LE ELEZIONI AMMINISTRATIVE:
UNA "GRANDE VITTORIA" O UNA GRANDE (E PERICOLOSA) ILLUSIONE?

Indice

Disaffezione al voto e "disaffezione" al proletariato


C’è molta soddisfazione, a sinistra, per l’esito delle elezioni. La destra ha subìto una disfatta, si dice. Non solo il centro-sinistra ha vinto, ma con l’apporto di Lega e Rifondazione potrà, si spera, addirittura sfondare in futuro. L’incubo-Berlusconi si allontana. Nella base proletaria di Pds e Rifondazione c’è un’attesa carica di fiducia per le prossime politiche. L’ingresso della sinistra al governo appare finalmente a portata di mano. Ora, bisognerà solo stare attenti a non lasciarsi sfuggire la "storica occasione"...

E’ fondata questa analisi trionfalistica del voto e dei processi sociali e politici in atto? E’ realistica la prospettiva di sconfiggere la destra per via elettorale? Ed un eventuale governo Prodi sarebbe per davvero un esecutivo "amico" della classe operaia e dei lavoratori?

A queste tre domande rispondiamo con un triplice no. Ed andiamo subito a spiegarne le ragioni. Vedremo poi, sgombrato il campo dalle illusioni che oggi impazzano, qual è la sola via che può consentire al proletariato di respingere un attacco capitalistico che non conosce tregua, e passare all’offensiva con l’obiettivo di conquistare per davvero il governo della società.

La destra del Polo non è affatto alla frutta.

Cominciamo dall’analisi del voto.

Al Polo non è riuscita quella rivincita immediata sul "ribaltone" a cui mirava. Ma, specie per quel che riguarda le regionali, è del tutto falso che abbia subìto una disfatta.

Ha ampliato il suo consenso elettorale (si fosse votato in Sicilia e nelle altre regioni a statuto speciale, la sua percentuale di voti sarebbe stata ancora più alta del 42%). Ha nelle mani il governo delle tre regioni padane che sono il cuore produttivo del paese, e le due più industrializzate regioni del Sud. Ha ottenuto questo risultato senza la Lega. Con uno schieramento più compatto, quindi, di quello del 27 marzo. Questo, sebbene Forza Italia non avesse neppure un minimo di radicamento e di strutture territoriali operanti. E sebbene le regole della "par condicio" le avessero parzialmente spuntata l’arma televisiva. Non è poco.

Non deve sfuggire, poi, che l’ex-Msi ha avuto i suoi migliori risultati proprio in quel centro-nord in cui da decenni era ridotto ad una presenza irrilevante, dove gli era difficile perfino parlare in pubblico. Facendo ricorso ai fessi numeretti, si può notare che in Lombardia An ha preso il 4,2% in più dell’anno scorso; in Piemonte, Liguria e Veneto il 3% in più; a Bologna, con il 18%, è il secondo partito dopo il Pds; a Firenze è al 15%. E, al di là del voto, -non è solo la storia passata a ricordarlo-, nel centro-nord lo schieramento alla destra più estrema delle forze borghesi ha una valenza anti-operaia ancora più marcata (e, potenzialmente almeno, più militante) che al Sud.

Insomma, pur avendo perso l’alleato leghista, il blocco di destra del Polo, costituitosi quasi dal nulla appena un anno fa, si è confermato e (relativamente) consolidato. Dimostrando di non essere né un artificiale spot televisivo, né un semplice cartello elettorale, ma l’espressione politica di una spinta sociale borghese ben più forte e ampia dei meri interessi "privati" del padrone della Fininvest -che, casomai, ne costituiscono un residuo handicap, non il punto di forza-. Una spinta ad andare avanti, in profondità, nella aggressione alle condizioni di lavoro e di vita, ed alla organizzazione sindacale e politica del proletariato, a cui la battuta d’arresto elettorale sta dando nuovi stimoli.

La destra leghista tiene...

Anche la tenuta della Lega di Bossi, superiore a tutte le previsioni (incluse le nostre), va iscritta all’attivo della destra. Parliamo di destra, destra borghese, capitalistica, nonostante Bossi si sbracci ora ad auto-definirsi di centro, perché per noi marxisti la collocazione dei partiti politici non è legata a ciò che i partiti dicono di sé stessi, ma a ciò che essi sono realmente. A ciò che fanno, agli interessi di classe che servono, alle soluzioni che perseguono per i problemi sociali e politici con cui sono alle prese le diverse classi della società. Ebbene, nonostante la rottura del patto con Forza Italia e An, la Lega non ha mutato di una sola virgola la sua linea d’azione anti-proletaria, fondata sull’ultra-liberismo e sul federalismo. Il suo referente di classe è restato quello di sempre: l’interesse del piccolo-medio padronato padano ad accumulare profitti sulla pelle degli operai e dei proletari, al riparo da ogni "intromissione" dello stato (del fisco) e del sindacato. La Lega è una forza politica "geneticamente" non consociativa, perciò non centrista.

