RIFONDAZIONE COMUNISTA:
PARTITO COMUNISTA O RUOTA DI SCORTA
DELLA "SINISTRA" BORGHESE?

Indice

Vecchi lupi, vecchio pelo


Di fronte alla crisi profonda che, a tutti i livelli, sta investendo l’Italia (e il mondo intero) non è più possibile giocare a rimpiattino. O si lavora ad organizzare le forze di classe attorno ad un reale programma comunista rivoluzionario o si finisce per inseguire "da sinistra" il corso della politica borghese -sempre meno riformista, welfarista, "progressista" -per mettersi al servizio del preteso "meno peggio" tra i nostri nemici di classe. E Rifondazione ha già "scelto" quale strada imboccare.

Nelle fasi di tranquillo tran tran della vita sociale e politica è possibile, per i partiti, così come per le classi, eludere i problemi di fondo e persino presentarsi sulla scena con un volto improprio (e, se vogliamo, addirittura credere che a questa mascheratura corrisponda una certa qual propria realtà).

Alla vigilia della prima guerra mondiale e negli stessi anni di quel dopoguerra i partiti socialisti riformisti si dichiaravano socialisti senz’altro, fieri avversari del capitalismo e, all’occorrenza, propugnatori financo della rivoluzione e della dittatura del proletariato. Tutto questo in quanto fini ultimi; per quel che riguardava l’azione concreta, immediata, era tutt’altro paio di maniche, ma, si giurava e spergiurava, in perfetta lealtà con quelle date finalità.

Alla riprova dei fatti, si dimostrò che la pratica riformista aveva imbevuto di sé non solo la tattica, ma la strategia, il programma, i principi stessi; che essa era entrata in contraddizione mortale con la dichiarata fedeltà alle finalità socialiste e che queste ultime, dapprima ridotte a motivo di predica domenicale, in pretto stile da sagrestia, sarebbero state, prima o poi, apertamente abiurate anche sul puro piano verbale.

Le vicende del PRC si collocano in questo preciso quadro.

Elettoralismo, elettoralismo, elettoralismo

All’atto della sua fondazione ( non son passati secoli...), esso dichiarava di voler reagire con fermezza contro l’"inspiegabile" scivolata liberale della maggioranza dell’ex-PCI, ora PDS, per la riaffermazione, anzi: la rifondazione, del comunismo. Ci si stupiva della "cecità" degli ex-compagni, arrivati a scavalcare a destra le stesse frontiere del riformismo classico, e ad essi si opponeva: il presente periodo storico non si presta più ad operazioni riformiste, figuriamoci poi a quelle liberal-democratiche; più che mai lo scontro in atto era tra due sistemi e classi antagonisti, capitalismo e socialismo, borghesia e proletariato. Tutto in regola, a parole, con un certo Manifesto di un tal signor Karl Marx.

Senonché, quest’omaggio domenicale ai fini ultimi si contaminava, sin dall’inizio, della difesa della "gloriosa tradizione riformista" del vecchio PCI; della riscossione materiale degli interessi di quella tradizione in termini di "stabili conquiste" ottenute "grazie alla democrazia" e "nell’ambito del sistema"; di una fede assoluta nell’eternità e nella progressività di dette conquiste attraverso i meccanismi della contrattazione democratica, parlamentare, sindacale..., in una parola: riformista.

La proclamata antitesi tra comunismo "rifondante" e liberalismo pidiessino era destinata nei fatti a sciogliersi come neve al sole al solo presentarsi dell’ennesima "grande occasione" elettorale. Potevano i "comunisti" astrarsi dalla lotta elettorale, chiudersi in un isolamento "settario", tanto più in presenza del nuovo, "illiberale" (!) sistema elettorale semi-maggioritario? Giammai!

