Governo Dini e mercato del lavoro

CONTRO IL LAVORO NERO,
QUELLO "ILLEGALE" E QUELLO LEGALE

Indice


Il clima internazionale di autentica lotta al coltello per la conquista e la difesa di spazi di mercato, impone alla borghesia nostrana - al pari di quelle estere - di non poter "limitare" il proprio attacco alla classe operaia al solo aspetto salariale, ma di mirare sempre maggiormente a scompaginarne ogni forma di tenuta materiale ed organizzativa. La crociata per una definitiva e generale flessibilizzazione e liberalizzazione del mercato del lavoro e dell’utilizzo della manodopera è parte integrante e fondamentale di questa offensiva.

Dai contratti di formazione lavoro al progetto di riforma del governo Dini

Il fiume della "rivoluzione" liberista partito nello scorso decennio dall’America di Reagan e dall’Inghilterra thatcheriana ha dilagato ovunque, facendosi sempre più impetuoso. Qui in Italia l’introduzione negli anni ’80 dei contratti di formazionee lavoro rappresenta uno dei primi chiari ed espliciti segnali della insofferenza borghese verso le rigidità del mercato del lavoro imposte a propria tutela dalla classe operaia tramite decenni di dure lotte. Tale forma di contratto fu introdotta a cavallo e a prosecuzione di un ciclo di dura ristrutturazione industriale che colpì fortemente sia le condizioni che i livelli occupazionali in fabbrica. Si disse che questa nuova normativa avrebbe, senza scalfire i diritti dei lavoratori già occupati, aperto le porte del lavoro ai giovani mentre veniva riconosciuto al sindacato un certo qual "potere" di controllo.

Alla prova dei fatti, però, non solo i contratti di formazione non hanno prodotto "nuova" occupazione, essendo stati utilizzati in massima parte dalle imprese solo per sostituire operai anziani usurati dallo sfruttamento con giovani presi a più vantaggiose condizioni, ma soprattutto si sono rivelati un’arma di ricatto e di divisione in mano padronale rivolta contro tutti i lavoratori (neo-assunti e "veterani"). Contemporaneamente negli ultimi anni si è assistito ad una spinta verso il massimo utilizzo anche degli altri strumenti di flessibilizzazione del rapporto di lavoro già a disposizione (ad esempio, secondo una ricerca della CISL, nel 1994 nella sola provincia di Venezia sono stati stipulati oltre 30.000 contratti a tempo determinato).

Aperta la breccia (e che breccia!), adesso i padroni vogliono andare ben oltre. Già con l’accordo del 23 luglio ’93 con l’ "amico" governo Ciampi sono state poste le basi per un’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro: è stata innalzata da ventinove a trentadue anni l’età massima in cui un lavoratore può essere assunto a "formazione" e sono state legalizzate (col pomposo nome di lavoro interinale) vere e proprie forme di caporalato. Berlusconi elogiò i passi in materia del predecessore Ciampi ed affermò la necessità di procedere speditamente su tale strada.

Adesso il testimone è nelle mani del "neutrale" governo Dini che tramite il ministro del Lavoro Treu ha elaborato una proposta complessiva di "riforma" del mercato del lavoro. Vediamone i coposaldi: a) si tende a rendere più praticabile il ricorso al lavoro interinale estendendone in via sperimentale (si inizia sempre con le "vie sperimentali") la possibilità di applicazione anche alle mansioni, precedentemente escluse, con basso contenuto professionale; b) vengono incentivati i contratti a tempo determinato estendendo la casistica in cui si può far ricorso ad essi in luogo di quelli a tempo indeterminato; c) i contratti di apprendistato, con tutte le penalizzazioni del caso, ricevono pieno impulso; d) la gestione privata del collocamento al lavoro si affianca ufficialmente a quella pubblica.

Dare mano vieppiù libera alle imprese nei confronti dei lavoratori: ecco uno dei tanti obiettivi del governo Berlusconi, fatto proprio e sviluppato dal governo Dini.