Se ha fatto corsa a sé rispetto al Polo, per giunta con una accesa campagna anti-berlusconiana ed "anti-fascista", non è stato per una improvvisa convergenza con gli interessi e le tradizioni della classe operaia, ma per motivi che hanno tutt’altro segno di classe.

I sciur Brambilla leghisti si sono rifiutati di continuare a legittimare la leadership di Berlusconi e di Forza Italia per il timore di essere sacrificati sull’altare degli interessi centralizzatori del grande capitale. Per loro Berlusconi è il grande capitalista per eccellenza che vuol fagocitare e schiacciare i piccoli capitalisti, ed a misura che è questo il loro ristretto punto di riferimento, non è certo meglio, tutt’altro!, della petizione "monopolistica". Di certo, il loro "anti-monopolismo", che si gabella per antifascismo, non contiene alcuna concessione alla classe operaia: semplicemente vogliono, dal grande capitale, più garanzie per sé, una quota di profitti e di rendite meno compressa di quella attuale.

In secondo luogo, la Lega riteneva la permanenza al governo di An, considerata non a torto la rappresentante di una certa borghesia meridionale che ha prosperato con i finanziamenti statali, un ostacolo duro ad un federalismo radicale favorevole alle regioni del Nord. Non è il caso, perciò, di prendere sul serio il suo pugnace (a chiacchiere) "anti-fascismo". Non si tratta d’altro che di una pacchiana mascheratura del suo tradizionale anti-meridionalismo. Quando Bossi dice fascismo, traducete: Sud, e non sbagliate.

Terzo: davanti alla capacità di resistenza unitaria di cui ha dato prova il proletariato in autunno, il padronato leghista non si è sentito pronto ad andare ad uno scontro frontale immediato con esso. Non gli è parso tatticamente utile mettere a rischio la lucrosa "pace sociale" esistente nelle proprie imprese, giusto in un periodo in cui produzione ed esportazioni tiravano a più non posso. Ed ha preferito prender tempo, continuando però, con Dini (al centro) e le politiche federaliste (in periferia), l’opera d’erosione della unità del fronte proletario. I nuovi attacchi frontali alla classe operaia sono soltanto rinviati.

... e non va affatto a sinistra.

Il Pds e, in parte, anche Rifondazione hanno invece accreditato questo borghese calcolo di bottega della Lega Nord, finalizzato a ri-contrattare al rialzo l’alleanza col grande capitale per meglio regolare poi i conti con i lavoratori, come una convinta apertura "a sinistra". Dando a Bossi e soci -riscoperti per l’occasione come campioni della democrazia e addirittura, uno spettacolo grottesco!, acclamati il 25 aprile là dove un anno prima erano stati bollati per fascisti- un non indifferente aiuto a frenare la diaspora leghista. Grazie anche all’apertura di credito della sinistra, la Lega resta così piuttosto ben radicata nel nord-est, specie nella provincia più profonda dove più forte è il secessionismo. E ridà alimento al virus federalista, disgregatore -insieme- della unità nazionale borghese e del tessuto unitario del movimento proletario. Un federalismo che non si sente appagato, ed è quanto dire, neppure dallo sbracatissimo "autonomismo" pidiessino.

Ci si può obiettare che ai ballottaggi l’elettorato leghista ha votato in massa per il centro-sinistra. Anche qui: attenzione agli abbagli. Lo ha fatto meno, molto meno di quel che si vuol credere a sinistra. Esso, in realtà, si è diviso in tre. Una fetta cospicua ha disertato le urne (questa volta la affluenza alle urne è calata di molto anche al nord). Una piccola minoranza ha votato per il Polo. Un’area più consistente, per il centro-sinistra, per uno "stato di necessità" e giudicando, a ragione, che i propri interessi di classe trovassero miglior ascolto tra i detestati avversari "progressisti" che tra i consanguinei del Polo delle libertà delle imprese (con cui è in corso una lite in famiglia). Ma la base sociale rimasta fedele a Bossi è, come il suo capo, pronta a cambiare direzione, solo che dal centro-destra e dal grande capitale vengano rassicurazioni più convincenti sulla tutela degli interessi del padronato lombardo-veneto. Se ne può esser certi: la Lega giocherà la sua tenuta non per favorire la sinistra, ma come arma di ricatto contro di essa, e -soprattutto- contro la classe operaia. Ci risentiremo molto presto, in proposito.

La sinistra fa il pieno dei voti proletari, ma...

Ciò detto, per riportare alle giuste proporzioni la "sconfitta" del Polo, e per segnalare come -nel suo insieme- il seguito delle destre (quella thatcheriana o aspirante tale, quella missina e quella leghista) si è non ristretto bensì allargato nella società, è indubbio che tanto per il Pds quanto per Rifondazione il voto è andato bene. Entrambi i partiti hanno guadagnato ulteriori consensi nella classe operaia e tra i salariati.

