Usa

DOPO IL "SOGNO CLINTONIANO",
IL RISVEGLIO CONSERVATORE

Indice


La borghesia statunitense dichiara guerra al proprio ed altrui proletariato. Una direttiva ai padroni di tutto il mondo e un invito alla classe operaia internazionale perchè si attrezzi alla sfida.

Il "sorprendente" ritorno in campo dei repubblicani. Questa la "novità" che ha segnato negli ultimi mesi la scena politica degli Stati Uniti. Essa è rimbalzata di qua dell'Atlantico a seguito dei risultati elettorali dello scorso novembre, quando la destra repubblicana ha, in un sol botto, conquistato la maggioranza nei due rami del Congresso e vinto il referendum contro gli immigrati che aveva promosso in California(1). Queste vittorie elettorali però sono solo la punta "visibile" di un movimento profondo che scuote le viscere della società statunitense e che vede in primo piano la mobilitazione antiproletaria delle classi medie opportunamente sostenuta a suon di miliardi dalla "high class".

Così negli Stati Uniti del "contratto sociale" e del welfare clintoniano, la borghesia riscopre la necessità di rilanciare la guerra di classe contro la propria classe operaia e le sterminate masse di lavoratori latino americani. Essa manda a dire a tutto il mondo che in casa sua non è più tempo per "governi di tregua". E quando accade e dove accade tutto questo? Nell'anno clou della ripresa economica (2) e nel cuore del capitalismo internazionale, laddove la borghesia può vantare i massimi e più perfezionati strumenti finanziari, militari e politici per scaricare la crisi sui concorrenti e sui paesi del terzo mondo. E se non è più tempo per "governi di tregua" negli Stati Uniti del nuovo "miracolo economico", figuriamoci altrove...

Il rapido declino del clintonismo

Quando Clinton salì sul palcoscenico politico mondiale, i suoi epigoni alla Veltroni ne preannunciarono la lunga e duratura vita e lo indicarono come modello per il futuro "democratico" di tutta la terra. Si disse che il mix di statalismo e mercato, la razionale gestione del debito pubblico improntata ad un rigore non eccessivamente punitivo verso lo stato sociale, la larghezza di vedute in politica estera avrebbero sancito la definitiva sepoltura degli aspetti aggressivi e "totalizzanti" dell’appena trascorso mandato reganiano.

Si passava, insomma, dal liberismo sfrontato alla "razionale gestione del mercato". Caduti i "muri" e la "guerra fredda", che senso avrebbe avuto la brutale arroganza reganiana? La "intelligente" classe media statunitense, il "centro" sociale e politico cercato in Italia tra le macerie della "prima repubblica" e la cravatta di Buttiglione, emergevano trionfanti al suono interclassista e polirazziale del sax di Bill. Un motivo in più per gettare al rogo le "retrive" bandiere ideali comuniste e assumere ad esempio il toccante miracolo del dollaro democratico che riuniva nella stessa piazza, homeless, neri, chicanos di Los Angeles ed operai licenziati della General Motors, a cantare "We shall overcome" (3) con i finanzieri di Wall Street.

Dopo non molti mesi quegli stessi finanzieri e gran parte delle suddetta classe media si ritrovano nei circoli repubblicani e delle organizzazioni fondamentaliste cristiane, dove migliaia di attivisti innalzano la bandiera (e non solo quella) dell’abolizione totale dello "stato sociale", organizzano cacce al negro ed al chicano, promuovono e vincono referendum per l’abolizione di ogni diritto per gli immigrati illegali e progettano di estendere il favore a quelli "legali", sostengono crociate armate contro le "abortiste", dichiarano guerra ad ogni proposta di innalzamento dei minimi salariali, disseppelliscono tutto l’armamentario nazional-sciovinista a stelle e strisce, fanno della "teoria del complotto" contro gli Usa il cardine della politica estera con tanto di riscoperta dell’orso sovietico da domare etc.etc. Dopo la batosta elettorale di novembre lo stesso Bill Clinton si è affrettato a dichiarare nel tradizionale "discorso alla nazione" che è ormai arrivata l’ora di fare "un passo avanti verso gli interessi della classe media" e di far si che "gli sforzi prima dedicati alla protezione dei ceti deboli siano concentrati nel taglio delle tasse" a favore delle classi medie. E tanto pentimento democratico segue ben poche e larvatissime concessioni ad un incremento reale dell’assistenza. Come mai un così rapido tramonto del clintonismo?

