TERMOLI:

UN SEGNALE ED UN INSEGNAMENTO
PER TUTTI GLI OPERAI.

 

 

Indice


Mentre il governo Berlusconi sfidava con un attacco frontale il movimento operaio sulla questione delle pensioni, il padronato intensificava la sua offensiva sui singoli posti di lavoro contro la capacità di difesa e di lotta organizzata del proletariato. Lo stabilimento FIAT di Termoli é stato il banco di prova della possibilità di generalizzare il "modello Melfi" a tutto il sistema dell’industria ed avere completa mano libera nell’uso della forza-lavoro, un obiettivo prioritario per il padronato, che non si accontenta delle notevoli concessioni già ottenute dai sindacati su questo terreno. Le vicende che hanno visto al centro lo stabilimento di Termoli offrono un terreno di riflessione che la classe operaia non può eludere, se vuole uscire vincente da uno scontro che si preannuncia lungo e duro.

 

Non si erano ancora spenti gli echi della grande mobilitazione operaia contro la finanziaria del governo Berlusconi, quando il caso Termoli ha segnato bruscamente la riapertura delle ostilità da parte padronale nelle fabbriche. La portata dello scontro che si é aperto intorno allo stabilimento molisano, il suo epilogo negativo per i lavoratori, travalicano i limiti di una vicenda puramente locale o, al più, interna alle strategie aziendali del solo gruppo FIAT. Per comprenderne il senso occorre inquadrarla nell’insieme delle condizioni generali nelle quali si é sviluppata.

Una vicenda niente affatto locale

Il primo aspetto da considerare é la necessità del padronato industriale - anche ora che si manifesta una congiuntura di ripresa della domanda internazionale - di stringere i tempi della sua offensiva tesa a riconquistare un uso indiscriminato e pienamente flessibile della forza-lavoro. Benché questo sia un obiettivo costantemente perseguito dai capitalisti, non vi è dubbio che esso ha raggiunto negli ultimi anni la caratteristica di una vera e propria ossessione. Ciò è indicativo dei livelli a cui si è ormai spinta la concorrenza internazionale, con la necessità di intensificare al massimo lo sfruttamento degli impianti (cioè dei lavoratori) per ammortizzare nel minor tempo possibile il valore del capitale investito in macchinari ed impianti, e per rispondere in maniera rapida al volubile andamento dei mercati senza doversi accollare l'onere di nuove assunzioni stabili con relative garanzie. Ma la dice lunga anche sulle difficoltà complessive dell'economia capitalistica che, nonostante il ricorso a tutti gli strumenti possibili per aumentare il plusvalore estorto agli operai, incontra difficoltà crescenti a valorizzare ulteriormente la mostruosa massa di capitali oramai esistente.

In diverse realtà industriali legate all’esportazione sono stati firmati accordi aziendali per aumentare i turni di lavorazione settimanale ordinaria utilizzando anche il sabato, ma dove i lavoratori sono più forti - per esempio nel bresciano alla Iveco, Beretta, Trw, Innse, Ocean ecc. - pur accettando turnazioni più logoranti, hanno strappato ricompense salariali e riduzioni d’orario. A Termoli invece, Agnelli, chiedendo di portare da 15 a 18 i turni settimanali ordinari, con lo slittamento alla domenica delle manutenzioni, ha calcolato di non aver bisogno di offrire agli operai contropartite materiali, potendo far leva sulla fame di posti di lavoro cronica nelle aree del Mezzogiorno: bastava promettere l’avvio di una nuova produzione, accompagnata da un certo aumento di organico. Ha strizzato l’occhio ai lavoratori, offrendo la precedenza nelle assunzioni ai "figli dei dipendenti" e ha contato, a ragione, di trovare nel sindacato un interlocutore disponibile allo scambio flessibilità - occupazione: una strategia che il padronato sta utilizzando sempre più spesso come esca per smorzare le resistenze sindacali (magari realizzando dello scambio solo il primo termine, la flessibilità) e che ha il precedente più notevole proprio nel gruppo FIAT, con l’insediamento di Melfi, dove l’impianto della fabbrica fu subordinato al fatto che il sindacato accettasse in partenza le più dure e flessibili condizioni di lavoro mai viste fino allora in una fabbrica di grandi dimensioni.