E’ stata, principalmente, la messa a frutto (per fregarle) delle lotte di autunno. La lotta al governo delle destre ha portato, o riportato, a sinistra parte del voto proletario (e di quello giovanile) che nel marzo ’94 fu catalizzato da Forza Italia e dalla Lega. Mirafiori, le cinture operaie di Milano e Venezia, di Genova e La Spezia, i quartieri di Roma sud, le aree a maggior densità operaia e bracciantile del mezzogiorno: è un dato omogeneo, che riflette un rinserrarsi (avvenuto nella lotta) delle fila del fronte di classe. Per il proletariato è la sola indicazione, o meglio: conferma, positiva che esce (non nata in esse) dalle urne.

... senza protagonismo operaio.

Ma a questo non ha corrisposto affatto un maggior protagonismo politico della classe operaia.

Anzi: mai come in questa circostanza le direzioni riformiste hanno lavorato intenzionalmente a deprimere la iniziativa di classe, e a mettere la sordina alle aspettative ed ai bisogni dei lavoratori affinché non turbassero le grandi manovre d’avvicinamento al centro, agli interessi grandi-borghesi e sotto-borghesi che il centro politico rappresenta. Proprio dove maggiore era stato il vigore della lotta operaia, le elezioni hanno fornito il destro per imporre al proletariato il massimo grado di rinuncia politica, con la proposta di candidature di banchieri e di industriali (Bentsik, Pichetto) o di impresentabili figuri democristiani quali Masi. Ed all’indomani della "vittoria", casomai a qualcuno -nella classe operaia- saltassero strani grilli per la testa, D’Alema s’è affrettato a iscrivere il suo partito, fresco fresco d’adesione alla socialdemocrazia, direttamente al liberalismo, la ideologia classica del capitalismo e dello sfruttamento capitalistico. E, in aggiunta, affinché questo ennesimo passo del Pds verso il centro-destra non sembrasse una mera scelta ideologica, lo stesso D’Alema ha annunciato dalla City londinese, centro storico della speculazione e della reazione mondiale, che presto il Pds cancellerà l’ultimo segno, pur meramente simbolico, del glorioso passato comunista dell’ex-Pci, la falce e martello.

Il successo elettorale del Pds, insomma, non solo è stato ottenuto a spese della mobilitazione operaia (che è stata frenata per non spaventare i pavidi ceti medi... "progressisti", e figurati se erano conservatori!), ma porta con sé, come naturale conseguenza ("dobbiamo mostrarci pronti a governare il Paese"), una sottomissione alle "compatibilità" capitalistiche, ai voleri dei "mercati internazionali", ancora più completa di quella avuta sinora.

E Rifondazione?

Neppure Rifondazione ha fatto gran che per dare continuità alla mobilitazione di massa dell’autunno, preoccupandosi piuttosto -si veda il suo atteggiamento sul tema delle pensioni- di lucrarne sul piano elettoralistico. Né si può dire che il Prc stia facendo del suo successo un uso antagonista (per dirla con una parola cara a Bertinotti). Al contrario: dopo avere respinto con sdegno la provocazione del "voto utile", ecco i suoi dirigenti offrire i propri voti alla coalizione di centro-sinistra, chiedendo in cambio appunto (e appena) il riconoscimento della loro... utilità. E poco importa se da Prodi, e non solo da lui, arriva una netta chiusura su tutti i punti di programma che il Prc ritiene fondamentali per presidiare in qualche misura un welfare state sempre più mutilato e combattere la disoccupazione. E’ prioritario "battere la destra"! E al riparo di questa formula, buona da mezzo secolo a tutti gli usi e gli abusi contro gli interessi del proletariato, Garavini e la pattuglia di Magri trainano tutto il partito al rimorchio di un centro-sinistra, che di sinistra ha sempre meno, e di proletario (e comunista) assolutamente nulla.

Il voto dato a Rifondazione non contiene una domanda di comunismo (per il comunismo si "vota" con armi un pò differenti dalle schede di carta straccia). E’ un puro voto di opposizione alle destre, di protesta contro le crescenti diseguaglianze sociali. Che contiene ancora, nella maggior parte dei casi, più una delega a fare resistenza (entro le istituzioni del capitale), che la disponibilità ad impegnarsi in prima persona nella battaglia contro la classe dei capitalisti. Lo sappiamo bene. Ma il fatto è che Rifondazione gestisce il disagio e la domanda di lotta che un settore comunque reattivo del proletariato e della gioventù gli rivolge, in modo inconcludente, moderato, perché sempre più rispettoso degli "interessi del Paese", senza riuscire a dargli una vera consequenzialità programmatica e di azione neanche sul terreno di una coerente difesa immediata degli interessi del salariato.

Dunque: un accresciuto accorpamento a sinistra del voto operaio e proletario sì, ma nel quadro di una diminuita attività politica e sindacale (per sé) della classe operaia e del movimento dei lavoratori. Che, dopo queste elezioni e la presunta disfatta delle destre, si ritrovano meno forti e centrali di prima, non solo nella società ma anche nella sinistra (come gli stessi vertici della FIOM hanno di recente sentito la necessità di denunciare).

Nelle regioni "rosse" avanza il bianco (e il nero).