Dietro il suono ammaliante del sax, cosa?

E' utile fare un passo indietro e tornare alle radici vere e ai veri obiettivi della politica clintoniana. Mettendo a frutto i risultati ottenuti dal reaganismo sia sul fronte interno che su quello esterno, essa si era prefissa lo scopo di consolidare la ritrovata egemonia statunitense nel mondo e, su questa via, di arginare l’insorgenza sociale che la rivolta di Los Angeles aveva annunciato e di compattare "consensualmente" larghe fette della classe operaia statunitense, come base per una maggiore forza sul piano internazionale, contro i concorrenti e gli sfruttati degli altri paesi.

La riduzione del deficit statale statunitense, il rilancio della competitività delle merci nazionali, il completamento dell'annessione finanziaria dell'America Latina, gli interventi "umanitari" in alcune "zone calde" del mondo (dalla Somalia ad Haiti passando per la Bosnia), la ventilata riforma sanitaria di "Hillary"(4): ecco alcuni tasselli del progetto che ha portato Clinton alla Casa Bianca.

La sua politica ha formalmente conseguito gli obiettivi economici che si era riproposta: nell'ultimo anno il PIL è cresciuto del 5%; l'industria statunitense ha riconquistato consistenti fette del mercato interno; il Messico è stato completamente annesso, mentre l'intera America Latina è tornata ad essere un immenso "cortile di casa".

Ma questi risultati segnano forse l'innesco di un nuovo ciclo di sviluppo, simile a quello che il capitalismo mondiale conobbe nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale? Permettono forse il ritorno a quell'età dell'abbondanza nella quale la crescita economica permetteva a tutte le classi sociali di accedere a livelli sempre più alti di benessere? Ancora: si traducono in un impulso per stabilire relazioni via via più armoniche e pacifiche tra gli Stati Uniti e gli altri paesi? Uno sguardo ad alcuni aspetti della situazione sociale statunitense e a taluni avvenimenti degli ultimi mesi in campo internazionale è più che sufficiente, a meno di non avere gli occhi foderati con prosciutto veltroniano, per rispondere no, no e ancora no alle tre domande.

I "benefici" della ripresa per il proletariato Usa

La ripresa clintoniana sta innanzitutto producendo un'ulteriore polarizzazione sociale sul piano interno. All’aumento del 5% del PIL ha corrisposto un calo, per il 4° anno consecutivo, del reddito delle famiglie, risultato inferiore del 7% a quello del 1989 (dati 1993). L’aumento dell’occupazione non solo è minore di quella registrata nelle precedenti riprese, ma i nuovi posti di lavoro sono quasi sempre a termine o a tempo parziale e quasi sempre nei settori a più bassa remunerazione, quelli nei quali le paghe sono inchiodate al minimo di 4,25 dollari l'ora (il che vuol dire che un operaio con una famiglia di 4 persone percepisce un reddito complessivo inferiore a quei 14.763 dollari annui che costituiscono il limite dell'indice ufficiale di povertà). La rimessa in moto della macchina produttiva è, inoltre, accompagnata da una diminuzione dei salari.

Il tasso ufficiale di povertà tocca il 15% della popolazione: vivono ormai sotto la soglia della povertà 39.300.000 americani, dei quali 6 milioni (oltre il 25%) sono bambini. Il 20% dei ricchi americani accaparra il 48,2% del reddito nazionale, mentre al quinto più povero non resta più del 3,6%. Non a caso un responsabile padronale poteva dichiarare, alla vigilia delle elezioni, che dal Congresso uscente... "Non abbiamo ottenuto tutto quello che desideravamo, ma i sindacati in compenso non hanno ottenuto nulla" (5).