Anche a Termoli la FIAT ha condizionato la produzione del motore Fire a 16 valvole e le 400 nuove assunzioni al maggior sfruttamento dei lavoratori, minacciando di spostare altrove l’investimento con grave pregiudizio per il futuro dello stabilimento. E’ apparso subito chiaro il senso più generale dell’operazione: togliere un’altra foglia al "carciofo", cioè muovere un altro passo nella generalizzazione graduale all’intero gruppo del "modello Melfi", passando prima negli stabilimenti più ricattabili o dalle tradizioni di lotta più recenti, poi nelle cittadelle operaie più forti. (Un passaggio coerente con questa strategia la FIAT lo aveva già fatto a Mirafiori con l’introduzione del terzo turno e del lavoro notturno obbligatorio anche per le donne).

Ma, quella di accentuare l’attacco in fabbrica ai lavoratori é una necessità di tutta la borghesia italiana. Tanto più urgente risulta questa offensiva contro il proprio proletariato da parte della borghesia nostrana se si tiene conto delle difficoltà che quest'ultima incontra a disciplinare il proprio fronte e lanciarlo all'assalto dell'organizzazione di resistenza operaia. Ne parliamo in altra parte del giornale. Qui ci limitiamo a ricordare che l'ultimo tentativo fatto da essa in tal senso, con Berlusconi in autunno, ha incontrato difficoltà al momento insormontabili, tra cui la mobilitazione unitaria degli operai e, dietro di essi, dell'intero proletariato. Di fronte a questa risposta, allo schieramento padronale-governativo non é rimasto che ripiegare momentaneamente in attesa di tempi più propizi e spostare l’attacco sul terreno della fabbrica, dove i lavoratori sono artificialmente separati da una miriade di fattori di diversificazione: settore produttivo, dimensione dell’azienda, area territoriale, livelli salariali, organizzativi, tecnologici.

L’intramontabile mito della "concertazione"...

D’altra parte - altro elemento fondamentale del quadro di condizioni in cui si é svolta la vertenza - a riaprire la porta all’offensiva padronale hanno contribuito proprio i vertici sindacali che, anche nei momenti più alti della lotta, si sono sempre rifiutati di estendere lo scontro direttamente alle questioni di fabbrica nonostante fosse evidente che la determinazione di Berlusconi derivava proprio dall'aperto sostegno della grande industria. La personalizzazione dell'avversario, tanto comune tra le forze sindacali e politiche riformiste, ha fatto ritenere a quegli stessi vertici sindacali, ma anche a tanta parte di lavoratori, che l'intenzione di andare ad un drastico ridimensionamento della forza organizzata della classe operaia fosse solo di Berlusconi e di qualche suo cattivo consigliere. Per cui, una volta sconfitto quest'ultimo si sarebbe riaperta la strada per il ritorno alla concertazione, sia pure sempre più al ribasso, in cui i sindacati avrebbero potuto veder riconosciuto il proprio ruolo e tornare a dare il proprio contributo per l'opera di risanamento nazionale, cui non mancano occasione per evidenziare la propria sensibilità.

Anche il PDS, che non si era adoperato più di tanto per la buona riuscita della mobilitazione di questo autunno, non ha mai smesso di appoggiare la politica del rigore e della difesa della competitività aziendale e nazionale, purché concordata (con lui stesso), illudendosi di poter bruciare così qualche tappa nella marcia di avvicinamento al governo. Ma poiché i rapporti politico-istituzionali riflettono quelli materiali, tornata la pace sociale, le forze borghesi hanno potuto riprendere l’attacco più agguerrite di prima, stringendo ancora più direttamente le stesse leve del governo (con operazioni di maquillage pseudo-tecnico). Perciò, senza essere riuscito a modificare nella sostanza gli assetti politico-istituzionali, l’uso che i vertici sindacali e politici riformisti hanno fatto del movimento d’autunno ha ridotto il vantaggio che i lavoratori avevano strappato sul piano sociale e ha consentito all’avversario di tornare alla carica con rinnovato vigore. Non a caso l’intesa aziendale alla FIAT di Termoli é stata firmata quando si dava ormai per certa la revoca dello sciopero generale del 2 dicembre.

Sull’onda del movimento contro il governo Berlusconi si sarebbe potuto avviare una estesa iniziativa di lotta sui luoghi di lavoro partendo dal rinnovato senso di forza e di unità diffuso tra i lavoratori, per recuperare il tanto terreno perduto e per rispondere con una generale vertenza a quella che anche sul terreno della fabbrica rimane un'offensiva unitaria .... ma, a questo punto, sono riapparsi, con tutto il loro peso, i guasti della direzione riformista e i problemi non risolti del movimento operaio: la mancanza di un vero programma di classe, l’illusione di poter bloccare l’aggressione delle classi borghesi senza portare a fondo e unitariamente la lotta generale. L’esito della vertenza di Termoli, in questo quadro, era già pesantemente condizionato, i passaggi fondamentali si sono svolti coerentemente con i suoi presupposti.