La seconda componente del vantato successo delle sinistre è data dalla conferma, nelle regioni "rosse", del blocco "progressista".

A stare alle cifre, mai come in questo caso ingannevoli, in Toscana e in Emilia-Romagna, il tempo pare essersi fermato. E con esso la lotta di classe. Tradizione rispettata: le regioni "rosse" restano tali. I rapporti tra proletariato e piccola-media borghesia sarebbero da quelle parti, "come sempre", ottimi. Ma se si guarda un pò più a fondo dentro lo "straordinario successo", si vede che su di esso i ceti medi hanno posto diverse, pesanti ipoteche anti-proletarie:

  1. un accentuato autonomismo, che attizza la competizione tra i proletari delle diverse regioni, e corrode l’unità di classe;
  2. la rottura a sinistra, con il brutale ricatto posto ai comitati regionali del Prc: "sottoscrivete la politica economica del governo Dini, o restate fuori dalle intese"; ciò che equivale a lavorare per quella disintegrazione regionalista di Rifondazione, cui proprio la federazione toscana (guarda caso) del Prc ha dato il là;
  3. il totale monopolio delle candidature ai ceti professionali ed agli altri strati borghesi e, contemporaneamente, la fine del monopolio degli eletti "di sinistra" anche nelle realtà in cui il Pds sfiora, da solo, il 50%. C’è sempre più... bianco (Bianco!) nei programmi e nel personale delle giunte "rosse". Un particolare emblematico: alla festa post-elettorale in piazza Maggiore a Bologna con l’accoppiata Prodi-Veltroni, una bandiera rossa e tre bianche! E’ il degno epilogo (verrà anche di peggio) di decenni di strategia dell’attenzione interclassista alla "questione cattolica": i nipotini "post-moderni" di Peppone, dopo aver diffuso gli evangeli come supplemento a L’Unità, portano a spalla al potere (per ora quello locale) i prodi, e giustamente ridenti (sghignazzanti), eredi di don Camillo. Beh, il bigotto conte di Cavour era, col suo "libera chiesa in libero stato", un tantino più avanti in "laicità" di certo progressismo d’oggi.

Negli anni a venire queste crescenti ipoteche federaliste, bianche ed anti-comuniste, interne allo schieramento di centro-sinistra, che sempre più spago trovano nel Pds, sposteranno l’asse delle giunte "rosse" dalle politiche social-democratiche verso politiche liberal-democratiche, se non verso politiche -non lo si è detto dalla City?- liberali. Con quale beneficio per le condizioni di vita dei lavoratori, è facile immaginare. Anche questi enti locali si adegueranno così ai tagli anti-welfaristi dei governi centrali, a dimostrazione di quanto sia fasullo pensarli come una sorta di potere sano, più vicino alle istanze dei lavoratori, rispetto a quello malato (e lontano) di Roma.

Bisogna aggiungere che nelle regioni del centro Italia, a dare ulteriore forza ai ricatti del centro "progressista" verso la sinistra, c’è ora un’opposizione di destra abbastanza unita e bellicosa nel rifiutare il consociativismo. Un’opposizione di cui è magna pars, per la prima volta nel dopoguerra, la componente ex-fascista, e che non tarderà troppo a venire allo scoperto.

Davvero è tutto o.k. nelle "regioni rosse"?

Il Sud si allontana dal Nord.

Se si guarda, poi, all’insieme delle regioni, ed in particolare a quelle del Sud, o anche alle zone tradizionalmente bianche del Nord, la forza dell’ipoteca centrista è ancor più palpabile.

Degli eletti del centro-sinistra a presidenti di regioni e province ed a sindaci, quasi la metà sono ex-d.c. o, come usa dire, di area cattolica! E il 99% di costoro, al pari di Bossi, possono sostenere, a buon diritto, di non avere affatto mutato collocazione politica. Mutata, lungo una linea di deriva continua che proviene dal rovesciamento stalinista della strategia dell’Internazionale Comunista, è una sinistra che assurdamente grida alla vittoria per avere eletto i suoi avversari di ieri, ed averne assunto in buona misura i "valori", gli obiettivi.

(A proposito: è evidente che il "popolo" di sinistra, Rifondazione inclusa, ha sostenuto i candidati leghisti e democristiani assai più massicciamente di quanto non sia avvenuto il contrario. Se s’andasse ad esaminare in dettaglio le diverse coalizioni a scala locale a cui si è in tal modo assicurato il supporto dei lavoratori, a cominciare, tanto per dire, dal pateracchio della Basilicata -dove ci si è messi a braccetto delle più spudorate cricche clientelari dorotee-, ci sarebbe da inorridire. Per la nostra classe, provate a dire, avere ingoiato di questi rospi è un fatto positivo o negativo?).

Dunque: anche la terza componente del successo elettorale del Pds, l’alleanza con le forze di centro, segnala soltanto un passivo per il proletariato, a misura che deriva da rinunce unilaterali e ininterrotte a difendere con la lotta i propri interessi.