L'arte di disseminare mine nel terreno su cui ci si muove

Ma non accade solo che i benefici della ripresa sono sempre più appannaggio di una ristretta cerchia di capitalisti e a scapito di una crescente massa di proletari. La crescita degli indicatori economici non è nemmeno legata ad una crescita economica via via più stabile, verso l'interno e verso l'esterno. Basti pensare alla preoccupazione con cui i finanzieri di Wall Street hanno seguito la crisi messicana: al di là delle frasi di propaganda, gli stessi analisti borghesi sono ben lontani dal considerarla un raffreddore della "giovane" e "ardimentosa" economia del paese centramericano. Essa è invece il sintomo di una malattia senile che infetta l'arto messicano in quanto ha ormai conquistato l'intero corpo del sistema capitalistico mondiale, a partire dal suo cuore, cioè i centri finanziari di New York, di Tokio, di Francoforte, di Londra, ecc.

Non bastasse tutto questo, il capitalismo statunitense si ritrova ad agire in un'arena mondiale che ha visto tornare in campo, da protagonisti, attori che sembravano scomparsi, come ad esempio quello russo, e che vede profilarsi l'ombra imponente (e qualcosina in più che l'ombra) del colosso cinese: la fortunata situazione dei primi anni novanta è solo un piacevole (e amaro) ricordo...

Quanto raggiunto dagli Stati Uniti sotto la direzione di Clinton non è, quindi, la premessa di una crescita progressiva, ma un punto limite da cui si può in ogni momento arretrare e che, per il suo semplice mantenimento, richiede oggi la sostituzione della "delicata" ricetta clintoniana con un'altra ben più piccante. Come procedere sennò, senza lasciarci le penne, su un terreno (sociale, finanziario e internazionale) sempre più minato? Con Clinton non tramonta un modo di gestire il capitale contrapposto al reganismo, una strategia dirigista e neo roosveltiana, ma le speranze borghesi di uscire dall’impasse della crisi nella maniera più indolore possibile. Tramonta la possibilità del capitale Usa di sfruttare il suo primato economico per ridurre alla ragione i concorrenti senza innalzare il livello dello scontro interimperialista, trionfando di nuovo sulle macerie e la disgregazione degli avversari e del proletariato internazionale.

Cosa significa la rivincita liberista negli Usa e nel mondo: in campo economico e...

Clinton è succeduto al "decennio reganiano" che (alla faccia del liberismo) ha utilizzato massicciamente l’intervento ed il sostegno statale nell’economia per fronteggiare la crisi economica; egli stesso, presunto promotore del welfare, ha nei fatti adottato ricette "liberiste", tentando di sgravare il peso del debito pubblico in favore della ripresa del mercato delle merci Usa. Questo scambio dei ruoli non deriva dallo scambio dei testi di base su cui i due si sono formati, ma dalla semplice verità capitalistica per la quale a stabilire in che modo orientare le "ricette economiche" non è la decisione a tavolino di pianificatori o liberalizzatori dell’economia, ma le richieste del mercato stesso. Da tempo è tramontata anche nei libri di testo dei padroni Usa la falsità, denunciata da Marx, di un potere autoregolatore del mercato capitalistico. Ed in pari tempo è emerso con chiarezza come gli strumenti del capitalismo maturo, tra cui l’intervento statale e la trasmissione al livello finanziario della concorrenza del mercato delle merci, non fanno altro che riproprorre ad un livello più alto la concorrenza e le contraddizioni dell’accumulazione capitalistica.

La rivincita del liberismo a scala mondiale non è che la sanzione di questa verità; laddove la "riscoperta del meccanismi autonomi" e senza costrizioni statali dell’economia è l’ammissione, mascherata dietro l’apologia delle virtù taumaturgiche del mercato, del fallimento degli strumenti più sofisticati, quali l’intervento statale, per alimentarlo e regolarlo. Questo ritorno o richiesta liberista in realtà non conduce ad un ipotetico ritorno all’epoca, mai esistita, del "libero mercato", ma ad indirizzare tutte le risorse capitalistiche in funzione della massima ed illiberale concentrazione dei capitali. Per liberismo infatti il capitale intende la necessità di riappropriarsi "liberamente" di quella parte del valore prodotto che in qualche modo il proletariato riesce ancora a tenere per sé attraverso il salario diretto e la spesa sociale dello stato, nonchè la necessità di far confluire verso le sue concentrazioni finanziarie quell’altra parte di capitale che le sue sezioni minori gestiscono ancora in proprio. Non a caso gli ultra liberisti alla Gingrich sono anche ultra protezionisti.