...e la realtà concreta di un attacco senza fine

Il pronunciamento contrario degli operai nel referendum sull’accordo é stato massiccio. La bocciatura dell’intesa ha espresso con chiarezza il rifiuto di cedere ulteriori margini delle proprie condizioni di lavoro e si é posto oggettivamente in continuità con il no detto dal movimento dei lavoratori al governo Berlusconi. Ma i vertici nazionali di categoria sono intervenuti immediatamente: correzione del tiro o essere abbandonati. Questa oggettiva complicità con i piani padronali é arrivata fino alla canagliesca idea, poi abbandonata per la mole di proteste suscitate, di raccogliere firme in fabbrica per la cancellazione del referendum: i non firmatari sarebbero finiti sulla lista di proscrizione della direzione aziendale! Come sembrano lontani i tempi in cui tanti bonzi d’apparato sostenevano lo strumento "democratico" del referendum contro le "prevaricanti" assemblee di fabbrica!

In questo modo FIOM-FIM-UILM nazionali hanno fatto sapere all’intera classe operaia italiana, attraverso gli operai di Termoli, che la partita giocata contro la finanziaria non ha affatto prodotto l’inversione di rotta della strategia sindacale; anzi, é pienamente confermata la linea del sindacato collaborativo, che si muove nel rispetto dell’interesse prioritario dell’economia nazionale ed é, per questo, pronto a dare la precedenza agli interessi dell’azienda sui bisogni e le aspettative, nonchè sui "diritti acquisiti", dei lavoratori.

Questa rinuncia alla difesa delle condizioni di lavoro ha lasciato campo libero ai ceti piccolo borghesi locali, entrati in scena per conto della FIAT ad agitare una fittizia contrapposizione tra operai occupati e giovani disoccupati, accusando i lavoratori di impedire 400 nuove assunzioni per tenersi stretto il privilegio del fine settimana libero; montato lo scenario scontato del meridionale fannullone o che ama zappare l’orticello al sabato, é stata scatenata una violenta campagna denigratoria di risonanza nazionale, che ha pesato fortemente sulla conclusione della vicenda.

Anche durante la vertenza sulle pensioni lo schieramento padronale-governativo aveva mirato alla contrapposizione generazionale - di qui l’affermazione propagandistica, continuamente ripetuta, della necessità che i padri accettassero sacrifici oggi per garantire domani le pensioni dei figli - ma l’operazione era fallita grazie allo sviluppo della mobilitazione che aveva saputo unificare giovani e meno giovani nel comune obiettivo, sul terreno della stessa condizione proletaria. A Termoli, invece, quel fronte sociale borghese, che da alcuni anni a questa parte si va facendo più attivo nel reclamare misure e politiche anti-operaie, non é stato contrastato, gli é stato permesso di chiamare i giovani disoccupati a scagliarsi contro gli operai "egoisti e irresponsabili"; nessuna iniziativa é stata presa per demistificare una manifestazione di "studenti" e di un non meglio identificato "comitato (spontaneo?) per il si", subito raccolte e largamente propagandate dai media.

Quello della contrapposizione tra occupati e disoccupati é un copione antico, ma se si fossero denunciate con la dovuta forza le responsabilità padronali della continua diminuzione dei posti di lavoro, ben poche cartucce avrebbe avuto da sparare il fronte filo padronale. Si sarebbe dimostrato che lo sviluppo dell’occupazione non dipende dal grado di "efficienza" (cioè di spremitura della forza-lavoro) che le aziende raggiungono ma dalla capacità del movimento operaio di conquistare e mantenere rapporti di forza favorevoli; peggiorare, invece, la condizione degli occupati non significa aiutare i disoccupati a migliorare la propria. Tanto é vero che l’elenco delle promesse occupazionali non mantenute dalla FIAT (e dal resto del padronato) é molto lungo: accettati i "sacrifici", nella speranza di raccoglierne più tardi i frutti, é sempre intervenuta qualche fluttuazione di mercato ad impedire il rispetto degli accordi. Che cosa significhi, poi, lavorare in una fabbrica in cui é stata fatta terra bruciata del potere contrattuale e il dominio della macchina (del capitale, del profitto) é giunto al massimo lo sanno bene a Melfi, da cui si sono già dimessi spontaneamente 200 dei giovani assunti in cambio delle "moderne" condizioni flessibili.