Questo passivo è massimamente evidente al Sud là dove, nonostante l’oggettiva esplosività delle contraddizioni sociali (la disoccupazione di massa dei giovani, per prima), la sinistra non ha sfondato. Né quella moderata, né quella "di classe". Per contro, sia l’inerzia che le "furbe tattiche" della sinistra hanno favorito la tenuta e il recupero del vecchio personale D.c. in crisi, avvenuto tanto sotto le insegne del centro-destra che del centro-sinistra.

Così, mentre la spinta riaggregativa tra Nord e Sud, e tra occupati e disoccupati, prodotta dal movimento di autunno è andata dispersa, la situazione meridionale rischia di avvitarsi sempre più su se stessa e di scollarsi ulteriormente da quella del Nord. E lo scontento delle masse proletarie e semi-proletarie più disgregate, invece di trovare il suo naturale referente nella forza e nella lotta della classe operaia, può farsi pericolosamente attrarre dal rilancio di politiche "meridionalistiche" volte solo a piatire le elemosine di stato. Politiche che sono speculari a quelle leghiste, ed altrettanto disgregatrici del tessuto unitario del movimento di classe.

Ricordate le amministrative del ’93?

In sintesi: della "grande vittoria" del centro-sinistra, c’è ben poco da gioire per il proletariato.

D’accordo: se avessero vinto Berlusconi e soci, avremmo avuto con ogni probabilità una replica ravvicinata dell’attacco di autunno. Si può comprendere quindi, il sentimento di sollievo e di soddisfazione che c’è in giro. Sia la caduta del governo Berlusconi che, in parte, lo stop del Polo sono un prodotto delle lotte. Nessuno più di noi lo ha sottolineato, vedendovi una prova della grande forza potenziale del nostro fronte di classe. Ma guai a illudersi che dopo il voto amministrativo (tra l’altro secondario, non dimentichiamolo, rispetto a quello politico), il pericolo delle destre sia davvero scampato. Guai a credere che si possa realmente sconfiggere nelle urne una destra borghese, che attinge le sue energie dal monopolio capitalistico del potere economico e dall’aggressività anti-operaia della classe capitalistica. E dunque da una fonte che non ha nulla a che fare con la logora messinscena della conta democratica dei pareri dei cittadini.

Teniamo a mente la stolta euforia che seguì le amministrative di due anni fa. Abbiamo sotto gli occhi l’edizione de L’Unità del 6 dicembre ’93. Occhetto e Veltroni vi celebravano l’elezione di Rutelli, Illy, Castellani e Bassolino come l’inizio di un "nuovo tempo" di riforme e di "progresso". Seguì di lì a tre mesi la doccia gelida, da noi prevista, del marzo ’94. Venne un "nuovo tempo" sì, ma... dell’attacco capitalistico, scandito dall’entrata in campo di nuove forze politiche borghesi non "consociative", e da contro-riforme delle pensioni, degli orari di lavoro, del mercato del lavoro, etc., intervallate da un paio di finanziarie tra le più pesanti degli ultimi anni. Si badi, non stiamo parlando tanto degli esiti elettorali, che contano relativamente, quanto dei processi sociali e politici extra-elettorali che incidono su ciò che veramente conta: i rapporti di forza tra le classi. Mentre a sinistra (una sinistra peraltro sempre più svuotata di velleità riformiste) si sognava di essere a un passo dal governo dell’Italia, la destra borghese lavorava efficamente a riorganizzarsi e passare al contrattacco. E’ quanto si sta ripetendo, di nuovo, ora!

La borghesia ha i suoi problemi, ma...

Certo, la borghesia ha i suoi problemi. Nel suo primo anno di vita il Polo delle destre ha messo in evidenza la sua impreparazione a governare e le sue contraddizioni. Né poteva essere diversamente, dal momento che il miracolo-Berlusconi/Forza Italia era del tutto improvvisato, il conflitto di interessi tra Lega-Nord ed Msi-Sud particolarmente acuto, e l’anomalia di un presidente del consiglio al tempo stesso grande imprenditore non era facile da digerire dai suoi sodali-concorrenti (sia interni, che esteri).

Del resto, le debolezze del Polo riflettono quelle della borghesia nazionale, che continua a navigare a vista, a vivere alla giornata, scansando -per ora- le scelte più impegnative. La caotica fase di transizione del capitalismo italiano ad un nuovo assetto strutturale e istituzionale che ne blocchi il declino, potrà essere superata solo con il deciso rilancio del ruolo imperialistico del "nostro" Paese e con il disciplinamento nazionalistico sia del proletariato, che della pletora degli strati borghesi parassitari.

Ma spingere in avanti questo processo di centralizzazione economica e politica non è cosa agevole.

Non lo è verso l’esterno specie ora che i paesi imperialisti più forti, anch’essi nella morsa della crisi, appaiono sempre più intenzionati a frenare, in un modo o nell’altro, l’export italiano di merci, privando la "nostra" economia della sua principale ciambella di salvataggio. E a dare alla ristrutturazione bancaria, finanziaria e societaria in atto da noi una direzione centrifuga (rispetto all’Italia). Ciò in cui sono particolarmente attivi il capitale tedesco e quello statunitense.