In un tale contesto i richiami al rispetto del diritto del lavoratore (assunto con i "nuovi" strumenti) alla tutela ed alla contrattazione sindacale, pur formalmente presenti nella bozza governativa, se da un lato assomigliano molto alle raccomandazioni di buon comportamento fatte ad un lupo famelico, d’altro lato mirano ad offrire una sponda (sempre più misera) ai vertici sindacali nel coinvolgerli "consensualmente" (e provvisoriamente) nella gestione dell’operazione proseguendo anche per tal via quel tenace lavorio ai fianchi del movimento operaio (in cui il governo Dini si dimostra maestro) preparatorio di futuri cazzotti in pieno viso.

Il lavoro nero dilaga

La liberalizzazione selvaggia del mercato del lavoro non procede solo per vie legislative ed istituzionali, anzi i mezzi "extra-legali" si dimostrano ottimi strumenti per preparare alla bisogna in tal senso il terreno. Ovviamente l’erosione dei diritti dei lavoratori anche in questo campo è cominciata là dove la situazione si presenta più favorevole per tali iniziative. Così il caporalato, classico e mai estirpato fenomeno dell’agricoltura meridionale, non solo è ampiamente utilizzato nelle campagne, ma sempre più va coinvolgendo anche settori, come l’edilizia, che per caratteristiche strutturali si dimostrano più abbordabili. Le camicerie del brindisino (finite in televisione), in cui giovani operaie percepiscono salari da fame per oltre dieci ore di lavoro al giorno, costituiscono solamente la punta dell’iceberg: ormai il lavoro nero non solo domina nelle "tradizionali" occupazioni stagionali del mezzogiorno, ma allunga con crescente determinazione i suoi tentacoli in ogni anfratto del tessuto produttivo.

Ma se nella piccola azienda (non necessariamente meridionale) le condizioni di isolamento e di ricattabilità del lavoratore facilitano lo spadroneggiare arrogante di imprenditori e caporali, diverso è il discorso là dove la classe operaia è numerosa ed organizzata. Se in "periferia" può essere sufficiente che lo Stato "chiuda un occhio" e tolleri di fatto la violazione delle sue stesse leggi, quando si tratta di portare l’attacco al centro ed alla massa del proletariato industriale, allora è necessario che lo Stato stesso diventi parte attiva, che con la sua legislazione sanzioni, rafforzi e generalizzi lo smantellamento delle conquiste dei lavoratori: questo il programma della borghesia all’ordine del giorno, queste le esigenze dell’"economia nazionale". Come il lavoro nero non rappresenta un retaggio del passato, ma è legittimo figlio della modernità capitalistica, così esso anticipa e contribuisce a preparare le condizioni di sfruttamento a cui la borghesia tende ad assoggettare l’intera classe operaia.

Il ricatto padronale: flessibilità e liberalizzazione in cambio di occupazione

Il padronato si adopera sempre per presentare i propri attacchi contro il proletariato sotto le mentite spoglie di passi da compiere nell’interesse generale di "tutta" la società e, quindi, dei lavoratori stessi. La scala mobile non fu forse prima tagliata e poi cancellata in nome di un rilancio dell’economia nazionale di cui tutti (imprenditori ed operai, disoccupati e banchieri) avrebbero dovuto e potuto godere? E le pensioni? L’attacco ed il (tutt’altro che definitivo) ridimensionamento del sistema previdenziale non è stato forse accompagnato da un analogo richiamo alla necessità di rimettere in sesto la "barca comune"? L’attacco per una piena liberalizzazione del mercato del lavoro non poteva certo sfuggire a questa regola. Si permetta dunque alle imprese di assumere senza garanzie e di licenziare liberamente secondo l’andamento del mercato. Si mettano in soffitta concetti come "contratto a tempo indeterminato". Si dia una spallata definitiva a quel "mostro burocratico-sindacale" del collocamento pubblico, e allora le "nostre" aziende potranno effettivamente affermarsi sui mercati e rilanciare l’occupazione. Inoltre per questa via si potrà far emergere dall’illegalità l’universo del lavoro nero: infatti tanti imprenditori costretti (poveri figli) dall’attuale rigidità e onerosità del mercato del lavoro ad operare nel "sommerso", saranno invogliati a regolarizzare la loro attività. E il meridione? Ma certo, anche il Sud potrà avviarsi a diventare una nuova padania a patto di finirla con lacci e laccioli imposti alle aziende e di introdurre (come ha chiesto il vicepresidente della Confindustria in un convegno a Catania ) salari inferiori al minimo contrattuale.