La FIAT ha anche giocato la carta della contrapposizione tra stabilimenti e aree territoriali diverse, minacciando di spostare a Torino o a Pratola Serra la costruzione del motore a 16 valvole. Durante la stagione di lotta contro la finanziaria le singole fabbriche avevano cominciato a sentirsi articolazioni del più vasto movimento operaio, comprendendo che nessuno poteva difendere se stesso senza difendere contemporaneamente tutti gli altri lavoratori; riconoscendosi nella stessa lotta gli operai si erano sentiti classe, dando inizio ad un processo di rafforzamento politico che é stato all’origine del risultato ottenuto. Nel caso di Termoli, invece, abbiamo assistito ad uno spettacolo vergognoso di mancanza di solidarietà e addirittura di concorrenza tra lavoratori.

Non destano meraviglia le dichiarazioni forcaiole di deputati di AN (canaglie che fanno il loro mestiere) e neppure quelle istituzionali (vedi presidente della Giunta Regionale della Calabria, che ha offerto ad Agnelli l’alternativa della manodopera calabrese, "sottomessa e laboriosa"): perché, anzi, questo genere di concorrenza é destinata ad aumentare nello spirito federalista che guadagna terreno anche tra i progressisti. Ma é caduta come un fulmine la dichiarazione della Camera del Lavoro di Torino sulla disponibilità di Mirafiori ad ospitare l’investimento; ci sono stati delegati della cintura industriale barese, dove sono passati in seguito accordi analoghi a quello di Termoli, che hanno commentato criticamente il risultato del referendum e da parte sua il Cobas di Arese, pur dicendosi solidale con i lavoratori di Termoli, non ha perso l'occasione per sostenere la necessità di portare al nord la nuova produzione (quando si dice una politica e un sindacato di classe...).

Risposte inadeguate e fuorvianti

Alcuni esponenti e settori della CGIL hanno colto, nel tentativo della FIAT di mettere i lavoratori gli uni contro gli altri, i pericoli per la tenuta dello stesso sindacato, ma non sono andati al di là del rilascio di qualche blanda dichiarazione di dissenso verso l’operato del vertice nazionale di categoria. E, in mancanza di una battaglia interna forte e chiara, si é dato spazio all’illusione di poter fare "diversamente" nel proprio comprensorio, dimenticando che ciò che passa nei settori più deboli é destinato a passare immancabilmente anche negli altri, se non...

Le manovre di logoramento dei rapporti di forza nella fabbrica di Termoli da parte della FIAT erano già iniziate nel mese di aprile del ’94, quando la direzione aveva incassato la disponibilità di CGIL-CISL-UIL territoriali a rivedere l’organizzazione del lavoro; era stato firmato un "accordo-ponte" che estendeva ai soli volontari il lavoro al sabato, tuttavia pagato ancora come straordinario, fissando per i primi del ’95 la data dell’assetto organizzativo obbligatorio. Avevano aderito stabilmente 1000 operai su 2700, altri 6-700 saltuariamente (288 ore di media di straordinario a testa): la direzione aveva così ottenuto la divisione di fatto tra i lavoratori e l’impossibilità della struttura sindacale di base di controllare la sperimentazione in corso. Dopo l’elezione della RSU, titolare degli accordi aziendali, la direzione ha presentato il conto finale.

I lavoratori hanno avuto la consapevolezza di essere di fronte al più duro attacco della loro storia ma non hanno saputo combattere l’isolamento in cui si sono trovati, né nei confronti del resto della classe né dell’ambiente cittadino. Una parte di loro ha, almeno temporaneamente, riposto la sua fiducia in sindacati fantoccio come la Cisal e la Cisnal, noti campioni di doppiezza e di demagogia, che fanno della divisione tra i lavoratori la loro ragion d’essere. La Cisnal, molto cresciuta durante la vertenza, dopo aver tuonato contro i "traditori della Triplice", si é riallineata prontamente al richiamo di AN. Entrambe, dopo aver cavalcato la protesta, non hanno esitato a scaricare la lotta sottoscrivendo a loro volta l’accordo.

Altri operai, combattivi e delusi dall'atteggiamento dei sindacati confederali, hanno pensato di dare vita, sull’onda della bruciante esperienza, ad un sindacato alternativo e hanno formato un Cobas, aderente allo SLAI. Non c’é dubbio che alcune spinte verso il sindacalismo autonomo esprimono un’insofferenza reale e una giusta critica al moderatismo delle confederazioni, ma questa strada non ha portato affatto a combattere le chiusure settoriali e a superare l’isolamento della fabbrica. Piuttosto che riconquistare l’indipendenza contrattuale di classe, i lavoratori sono stati indotti a sottovalutare ulteriormente la necessità della lotta unitaria.