Altro che libero mercato! La maggiore libertà richiesta dai repubblicani statunitensi e da tutti i "liberisti" (compresi Berlusconi&C.) è semplicemente quella di arraffare a piene mani tutto quello che ancora si può spremere dal proletariato mondiale. Essi si guardano bene dal rinunciare all’attivo intervento statale nell’economia ed anzi richiedono un incremento della spesa statale per sostenere le spese militari, per favorire le esportazioni, per impulsare gli investimenti Usa oltremare, per ammodernare l'apparato della ricerca scientifica, etc.

... in campo politico

Ma l’offensiva mondiale del liberismo ha un altro e più importante significato: quello di compattare le schiere dell'intera classe borghese sugli obiettivi di un'offensiva a tutto campo contro il proletariato e le sue "libertà". Dietro questa bandiera esse dichiarano guerra alle classi sfruttate e spingono i propri stati, le proprie istituzioni ad attrezzarsi ad un epoca di acuto scontro sociale ed interimperialistico, liberandosi di tutti quegli intralci e quegli istituti di mediazione sociale che le rendono inadatte all’inasprimento dell'attacco. Clinton si appresta a percorrere il viale del tramonto non già perchè abbia utilizzato delle ricette economiche inadeguate, o perchè sia stato uno smodato elargitore del capitale in favore della spesa sociale, ma perchè la sua idea di riunificare e compattare il "fronte interno statunitense" per via "consensuale" non è percorribile e deve lasciar il posto ad una maggiore aggressività del capitalismo nord americano verso l’interno e l’esterno.

Non a caso il leader repubblicano Gingrich dichiara di essere egli stesso il vero ed unico rappresentante del rooseveltismo. Egli coglie di quel movimento, non già l’aspetto "secondario" del sostegno statale alla domanda interna, che consentì non la soluzione della crisi ma un compattamento sciovinistico nazionale sfociato nella guerra, bensì proprio il patriottismo, l’"idealismo", la spinta a mobilitare il "popolo" in favore della "salvezza nazionale", l’attivismo contro il "burocratismo" mollaccione dei politici. Non è dunque paradossale affermare che gli ultra liberisti di oggi siano l’altra faccia della medaglia dei rooseveltiani di allora.

I nuovi personaggi della "rivincita" repubblicana, infatti, non si limitano a richiedere un attacco deliberato allo stato sociale ed un ultraliberismo economico (niente tasse per i ricchi), ma si dipingono come i riformatori dell’intero sistema politico americano. Analogamente ai "costruttori della seconda repubblica nostrani" (tutto il mondo capitalistico è, ormai, paese) denunciano il "marcio" dei politici, la corruzione ed il "consociativismo" del sistema, e si richiamano agli ideali di frontiera dell’America puritana. In politica estera denunciano l’antipatriottismo delle direzioni del paese ed apostrofano come "concessioni al nemico" perfino gli accordi Gatt ed il Nafta. Condiscono la "teoria del complotto" contro gli Usa con richiami populistici che invitano "gli americani" alla tutela dei propri interessi contro "chi ci ruba i posti di lavoro" (immigrati, messicani e "potenze straniere").

"Nuovi" modi di far politica

Ma quello che distingue maggiormente le "nuove crociate" dal reganismo è la tendenza a veicolare la "rinascita degli ideali americani" con un movimento di attivisti, che travalicando i limiti del puro movimento d’opinione, tende ad organizzare il "malessere" ed i "timori" della media e piccola borghesia sul campo, nelle piazze, con periodiche campagne di mobilitazione sempre meno pacifiche.