E non lo è verso l’interno perché tutti gli strati borghesi paiono riottosi sia ai sacrifici che, in certa misura s’intende!, anch’essi dovrebbero fare, sia a mobilitarsi sul serio, nelle piazze e non solo con le schede, per spezzare la capacità di resistenza della classe operaia. Mezzo secolo di "pace", e di (relativa) "pace sociale", ha infiacchito anche loro, non solo la classe operaia. Non ha altra origine la "voglia di centro" che in questi giorni sembra riaffacciarsi anche all’interno della destra. Col Ccd che tira Berlusconi per la giacca, e tenta la via della mediazione con il centro-sinistra. Con un’An che, dopo aver tanto declamato sul proprio essere "destra sociale" (quindi un partito aggressivamente social-sciovinista e socialmente "plebeo"), non riesce a essere fino in fondo neppure una destra tradizionale. Con le "colombe" di Forza Italia che continuano a privilegiare le sedi istituzionali, invece di battere -secondo la giusta intuizione del Cavaliere- la strada dell’appello diretto al "popolo". Tutti costoro si fanno condizionare dalla lentezza con cui sta procedendo, ancora, la polarizzazione delle classi intermedie.

Ma, per quanto nel campo borghese i fattori di incasinamento e di impantamento non manchino, e potrebbero accentuarsi se la potenziale crisi di Forza Italia dovesse esplodere con la eventuale sconfitta del Polo ai referendum, questo non vuol dire che la marcia verso destra della borghesia si sia fermata, a nessun livello. E men che meno, che stiamo andando verso quella serena democrazia del dialogo e dell’alternanza che il duo Prodi-Veltroni va spacciando (è proprio una droga, che intontisce i lavoratori!) come possibile.

...la sua marcia a destra è obbligata.

La linea di marcia della borghesia italiana, come di quella mondiale, è obbligata da ragioni strutturali a cui non può sottrarsi ed è a destra, all’aggressione frontale e violenta, interna ed esterna, agli sfruttati. Ogni ritardo che essa accumulerà su questa strada, dilaghi il federalismo (e sarebbe il peggio del peggio) o riprenda quota l’unitarismo, porterà ad improvvise accelerazioni dell’attacco al proletariato.

In questi anni la "nostra" classe capitalistica, maestra di tattica, ha con sapienza alternato e combinato attacchi frontali (i governi Amato e Berlusconi) e manovre di logoramento ai fianchi (i governi Ciampi e Dini). Ora c’è una nuova, apparente bonaccia post-elettorale, che pare aver rianimato il cadavere della concertazione. Ma non è destinata a durare. Le bordate di Abete contro la riforma delle pensioni e quelle di Colletti ed altri scherani del capitale alla Pannella-Taradash contro la sindacatocrazia, fanno capire che vento spira.

E' stato ancora una volta Berlusconi (in sintonia con i Ferrara ed i Feltri) a indicare quali passi dovrebbe subito intraprendere il Polo: rilanciare il "programma liberale e liberista del 27 marzo", sfidando su questo terreno sia la Lega che la coalizione avversaria; "ritrovare l’orgoglio (nazionale n.-) di una classe dirigente decisa a difendere il prestigio e la forza dell’economia del Paese" nella competizione mondiale, ed a respingere i tentativi di sua "colonizzazione"; farlo, rivolgendosi direttamente al "popolo" dei cittadini nel suo insieme, sia agli imprenditori che ai lavoratori, ed in particolare ai disoccupati; chiedendo loro di mobilitarsi in prima persona in difesa di questo programma e di questa prospettiva di riscatto nazional-popolare (cfr. Il Giornale, 10.5.’95).

Non importa molto se Berlusconi saprà essere coerente con la sua intuizione di dover fare -come borghesia, e come destra borghese- "due passi avanti". O se la composita corte dei suoi fedeli e dei suoi alleati, ancora molto lontana dall’essere un vero e proprio partito all’altezza dei tempi, saprà realizzarla. Può essere di no. Come può essere che siano ancora una volta i suoi massimi concorrenti interni a tirargli i piedi. La riorganizzazione politica della borghesia italiana è, del resto, poco più che agli inizi. Fatto sta, però, che l’ordine del giorno capitalistico dei prossimi tempi è già fissato. Per il Polo, per la Lega, per il centro, per la sinistra.

Andare al governo, o al massacro?

Il Pds non ne ha uno differente. Prendere il liberalismo come punto di riferimento teorico-politico, e l’andamento dei mercati finanziari (ossia la speculazione mondiale) come verifica quotidiana della giustezza dell’azione di governo, non significa altro. Ed è con le durissime conseguenze di questo duplice vincolo, che deve misurarsi la aspettativa dei lavoratori di poter andare al governo, o mandare al governo i "propri" partiti.