Blocco elettorale, dunque, di sinistra, ed il più aperto possibile, per sconfiggere la destra. Mai che a qualcuno dei rifondatori fosse passato per la testa che l’epicentro della lotta reale, per il potere reale, stesse fondamentalmente fuori dal gioco elettoral-parlantare, ed implicasse uno schieramento di classe, un fronte unico di classe, e non di votanti e relative schede e che su questo si potessero e dovessero misurare i coefficienti di forza (ideale e materiale) dell’esercito comunista. Non si tratta di due strade insieme percorribili, ma di due percorsi divergenti ed opposti. Il PRC concluse invece: se ci astraiamo (elettoralmente) dal blocco della sinistra rischiamo di scomparire come forza reale in grado di rappresentare (elettoralmente) i "bisogni del proletariato".

Per l’appunto: il riformista che ha nella democrazia parlamentare il suo ossigeno non può uscire di lì misurandosi decisamente sul terreno di classe. Non conosciamo ancora esempi di partiti comunisti a carattere anfibio.

Con la vittoria elettorale del "polo delle libertà" le cose si sono ulteriormente complicate (o chiarite...). Cioè: mentre il blocco capitalista di destra, raccolte sul terreno elettorale le forze di uno schieramento antiproletario affermatosi nella società prima che nel voto, le scagliava contro il proletariato in un’azione di offensiva materiale senza precedenti, il PRC veniva a concepire la via della risalita secondo i canoni di una contro-offensiva elettorale basata principalmente, per non dire esclusivamente, sui coefficienti di una allargata unità elettorale della "sinistra". Le stesse mobilitazioni proletarie -del tipo di quella, magnifica per certi versi, dello scorso autunno- dovevano servire da sgabello per questa soluzione "alternativa".

Niente di strano, perciò, che ci si sia imposti, di fronte alla mobilitazione contro la finanziaria da parte del proletariato di non "trascenderne i limiti", di subordinarla alle future e senz’altro vincenti manovre elettoral-parlamentari; insomma, di non essere troppo esclusivisti, settari, troppo... proletari, troppo comunisti, altrimenti addio futura presidenza del consiglio "progressista".

Non era finita lì. Il governo Berlusconi veniva dimissionato non dall’azione di piazza (e chi mai se l’era proposto?) nè da una limpida crisi di governo e successive nuove elezioni, ma dall’improvvisa sortita della Lega. Col che si aprivano le porte ad una soluzione "antiberlusconiana" di ricambio. Per il PDS tutto era ben chiaro: una palla da cogliere al balzo; per arrivare al governo ci si allea anche col diavolo e sua suocera. Dal momento che vale il discorso di contrastare la destra sul piano elettoral-parlamentare, ogni alleato in tale impresa torna buono. E dal momento che il serbatoio elettorale cui ci si può concretamente rivolgere in questo caso è quello di "centro" non resta che correre verso il centro per occuparlo prima che ci pensi qualcun altro. Discorso lineare, coerente, quando si escluda dal proprio orizzonte la lotta di classe, il socialismo, e ci si misuri "concretamente" con le esigenze del capitale e le richieste della "base popolare" che si esprime nel voto.

Al centro, al centro, al centro

E’ così spuntata dal cappello del prestidigitatore (altro che Copperfield!) la soluzione "alternativa" Dini. Un partito come il PRC, dati i suoi persistenti e ben fissi legami con la classe operaia, mal poteva digerire questa soluzione, in evidente contrasto con un movimento proletario che proprio contro Dini si era così massicciamente manifestato. Al tempo stesso, però, data la sua inguaribile vocazione riformista, non poteva rispondere a questa evidente provocazione ritrovando una strada di classe, comunista, inequivoca. Più il PDS, per non parlare del resto della barca "progressista" (sommamente brigantesca proprio nei settori preferenziati all’interno del "blocco" dal PRC: vedi i Verdi!), più il PDS virava verso il centro -palesando un crescente fastidio per l’ala "estrema" di Rifondazione-, più il PRC si affannava a rincorrere una fantomatica alleanza da costruire con esso e con tutti gli altri soggetti "disponibili" per una "vera alternativa progressista", supportata anche da forze di "centro progressista". Su quale terreno? Lo stesso, il terreno del voto, del parlamento, del governo. Ad esclusione di che? Dello stesso deprecabile od inutile fantasma: l’autonoma lotta di classe, un reale fronte unitario del proletariato su base extraparlamentare.