Molti dei neo-deputati del "polo" repubblicano sono attivisti e leader delle organizzazioni fondamentaliste cristiane che promuovono iniziative di base e non disdegnano di fare l’apologia (e non solo quella) del "legittimo uso della violenza" per tutelare il "diritto alla vita" o gli altri valori della fede. Nel "contratto con l’America", il manifesto elettorale dei repubblicani, oltre alla riproposizione delle rivendicazioni economiche "ultra liberiste", si celebrano veri e propri obiettivi ideali e "valori cristiani" come quello di reintrodurre l’insegnamento religioso obbligatorio nelle scuole. Le proposizioni e perfino la terminologia dei leader repubblicani in politica estera riecheggiano le dichiarazioni di guerra contro il nemico esterno delle bande paramilitari che si organizzano con sempre maggiore frequenza e consistenza in alcune parti degli Stati Uniti. Lo stesso partito repubblicano sta nei fatti cambiando i connotati formali ed organizzativi del passato.

Questa determinata attivizzazione della base sta prendendo il posto o perlomeno integrando i tradizionali canali attraverso cui la borghesia raccoglieva il consenso tra i suoi vari settori e li trasmetteva al centro delle istituzioni mediante la sintesi dei loro diversificati interessi. Le campagne periodiche, le "crociate" contro gli immigrati, l’aborto etc. stanno sostituendo le tradizionali convention puramente elettorali e la rete delle corporazioni di categoria, delle lobbies professionali e di settore si dimostrano molto più sensibili a far convergere i propri sforzi verso queste forme di pressione nei confronti delle istituzioni, piuttosto che limitarsi alla fiducia nei consolidati meccanismi di delega.

Come negli altri paesi imperialisti, anche negli Stati Uniti l'ingresso in una fase più tormentata della crisi capitalistica mette in crisi i tradizionali meccanismi istituzionali con cui i vari pezzi della classe borghese riuscivano a ricomporre in unità i loro singoli interessi e a governare il conflitto di classe. I compassati commentatori politici americani sono semplicemente sorpresi dalla violenza con cui vengono vituperate le stesse istituzioni americane, compresa la figura del Presidente degli Stati Uniti (e anche questo dovrebbe ricordarci qualcosa), lanciando democratici allarmi sul rischio che l’agguerrito movimento repubblicano possa disgregare anziché rafforzare la stabilità del "sistema americano", sul rischio che la tradizionale divisione orizzontale (tra popolo democratico e popolo conservatore) si tramuti in una suddivisione tra "alto e basso", e cioè in dichiarato conflitto di classe. Inutile dire che questi allarmi lasciano il tempo che trovano poiché le spinte a disgregare le componenti borghesi e a riunificarle ad un livello più alto di adesione all'interesse complessivo del capitale sono l'unica risposta che l'istinto di conservazione del sistema capitalistico può trovare per difendere il proprio organismo dalla malattia che lo corrode.

Ma se la mobilitazione e le caratteristiche del movimento repubblicano tracciano le direttive su cui la borghesia cerca di ricomporre le sue forze, esse evocano in egual modo la necessità del proletariato nord-americano e di tutta la contigua ed "integrata" area latino-americana di procedere in analogo e contrapposto percorso.

Il movimento proletario statunitense: dalla resistenza in campo sindacale...

Gli anni dell’offensiva reganiana e della recessione hanno messo a dura prova il movimento sindacale statunitense. Questo periodo ha visto più volte la classe operaia scendere in campo sia contro i licenziamenti che contro gli aumenti dei ritmi. Nella più classica tradizione del padronato statunitense la borghesia ha adottato tutti i mezzi per sconfiggere queste mobilitazioni, utilizzando largamente la pratica della sostituzione dei lavoratori in sciopero con manodopera disoccupata, contando sul pieno appoggio del governo e sul ricatto della recessione. Gli effetti di questo violento attacco sulla tenuta organizzativa e sindacale sono riassunti dal dato che rileva la perdita del 45% degli aderenti da parte del sindacato siderurgico negli anni tra il 1981 ed il 1991.

Queste esperienze hanno spinto perfino l’ultra moderato sindacato AFL-CIO a prendere in considerazione l’idea di un maggiore coordinamento delle mobilitazioni in atto in quegli anni -salvo boicottare quelle iniziative che promuovevano il collegamento dal basso delle esperienze di lotta-, a prendere atto della rottura voluta del padronato della tradizionale pratica di concertazione economica, su cui il sindacato aveva edificato il suo gigantesco apparato.