Quando dice: "noi non vogliamo stare a vita all’opposizione, vogliamo vincere, vogliamo governare, perché dal governo si possono fare molte più cose che dall’opposizione", D’Alema batte un tasto a cui giustamente la classe operaia è molto sensibile. In effetti, lo scontro in atto, per la sua oggettiva radicalità, pone la questione di chi detiene il potere, di quale classe governa la società. Ma il punto è proprio questo: con lo schieramento di centro-sinistra, andremmo davvero al potere come proletariato? il governo Prodi sarebbe un governo nostro? o almeno un governo "amico"? assumerebbe davvero gli interessi dei lavoratori come asse della propria politica? sarebbe un governo quanto meno deciso a scaricare sulle classi borghesi se non altro una parte dei costi della crisi?

Se si guarda al suo programma, per quanto fumoso esso sia, si deve escluderlo, a meno di voler riempire la frustra consegna vetero-cattolica, e anti-socialista, della "solidarietà con i più deboli", con i nostri sogni.

Ma ancor più lo si deve escludere se si guarda alla via tracciata per arrivare alla fatidica maggioranza elettorale: quella della rincorsa continua del centro. Se per poter arrivare al governo per via istituzionale, c’è bisogno del consenso delle classi medie "moderate"; se questo può venire solo a condizione di rassicurarle nelle loro attese (di non pagare i costi della crisi); e se queste attese non possono essere soddisfatte andando a colpire il grande capitale (i "mercati" interni e internazionali); allora la via è obbligata: dovremo rassegnarci a nuovi sacrifici, a nuove rinunce. Ma più ci facciamo carico delle esigenze dell’economia nazionale e delle aspettative delle classi medie, più queste, vedendo la possibilità di profittare della nostra debolezza, avanzano verso di noi nuove pretese.

E più la grande borghesia vedrà la classe operaia paralizzata dalle condizioni poste da "alleati" (?) della sottospecie dei Bossi e dei Bianco, più sarà incoraggiata, e facilitata, a proseguire nel suo martellamento anti-operaio. E sarà molto, molto difficile parare questi nuovi attacchi, se vi arriveremo con le mani legate dalla "moderazione", dalla "scelta liberale", dalla fiducia nelle alchimie parlamentari con questo e con quel gruppo di centro, e così via...

La continua rincorsa al centro innesca non un circolo virtuoso di rafforzamento delle posizioni della classe operaia, bensì un circolo vizioso che porta all’esito contrario a quello sperato, che ci espone maledettamente al massacro "volontario" dei nostri bisogni, delle nostre necessità, dei nostri diritti.

Tuttavia, per quanto sia particolarmente improbabile, supponiamo che ad ottobre, o quando si rivoterà, il centro-sinistra riesca a prendere un voto in più del Polo. In tal caso, quale dovrebbe essere l'atteggiamento del proletariato?

La sola via realistica al potere

Noi diciamo: non ci si faccia illusioni sulla natura di classe e la politica del governo di centro-sinistra. Esso sarebbe devoto agli interessi del capitalismo non meno dei governi di destra o "tecnici", e saprebbe essere "rigoroso" -invece- verso i lavoratori. Con il suo avvento in tanto potremo conquistare migliori condizioni per noi, in quanto non smobiliteremo oggi la nostra lotta e le nostre fila, e ci prepareremo a far valere domani verso di esso la nostra forza e le nostre rivendicazioni. Esso non ci farà regali, non ci farà trattamenti gratuiti di favore.

Non solo: proprio perché sarebbe comunque investito dalle accresciute aspettative dei lavoratori, un governo del genere sarebbe sottoposto a una contro-pressione particolarmente violenta da parte delle classi borghesi e parassitarie. Che farebbero di tutto per rendergli la vita difficile, non solo e non tanto in parlamento quanto nella società, sfidandolo e incalzandolo a usare la mano pesante contro i lavoratori. Con un governo di centro-sinistra avremmo quindi non, come si crede e si spera, un’attenuazione, bensì una acutizzazione dello scontro di classe.

E’ questo il punto decisivo, il duro dato di fatto con cui la classe operaia, di controvoglia, dovrà realisticamente fare i conti: ci sia un governo delle destre, di centro, di presunti tecnici o di centro-sinistra, per ragioni di fondo, strutturali, l’offensiva capitalistica contro la classe operaia e i lavoratori è destinata a continuare e ad indurirsi. E da questa offensiva non ci difenderà nessuna vittoria elettorale, nessun "centro moderato", nessun Prodi, nessun Bossi, nessun governo presuntamente amico. Il proletariato dovrà difendersene da sé, opponendo alla forza della borghesia e dei suoi apparati la propria forza di classe, incardinata sul proprio programma, e sempre più e sempre meglio organizzata e centralizzata.

I terreni di questo scontro ci sono dettati dalla stessa offensiva borghese: le pensioni, la perdita di potere d’acquisto dei salari, una condizione di lavoro che va incessantemente degradandosi, la lotta alla disoccupazione, la finanziaria ’96, i reiterati velenosi attacchi alla legislazione sull’aborto, le aggressioni agli immigrati, etc. Ed è su questi terreni che dobbiamo riconquistare e far valere la nostra autonomia di classe.

