivati, tutto ciò va in controsenso -provvisoriamente, ripetiamo sempre- rispetto allo sbocco storico marxisticamente "naturale".

La ricomposizione politica del proletariato implica, né più né meno, la necessità di una rottura con questa linea d’indirizzo catastrofica. Essa è necessaria e possibile. Che lo sia, lo dimostrano proprio anche i tentativi della destra di darsi un volto "operaista" e/o "popolare" ed il loro inevitabile cozzare con quelle che sono le leggi del capitale, che procedono in senso inverso. Questo è il dato per noi confortante, di contraddizione crescente tra proletariato e borghesia che spetta ai comunisti "organizzare", e non quello di una contraddizione "all’interno delle forze borghesi" che esso farebbe emergere stando a rifondellatori del calibro di un Maitan.

Keynesimo di ritorno o sciovinismo imperialista?

Ma, dopo aver più o meno esplicitamente rinunciato al referente di classe ed alla sua prospettiva comunista rivoluzionaria per tuffarsi nelle "sicure" acque della "nuova sinistra" di Jospin (accreditato di un "inizio" di messa in causa del capitalismo, proprio mentre costui ha definito le velleità "radicaloidi" riaffiorate in settori del PS come "della merda" passatista), dopo tutto ciò Maitan addirittura si immagina che la "politica" del capitalismo francese, anche con Chirac, si stia avvicinando al... neo-keynesismo (cioè allo stesso terreno, fondamentalmente, della "sinistra").

Ora, la verità è tutt’altra. Il richiamo alla comprensione delle "giuste esigenze popolari", quando non è pura demagogia, si collega in Chirac ad un rilancio della grandeur francese, alla necessità di occupare o rioccupare gli spazi che alla Francia competono sull’arena della competizione internazionale, ad un ritrovato ruolo economico, politico e militare del capitalismo francese e, su questa base, alla ricostituzione di una union sacrée di "tutti i francesi" (a cominciare, se volete, dai proletari: carne da plusvalore e, all’occorrenza, da cannone).

Bisogna essere ciechi per non vedere come, nel ciclo che si apre, siano davvero finiti i tempi del keynesismo classico (tra l’altro, molto astoricamente idealizzato) e comincino, invece, quelli di uno scontro a coltello sul mercato internazionale nel corso del quale qualcosa da "redistribuire" al proprio proletariato è concepibile solo a patto di una feroce irreggimentazione di esso sotto le bandiere dello sciovinismo. (Un traguardo, in Francia particolarmente, tutt’altro che estraneo alle "tradizioni" storiche del "movimento operaio" ufficiale).

Questa tendenza si può invertire solo cominciando sin d’ora a ristabilire i cardini di un programma e di un’organizzazione di classe che rompa l’incomunicabilità tra occupati e disoccupati, tra lavoratori indigeni e "stranieri", tra proletariato francese e le altre sezioni del proletariato internazionale (e non c’è nulla di "fantasioso" in questo, vista la riaccensione dei conflitti sociali, degli scioperi -da ultimo quello vittorioso dei giovani contro il sottosalario d’ingresso o quello nel settore trasporti-, delle manifestazioni antirazziste etc.). Un programma ed un’organizzazione che devono passare sul cadavere non solo della destra, ma della "sinistra" di Jospin, del PCF, delle stesse altalene "tattiche" di L.O.

Un compito che "fa tremare le vene e i polsi", certamente. Solo che i comunisti sono provvisti delle une e degli altri. A differenza delle amebe di certa "sinistra" franco-italiota...


Ubriachi e mascalzoni

L’Unità del 14 aprile ha dedicato un articolo alla candidatura di Lutte Ouvrière al primo turno delle presidenziali francesi. Il pezzullo, a firma Gianni Marsilli, merita di essere segnalato per dimostrare fino a qual punto di livore anticomunista ed antiproletario tout court si possa arrivare da parte della "sinistra democratica" rampollata dallo stalinismo. Dello stalinismo vi è conservato intatto tutto l’armamentario di calunnie ed avvertimenti omertosi (in mancanza di "meglio") contro l’opposizione comunista, ma, stavolta, espressamente a favore del capitalismo. Un buon avvertimento anche per chi, in Italia, tra le fila di Rifondazione o più in là, osasse mettere in discussione il regno del profitto.

Dunque. La Laguiller , da trent’anni a questa parte, non ha mancato una manifestazione di piazza che sia una "dove c’era da impalare (!) un capitalista, un padrone, un’impresa pubblica o privata che fosse". (Per impalare il Marsilli temiamo si dovrà procedere dalla testa). Quelli di LO "costituiscono la formazione politica più clandestina di Francia" (tanto clandestini da... essere presenti in tutte le manifestazioni di cui sopra). "Il loro settimanale è un delirio nutrito di certezze granitiche, come un incubo popolato da paesaggi lunari dove arriva l’eco della primissima lontana bolscevizzazione". Si cita a dimostrazione di ciò un passaggio, che ripete semplicemente il "primissimo lontano" Marx di sempre e si commenta: "Pre-terrorismo o nel migliore dei casi -direte voi- ubriachezza molesta". E Pasqua non fa nulla?

Disgraziatamente, aggiunge il "sobrio" Marsilli, "c’è la crisi sociale, vera e profonda. E qualcuno che grida "abbasso i padroni", senza "se" e senza "ma", non ha vita troppo difficile..." Ovvio che, per gli specialisti del "se" e del "ma", la crisi sociale non può essere eliminata né combattuta perché significherebbe mettersi contro il sistema, di cui è un passaggio "naturale" da rispettare. In compenso, si potrebbe vedere di rendere la vita difficile a chi trova qualcosa da ridire.

Tocco finale. "Non ha figli né marito, Arlette. E’ tutta per la causa. Perché il capitalismo, per la miseria!, deve morire. E che il socialismo operaio ricominci da Parigi". Per chi, presumibilmente, ha consorte, figli, conti in banca, e si prodiga perché il capitalismo non muoia, che un militante si dedichi completamente alla causa avversa non può suonare che come ignominia e scandalo. Ah, i malfattori!

A questo punto, c’è più da stupirsi per un Fini che si dichiara "allievo di Gramsci" o per un giornale che tuttora reca la dicitura "fondato da Antonio Gramsci"? Per figuri del calibro di quest’articolista e dei suoi committenti, un "ubriaco molesto" francese avrebbe un’indicazione sicura: à la lanterne! (liberamente traducibile in tutte le lingue).