(Un fine buongustaio come Bertinotti non poteva arrivare ad incensare la Lega, contro cui, in passato, s’erano dette a puntino le cose che andavano dette, ma, data l’indispensabilità parlamentare della stessa, anche il nostro -vedi il penoso intervento alla Camera contro Dini- doveva rendere almeno omaggio al suo "travaglio", sino al ridicolo di portare la propria "solidarietà" a quel bel tomo di Bossi contro le "calunnie" di Forza Italia ed AN. Un modo elegante di non far sapere alla sinistra quel che sta facendo la destra...)

Rispetto al PDS, il PRC si colloca senz’altro "più a sinistra", ma in modo del tutto velleitario, confuso e confusionario. Vale poco mostrarsi come "più a sinistra" nelle intenzioni, od anche in sporadici ed incoerenti esempi immediati d’azione, quando si accettino delle fondamenta del genere, perché la conseguenza logica ed ineluttabile di queste ultime porta proprio alle conclusioni fatte proprie dal PDS.

E’ successo così che, pur di fronte alla scarsa appetibilità del nome Dini, abbiano cominciato a manifestarsi nello stesso PRC delle chiare tendenze a sciogliere "in positivo" i nodi lasciati irrisolti dagli atti costitutivi del partito nel senso di una chiara ed aperta confluenza di fatto del partito nel "blocco progressista". Prima Canfora (per il quale Bertinotti è nientemeno che un redivivo Bordiga), poi la federazione toscana federata nel "blocco progressista" (con l’imprimatur di Bertinotti e Cossutta), poi Garavini... E, bisogna dirlo, tutti costoro sono, nella strada destrissima che hanno imboccato, i rappresentanti più coerenti della linea di fondo del PRC, coloro che indicano al partito l’unica strada conseguente da intraprendere qualora da questa linea non si voglia abdicare (ciò che richiederebbe una globale reinversione di rotta, con tanti saluti all’"eredità di Togliatti e Berlinguer": ma ci pare che a quest’eredità anche Bertinotti sia più che mai interessato...).

Mentre le forze politiche borghesi si stanno concentrando in due blocchi complementari al centro (secondo il ben collaudato sistema americano) e mentre questi due blocchi sempre più apertamente escludono da sé ogni condizionante presenza proletaria, il PRC, per non perdere la corsa, si aggrega alla carovana del liberalismo "di sinistra" come sua ruota di scorta, visto che per esso non c’è posto a sedere. Tanto vale, allora, la coerenza di un Garavini!

E’ troppo sperare che dalle fila di Rifondazione, in cui militano tanti generosi compagni, non si sollevi di fronte a questa deriva un moto di ribellione ed uno sforzo di ripensamento teorico-programmatico ed organizzativo? Il minimo che si può dire è che senza di ciò la strada è segnata proprio in senso americano: pratica inesistenza di un partito proletario, "nullità politica della classe operaia", chiamata solo, ogni tot anni, ad esprimersi col voto per uno dei suoi schiavizzatori.

Post scriptum: che si fa con Prodi?

Quando avevamo già scritte queste note è scoppiato "improvviso" il petardo-Prodi.

L’ex-maneggione dell’IRI si propone come leader di uno schieramento di centro moderato con pimento progressista per battere Berlusconi. La sbracatura della "sinistra" che sostiene quest’operazione si fa ancora più evidente, se possibile: non solo si corre sempre di più verso il centro, ma si rinunzia persino a proporre un proprio leader di riferimento; contro Berlusconi va bene quel Prodi che ne aveva approvato il disegno taglia-pensioni, rimproverandogli, anzi, i cedimenti in materia; quest’operazione mira dritto alla fine della stessa "separatezza" della compagine progressista organizzata in vista della costituzione di un super-partito liberal all’americana (tanto che il boy Veltroni è stato subito arruolato come vice).