Il famoso "milione di posti di lavoro" berlusconiano non era dunque frutto (come stupidamente piace pensare a una certa sinistra) della presunta facilona e bugiarda furbizia del cavaliere. Esso rappresentava piuttosto il tentativo di sintetizzare in uno slogan il messaggio che l’intero fronte borghese lancia di continuo velenosamente verso il proletariato. Un messaggio (o meglio un ricatto) che quotidianamente "indica" agli operai la strada della più completa subordinazione alle necessità aziendali e di mercato quale unica via per ottenere o mantenere l’occupazione. Un messaggio che tende a contrapporre giovani disoccupati a lavoratori occupati indicando nelle "garanzie" di questi ultimi, nel cosiddetto "corporativismo operaio", la causa prima che impedisce la creazione di tanti nuovi posti di lavoro.

La disastrosa linea sindacale

Dal democratico De Benedetti all’istituzionale Abete, dal berlusconiano Giornale alla progressista Repubblica, dall’"imparziale" Corriere della Sera alla moderata Stampa, non c’è voce dello schieramento borghese che non perda occasione (il trattamento riservato ai lavoratori della FIAT di Termoli insegna) per ringhiare contro ogni manifestazione di opposizione operaia alla "liberalizzazione" capitalistica indicandola come l’ostacolo principale allo sviluppo occupazionale nel paese.

Anche nei confronti della offensiva borghese sulla flessibilizzazione del mercato del lavoro la politica dei vertici sindacali manifesta i nefasti effetti della propria piena e crescente subordinazione alle ragioni del capitale nazionale. Il ragionamento di fondo (enunciato esplicitamente per la prima volta da Trentin in una delle sue ultime uscite come segretario della CGIL, ma "operante" da ben più tempo) su cui si basa in materia la politica sindacale, è sinteticamente il seguente: il "sistema Italia", pressato dalla concorrenza internazionale, sarà sempre meno in grado di offrire il "posto fisso". Attestarsi su una difesa di tale istituto significherebbe non solo voler difendere l’indifendibile; alla lunga, inoltre, una tale "rigida" posizione costituirebbe un handicap per le "nostre" aziende nei confronti degli agguerriti concorrenti esteri e, di rimando, determinerebbe ulteriori difficoltà per gli stessi lavoratori e sindacato. Dunque - si prosegue - devono essere abbandonate velleitarie posizioni massimaliste (sic!), va dato atto della necessità di una maggiore libertà nell’impiego della manodopera, e allo stesso tempo, però, in cambio (proprio a suggello di tale senso di responsabilità nazionale) deve essere riconosciuto dalle controparti sociali il ruolo contrattuale del sindacato al fine di "governare" tale processo per evitare il dilagare di forme selvagge di liberalizzazione. I toni di "aperta disponibilità" verso il governo sulla riforma del mercato del lavoro sono la naturale conseguenza di una simile impostazione.

Ma, lungi dall’attrezzare valide trincee, un tale atteggiamento è destinato a rivelarsi completamente fallimentare tanto rispetto all’obbiettivo di "limitare" e "contenere" l’aggressività e la fame di liberalizzazione capitalistica, quanto relativamente a quello della tenuta stessa della capacità di rappresentanza e contrattazione generale del sindacato. In determinati frangenti, di fronte a rapporti di forza fortemente sfavorevoli si può anche essere costretti ad "accettare" arretramenti, ma a patto di operare un passo indietro al fine di mantenere la coesione di classe e di evitarne lo sfilacciamento, per poi, proprio da tali basi, prepararsi al meglio alla riscossa. La politica dei vertici sindacali non rientra assolutamente in questo schema: essa non solo procede unicamente a passo di gambero, ma lascia porte e finestre aperte a pericolosissimi fattori di scompaginamento tra le fila proletarie, producendo un vero e proprio disarmo.