A sottolineare quest’ultima esigenza è intervenuta la rapida espansione dell’industria statunitense verso il Messico. La possibilità delle imprese statunitensi di spostare una parte consistente della produzione in territorio messicano, il conseguente utilizzo di manodopera sottopagata, richiedevano una risposta immediata pena il rischio concreto di un ulteriore ridimensionamento della capacità di contrattazione sindacale. Naturalmente l’impulso dato dalle organizzazioni sindacali ufficiali alla spinta dal basso per uniformare i contratti e le paghe dei lavoratori messicani delle imprese statunitensi emigrate in Messico, si è vestita degli abiti nazionalistici della difesa dei posti di lavoro americani.

Ma, nonostante questa ipoteca sciovinista, anche il solo porsi il problema della riunificazione materiale della classe operaia messicana con quella statunitense costituisce un oggettivo ed importantissimo salto di qualità del movimento sindacale nord-americano e un viatico decisivo verso la rottura degli steccati che storicamente l’imperialismo statunitense ha posto alla riunificazione del proletariato in tutta l’area.

La ripresa della battaglia sindacale e, con essa, i primi incerti passi per tentare di coordinare le organizzazioni e le lotte per la parificazione dei salari e dei ritmi nei due paesi fanno parte delle "conseguenze" dell’espansione commerciale e finanziaria degli Stati Uniti in Messico che preoccupano e danno le ali al fronte neo conservatore. Ma ciò che la rinnovata spinta tradeunionista ha messo sul tappeto travalica gli stessi limiti della politica di difesa sindacale.

...alla ricerca di un nuovo protagonismo politico

Già nel corso delle centinaia di durissime lotte locali degli anni bui del reganismo alcuni settori della classe operaia statunitense sono stati costretti ad uscire dalla consolidata illusione di poter sposare integralmente la causa del proprio capitale. Era ovvio che questo risveglio rivendicativo dovesse scontare la impreparazione degli operai statunitensi ad uno scontro che prendeva i connotati di una offensiva generalizzata della borghesia. Veniva violentemente disattesa la tranquilla e pacifica riproposizione dei termini generali del "contratto sociale", mentre la organizzazione su base locale e di corporazione della difesa sindacale scontava i suoi limiti di fronte alla capacità padronale di usufruire del sostegno del governo e dello stato alla propria offensiva. In quegli anni per la prima volta sia la questione dei salari che delle condizioni di lavoro usciva dai canali della libera contrattazione di fabbrica o di settore ed i singoli padroni ricevevano dallo stato, in maniera diretta e manifesta, l’impulso a stabilire "nuove relazioni sindacali" (direttiva messa in moto dal clamoroso licenziamento degli 11 mila controllori di volo in sciopero da parte di Reagan nel 1981).

La sconfitta delle lotte parziali, anche molto dure, ha riproposto all’interno della classe operaia la necessità di riacquistare quel collegamento attivo tra lavoratori che risultava vitalmente necessario di fronte alla capacità padronale di ostacolare le singole lotte mediante il sistematico utilizzo dei propri strumenti generali di classe. Quelle esperienze non potevano che risultare preziose nella fase successiva. Non solo gli attivisti sindacali ed i protagonisti delle lotte parziali dovevano sempre di più richiedere alle proprie centrali sindacali l’impegno a farsi carico di rivendicazioni generali unitarie, ma andava facendosi strada nelle esperienze di lotta ed organizzazione più determinate l’idea che a tale offensiva generale di difesa del profitto andava contrapposta una pari strategia sindacale che fosse in grado di sostituire il rapporto di piena integrazione con le istituzioni statali (ormai in evidente crisi) con una "politica generale più vicina al punto di vista operaio ed ai suoi interessi autonomi". La rottura dei precedenti equilibri "consociativi" costringeva, insomma, il movimento sindacale statunitense a cercare un nuovo canale per tornare a "contare" sulla scena politica.