Non si deve credere che accettando lo scontro in campo aperto il proletariato resterà più isolato, e quindi più facilmente battibile. Certo, dimostrando di voler e saper difendere i nostri interessi, ci alieneremo i vecchi boss o sottopancia ex-dc o ex-craxiani che oggi occhieggiano a sinistra. Ma per converso potremo conquistare al nostro polo, al nostro fronte, quei vasti settori sociali esclusi dai privilegi delle classi sfruttatrici che magari si sono lasciati sviare dalla demagogia delle destre, o sono rifluiti nello sconforto e nella passività. In autunno non è forse successo questo, ad una prima scala? E non è forse uno "scambio" vantaggioso per noi, dare Buttiglione o restituire il Senatùr al Cavaliere e trascinare con noi alla lotta dei lavoratori che si erano lasciati abbindolare da loro?

Il fronte politico tra i partiti della sinistra e forze come la Lega e i popolari ci fa sembrare apparentemente più forti, ma questo è vero solo sulla carta. In realtà questa politica congela e disperde le nostre forze. Solo la politica del fronte unico di classe può permetterci di svuotare tutti i contenitori borghesi nei quali sono attualmente rinchiuse le forze del proletariato, e di riunificarle nell'organizzazione di classe schierandole come un esercito compatto.

E dunque: ritorniamo protagonisti, come proletariato e come lavoratori, della vita sociale e politica. Non deleghiamo più nulla a forze e classi sulla cui fedeltà di nostri alleati non è il caso di scommettere un soldo bucato. La destra, la borghesia, possono essere battute. Battute sul serio, e non con vittorie di Pirro elettorali. E riusciremo a batterle, se difenderemo in modo intransigente i nostri interessi di classe, la nostra unità di classe, senza immolarci più alle compatibilità capitalistiche.

Questo è non solo l’unico modo efficace per difendersi; è anche la sola via realistica che il proletariato può percorrere per aprirsi davvero l’accesso al governo ed al potere, attraverso una catena di "autunni" elevati a potenza, e saldati da una strategia unitaria di lotta al capitalismo, di lotta per il socialismo, che vada a recidere alla radice -finalmente!- le cause dello sfruttamento, dell’oppressione e dell’insicurezza.

E’ in vista di questo che dobbiamo raddoppiare gli sforzi per dotarci di una organizzazione politica indipendente dal capitalismo, che sappia raccogliere e dirigere le nostre forze, sul piano teorico-programmatico e su quello operativo. Come seppero fare i veri partiti comunisti del passato.


Disaffezione al voto e "disaffezione" al proletariato

Tanto il primo che, ancor più, il secondo turno delle elezioni amministrative hanno visto una considerevole percentuale di non votanti. E’ probabile che una parte cospicua di questo astensionismo appartenga a strati borghesi, non ancora adeguatamente mobilitati -nonostante gli appelli del Polo- neppure sul terreno elettorale. Ma è evidente che anche settori di classe operaia e di lavoratori hanno rinunciato ad esercitare il loro "supremo" diritto.

Eppure, non si è letta, sui giornali della sinistra, una sola riga di commento al fenomeno che, "astrattamente", dovrebbe preoccuparli sia perché denota una disaffezione al voto dei "cittadini", sia perché coinvolge "cittadini" a cui sempre, in passato, si è rivolta di preferenza la sinistra.

Invece: zero commenti. Evidentemente si considera normale che, nel quadro di quel "capitalismo normale" auspicato da D’Alema, ci sia una caduta anche della "partecipazione democratica", anche (o sopratutto?) dei proletari. Negli USA, il paesi più amato dai micini veltroniani, lo stesso presidente non è forse eletto da meno del 50% degli elettori, in larghissima parte delle classi medie, mentre ampi strati operai e la grande massa dei poveri diserta le urne? E allora, perché preoccuparsi tanto?

Specie qui in Italia, dove il proletariato ha una forte tradizione di lotta e la strana pretesa, pure, di voler contare sulla scena politica, chiamarlo con decisione in campo nelle elezioni, sia pure solo "sociologicamente", può significare complicarsi la vita a vuoto con il "centro moderato". Tanto più che ora "ci" arrivano i consensi di nuovi e interessanti soggetti sociali quali le suorine di Padova devote di S. Antonio... E allora, perché preoccuparsi tanto se lasciano il campo, delusi, frustrati anche, se non soprattutto, dalla politica di svendite della sinistra, dei "semplici" votanti operai, disoccupati, impiegati?

Si scoprirà, poi, naturalmente, come in Francia, che sarà la destra borghese e aggressivamente sciovinista a richiamarli in campo per le bisogne dell’imperialismo e, in prospettiva, della guerra. E’ sempre ad essa che la flaccida sinistra "riformista" pavimenta il cammino.

Ad entrambe un proletariato ridestato dalle sue illusioni e i comunisti autentici sapranno scavare la fossa.