Accettare infatti, e far addirittura propria, l’esigenza di promuovere una maggiore flessibilità nell’utilizzo della manodopera significa di fatto assecondare l’introduzione di pesanti elementi di divisione, stratificazione e diversificazione all’interno della classe operaia; significa contribuire a minarne la sua unità materiale e quindi la sua forza politica. Il giovane assunto con contratto a tempo determinato o "in affitto" non è forse enormemente più sottoposto al ricatto padronale? E la presenza di tali fasce "deboli" in fabbrica non sarà forse utilizzata per indebolire la capacità di resistenza e d’organizzazione sindacale anche degli altri lavoratori "regolari"? L’esperienza dei contratti di formazione (strumento tutto sommato "blando" rispetto a quelli che si stanno mettendo adesso in cantiere) non è di ammonimento? Salari ridotti e condizioni di lavoro strangolatorie al Sud non saranno forse utilizzati per ricattare e piegare anche i lavoratori del Nord? Melfi e Termoli la dicono lunga in tal senso. Da una simile situazione l’offensiva padronale può ricevere solo ulteriori impulsi ad approfondirsi a tutto campo, altro che freni! Quand’anche si verificasse la poco probabile eventualità che un piccolo prolungamento dell’attuale momento di ripresina economica, incrociandosi con le prime forme di deregolamentazione del mercato del lavoro, producesse un qualche "effetto positivo" occupazionale, ci si troverebbe di fronte ad un "beneficio" estremamente transitorio e precario che tutti (giovani ed anziani) i lavoratori sarebbero chiamati presto a pagare con salati interessi. Sacrificare la forza operaia in cambio di una improbabile manciata di pochi e precarissimi posti di lavoro: questo il "miglior risultato" cui può pervenire la "realistica" strategia delle direzioni confederali.

O si difende l'economia nazionale, o si difendono gli interessi operai.

Alla base della bancarottiera politica sindacale sta la concezione, propria del riformismo, di relegare la "tutela" degli interessi operai all’interno della salvaguardia del capitalismo nazionale. E’ con questa logica che, anche sul terreno da sviluppare della necessaria ferma opposizione alla deregolamentazione del mercato del lavoro, la classe operaia, a partire dai suoi settori più avanzati, dovrà iniziare a fare i conti. L’edificazione di valide dighe contro la montante marea borghese non può prescindere dall’aggredire con decisione questo centrale punto.

Quando i padroni affermano di avere la necessità di poter disporre "più liberamente" della manodopera operaia, dicono -dal loro punto di vista- il vero. E’ infatti profondamente vero che i profitti aziendali possono essere mantenuti ed incrementati solo torchiando e sottomettendo maggiormente l’operaio, ed è altrettanto vero che solo per tale via si possono risanare le finanze ed i bilanci statali e fronteggiare efficacemente la concorrenza straniera. Questo è vero in Italia come in Francia, in Germania come in Giappone. Ma proprio perché tutto ciò è capitalisticamente vero, di fronte alla classe operaia si aprono due (e solo due) alternative. La prima è quella di legare i propri destini al capitale nazionale e di sprofondare in una disastrosa e infinita spirale di concorrenza al ribasso con i lavoratori degli altri paesi, di dividersi tra settori operai (sempre meno) "stabili" e settori precari, di prestare il fianco alla contrapposizione tra occupati e disoccupati, di subire sempre più disarmati l’incalzare padronale. La seconda strada - da sempre indicata dai comunisti internazionalisti - è invece quella di rompere con le necessità aziendali e nazionali, di porre al centro della propria azione la difesa dei propri distinti interessi di classe a prescindere e contro le compatibilità capitalistiche. E’ per questa via che si potrà procedere all’indispensabile ribaltamento dell’attuale politica sindacale e che al nemico di classe verrà ricacciato in gola ogni tentativo di immettere divisioni tra le fila proletarie; ed è percorrendo questo sentiero che gli operai delle diverse nazioni, lungi dal percepirsi come concorrenti, si dovranno e potranno riconoscere membri della stessa classe internazionalmente in guerra contro il capitalismo.