I primi passi

In una prima fase questa esigenza si è manifestata con la ripresa di aspettative verso la candidatura di Clinton e con una maggiore pressione sui candidati democratici locali perchè rappresentassero le esigenze operaie. Successivamente la profonda delusione di queste aspettative ha indotto la parte più attiva del movimento sindacale a fornirsi di strumenti più adeguati: da qui è partita la proposta di un Partito del Lavoro (L.P.) che, sulla base di una propria autonoma piattaforma sindacal-politica, si facesse carico della rappresentanza politica operaia senza delegarla all’apparato del Partito Democratico. La formalizzazione di questa proposta nell’anno in corso ha ricevuto una sostanziale spinta proprio dall’inasprimento dello scontro che l’offensiva repubblicana preannuncia. Essa è stata partorita anni addietro direttamente dall’interno delle Unions sindacali, in particolare da quella dei chimici, e presenta evidentissimi limiti politici sia nella incapacità di sottoporre a critica complessiva il sistema capitalistico sia nel presentare l’ibrido unionista come strumento per rispondere alla latente richiesta di un partito di classe. Ma pur delineandosi come uno "strumento di pressione" legato al Partito Democratico, questa proposta, che conta un numero rilevante di aderenti, rappresenta un sintomo significativo del percorso che il movimento operaio statunitense sarà sempre più spinto a percorrere per rispondere ai colpi dell'offensiva capitalistica: superamento della sua frammentazione e riacquisizione di tutti gli strumenti di classe dello scontro, programma politico autonomo e partito compresi.

Nonostante la componente maggioritaria del L.P. sia restia ad allargare la partecipazione all’organizzazione al di fuori dei membri iscritti alle Unions sindacali, la sua stessa formazione indica una necessità contraria a quella del puro unionismo sindacale. E ciò è un'ulteriore riprova del fatto, valido non solo per gli Stati Uniti ma per tutti i paesi nella fase imperialista, che l’attivizzazione sindacale nei periodi di crisi assume potenzialmente quei connotati di rottura con il sistema esattamente opposti alla integrazione dei periodi di pacifico sviluppo del capitale.

Certo l’esperienza del L.P. non può essere contrabbandata come una rinascita del sindacalismo rivoluzionario delle IWW (6), ma se il grado di "rottura" nella lotta contro il capitale è molto più basso di quello sancito da quelle organizzazioni, alcune delle condizioni oggettive dello scontro attuale pongono premesse più avanzate per superare il limite di fondo dell’esperienza del sindacalismo rivoluzionario americano: la mancanza di un partito centralizzato e di una strategia che mirasse alla presa del potere politico statale. Quello che interessa rilevare in queste esperienze è che il proletariato nord-americano viene spinto alla centralizzazione delle sue forze, e nel contempo a ritessere la trama della propria riorganizzazione in sempre più netta separazione ed opposizione al capitale, unitamente ad altre sezioni del proletariato internazionale, in primo luogo a quello messicano.

I fatti che si svolgono in nord America devono essere d'insegnamento a tutto il proletariato mondiale. Sulle stesse direttrici del capitale USA, con forme e difficoltà diverse, si muove la borghesia in tutti i paesi imperialistici...a noi il compito di riconoscerlo e di attrezzarci alla bisogna.


Note

1) E' la famosa "proposition 187", legge di iniziativa popolare dei repubblicani californiani che ha sancito l’esclusione degli immigrati "illegali" (buona parte dei lavoratori di quello Stato) da ogni beneficio assistenziale.

2) I dati parlano del 5% di aumento del PIL e di + 3.500.000 occupati.

3) Inno dei movimenti democratici del ’68 statunitense, riproposto tra le canzoni di celebrazione durante lo sfarzoso insediamento di Clinton alla Casa Bianca.

4) Negli Usa non esiste assicurazione medica obbligatoria e attualmente si calcola che più di 30 milioni di americani non sono coperti da alcuna protezione sanitaria

5) Dati e notizie riportati da Le monde diplomatique, edizione a cura de Il Manifesto, 18.12.94..

6) Le organizzazioni sindacali rivoluzionarie che guidarono il proletariato statunitense in una acceso scontro di classe. Esse travalicavano i limiti della pura protesta sindacale, organizzandosi come strumenti di lotta e "contropotere proletario", senza limitare la propria azione al puro ambito fabbrichista.