Non si può, per altro, tacere che lo SLAI, precipitatosi in massa a Termoli per denunciare i cedimenti della triplice alla Merloni di Carinaro nel casertano, ha qui sottoscritto, insieme alla stessa odiata "triplice", le richieste dell’azienda che prevedevano un aumento della produzione in cambio di 60 "nuove assunzioni" (fasulle visto che 47 di questi lavoratori provenivano da un precedente contratto a termine). Stretti dalla necessità di essere riconosciuti, dai lavoratori e dall’azienda, come soggetto di contrattazione spesso i Cobas tengono una condotta non precisamente coerente con la loro presunta natura antagonistica. Come abbiamo più volte denunciato, l'eventualità di una crescita di questi sindacati farebbe crescere in maniera esponenziale il loro "realismo" e cioèla subordinazione alla logica della compatibilità capitalistiche, che già oggi emerge chiaramente quando essi hanno un minimo di seguito effettivo.

Riprendere la mobilitazione generale e unitaria

Dalla vicenda della FIAT di Termoli, dal dilagare successivo di accordi analoghi di ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro - alla Merloni di Carinaro, alla Weber e alla Firestone Bridgestone di Bari, alla Teksid di Carmagnola - occorre trarre un insegnamento. I padroni non intendono forzare i limiti della settimana lavorativa solo per appropriarsi di altre quote di tempo e di fatica dei lavoratori; stanno tentando anche di colpire drasticamente quanto di organizzato c’é oggi nelle fabbriche, ponendo una pesante ipoteca negativa su ogni possibilità futura di costituire forme di difesa e di risposta operaia in fabbrica e, di conseguenza, ai livelli più generali di classe. Per questo la riproposizione del "patto sociale" da parte dei sindacati espone il movimento operaio ad una gravissima sconfitta.

Durante le fasi più critiche del ciclo economico, la decisione sindacale di non ostacolare il recupero di efficienza produttiva delle aziende ha permesso l’espulsione di centinaia di migliaia di operai dalle fabbriche e lo sfruttamento intensivo di chi rimaneva a produrre anche al posto dei licenziati, ha portato a continue perdite di salario, diritti, potere di controllo in vista della mitica "ripresa", che avrebbe dovuto migliorare successivamente le condizioni materiali dei lavoratori. Oggi i profitti riprendono a crescere, ma di questo "secondo tempo" per i lavoratori non si vede traccia. La necessità di produrre sempre di più e più in fretta anche nelle fasi di ripresa induce i padroni a tirare ancora il collo ai lavoratori, scaricando su di loro il costo di (limitati) incrementi di personale.

Né il padronato si accontenta di orari e turnazioni più dure, puntando al lavoro in affitto, alle squadrette di operai da mettere in produzione nei momenti di picchi di domanda, con salario e orario ridotti. Soprattutto al Sud, la via per l’occupazione prevista é quella del salario ridotto, dell’enorme estensione del lavoro precario. Nel frattempo i governi, poco importa se di centro o centro-destra, sostengono il processo di deregolamentazione del rapporto di lavoro, legittimando le assunzioni nominative, estendendo i contratti a tempo determinato, il part-time, ecc.; il governo appena nato, sotto auspici per nulla tranquillizzanti per i lavoratori, si cimenterà con gabbie salariali, salario d’ingresso, lavoro in affitto, oltre che con la questione pensioni e la nuova serie di tagli della spesa pubblica.

Vicende come quella di Termoli indicano quanto sia letale per gli operai accettare i continui arretramenti imposti dalla controparte e come l’illusione di limitare i danni e di portare a casa qualche risultato attestandosi su trincee sempre più arretrate si ritorce sistematicamente contro gli stessi lavoratori.

Il tentativo di contrapporre occupati e disoccupati, stabilimento contro stabilimento, aree del nord contro quelle del sud, si farà sentire in maniera sempre più pesante quanto più la lotta di resistenza sarà particolare e limitata. Esiste un unico modo per respingere questa strategia del padronato: quello di una lotta e di un programma capace di unificare tutte le energie del proletariato per scagliarle compatte contro il fronte avversario. Ma ciò comporta la necessità di rigettare la logica delle compatibilità e della competitività, per affasciare in un unico fronte tutti i settori del proletariato, altrimenti non riusciremo mai a contrastare il tentativo seriamente i tentativi di buttarci contro i nostri stessi compagni di classe.