Ben peggio che l’appoggio esterno a Dini. Qui siamo alla partecipazione interna all’opera di smantellamento sin delle ultime vestigia di un qualche connotato di organizzazione "di classe" indipendente. Dubitiamo fortemente che Prodi possa farcela a diventare il Clinton italiano, ma sappiamo benissimo che cosa ne deriverà per il fronte di classe e quali sono le bagasce che sostengono un tale progetto.

E Rifondazione? Non c’è grande entusiasmo, ma, insomma, "il dialogo resta aperto" e gli stessi "duri" del partito han già provveduto a coniare un nome per il futuro blocco (elettorale soltanto?) che si potrebbe fare in funzione anti-Berlusconi: "fronte di resistenza democratica". Con qualche "condizione": che Rifondazione sia lealmente accettata nel salotto buono liberal e che a Bertinotti sia concesso di fare perlomeno il Jessie Jackson italiano (costa nulla -paga il proletariato-, rende molto... al nemico).

Tutte le sfuriate contro i sostenitori, anche interni a Rifondazione, della "transizione" Dini si dileguano proprio nel momento in cui si fa quest’ulteriore passo verso lo smantellamento dell’organizzazione autonoma del proletariato.

Non diciamo che il PRC potrà percorrere sino in fondo questa strada perché non sarà facile per esso gettar via il proprio patrimonio militante di classe -che costituisce l’unico motivo della sua stentata sopravvivenza-, tanto meno in cambio di un pugno di mosche o addirittura di una messa nell’angolo. Ma, intanto, il possibilismo "concretista" di un Bertinotti più garaviniano di Garavini concorre a smobilitare dall’interno la stessa forza di cui si dispone ed al momento della resa dei conti (allorché si dimosterà a tutti la linea di collisione tra il programma... proditorio e le esigenze antagoniste del proletariato) sarà ben difficile ripartire all’attacco. Che, in ogni caso, com’è nella natura del riformismo, mirerebbe, in un interminabile via crucis, a ricostituire le condizioni delle "più ampie intese (a perdere) a sinistra" su un terreno non solo minimale, ma impraticabile.

Avrebbe ben ragione di protestare la sinistra del PRC qualora essa almeno fosse in grado di indicare con chiarezza una controlinea. Ma quest’ultima non si fa piantando dei paletti di cartapesta puramente formali, bensì demolendo da cima a fondo la logica riformista che costituisce la "tradizione" e l’essenza stessa del PRC. Non è, questo, affare dei Ferrando, ai quali non resta che sottomettersi "disciplinatamente" a questa stessa logica o a far fagotto un’altra volta per andare a riproclamare a qualche cerchia sparuta di gruppettari le proprie "verità trotzkiste", inopinatamente tradite dal PRC. Non senza aver prima seminato confusione a piene mani e svilito agli occhi delle "masse" il senso di una battaglia veramente comunista.


Vecchi lupi, vecchio pelo

Dall’Archivio Pietro Secchia (Feltrinelli, 1979) prendiamo questo ricordino del ’62:

"Strabiliante la proposta di Cossutta che forse è possibile trovarne (di mezzi, n.) a Milano da avversari del centro-sinistra (saprò poi che si tratta dell’Assolombarda) i quali, pur essendo nostri nemici e avversari, non sarebbero alieni dal finanziare un quotidiano di sinistra che lotti contro il centro-sinistra".

Riattualizzate queste righe al ’95 e vedrete che la musica non è cambiata. "I nemici dei nostri nemici sono i nostri amici". E se si poteva allora pensare di correre con la destra più reazionaria per "utilizzarla" (leggi: esserne utilizzati), cosa impedirebbe oggi di correre per quella più "liberale"? Le sottoscrizioni sono aperte...