I REFERENDUM-PANNELLA: QUALE RISPOSTA DA PARTE DEL PROLETARIATO?

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Referendum sull'articolo 19

I referendum di Pannella e Lega (fatti propri anche da FI e AN) rappresentano un serio tentativo di attivizzazione militante di tutte le forze borghesi in senso schiettamente e violentemente anti-proletario. Lo spirito dell’iniziativa referendaria può essere così sintetizzato: raccogliere varie (a volte anche contraddittorie) spinte promananti da diversi settori borghesi e amalgamarle sulla base di un autentico odio anti-operaio. Tale spirito permea l’intero "pacchetto referendario" e non solo i quesiti anti-sindacali.

Per esempio i due referendum -entrambi ammessi- sulla liberalizzazione di orario di apertura dei negozi e delle licenze commerciali sono il classico colpo del grande capitale mirante a cogliere "due piccioni con una fava". Da un lato si punta a norme più concorrenziali e selettive nel settore, col risultato di limitare la polverizzazione degli esercizi commerciali a vantaggio della grande distribuzione, dall’altro si tenterà di scatenare il malcontento dei piccoli esercenti contro il movimento dei lavoratori, con il refrain secondo il quale l’esistenza del piccolo commerciante non è messa in crisi dal grande capitale, ma dall’eccessiva esosità di un fisco costretto a finanziare misure assistenziali a favore di "parassitismo e privilegio operaio".

Due parole sulla Lega

Che Pannella sia il simbolo della campagna referendaria e che FI e AN ne abbiano abbracciato appieno lo spirito, non deve far dimenticare (come troppe volte, con suicida e presunta furbizia, avviene a sinistra) il ruolo fondamentale della Lega di Bossi. Se, infatti, il "digiunatore di professione" ha rappresentato l’anima dell’iniziativa, i lumbard ne hanno incarnato l’indispensabile motore organizzativo e militante in perfetta e dichiarata unità d’azione e di intenti con i Club Pannella. Il periodico del movimento leghista, Lega Nord, di febbraio ’94 dice che i 13 referendum sono "un programma di governo", e che la Lega si è proposta con essi come una "roccaforte della libertà". Legittimo il dubbio che il buon D’Alema più che a una volpe assomigli allo smemorato di Collegno e che, nella frenesia di civettare con la Lega e coi settori di "ceto medio produttivo" che essa rappresenta, tralasci, anche in questa occasione, qualche "piccolo" particolare.

Lo scontro incombe, le truppe latitano, i "capi" agognano l’impossibile "tregua".
Referendum sull'art.19

L'idea che spinse COBAS e "autorganizzati" era che l'abolizione del "monopolio contrattuale" di CGIL-CISL-UIL avrebbe favorito una maggiore democrazia e bloccato la deriva moderata delle confederazioni. Tali esigenze potrebbero anche apparire ed essere in sé giuste, lo strumento è controproducente: affidare al pronunciamento di "tutto il popolo" e, in definitiva, allo stato il compito di riscrivere le regole dell'organizzazione operaia, equivale a far decidere al nemico la struttura del proprio esercito.

Operazioni di tal genere rischiano di produrre, al di là delle intenzioni, "rimedi" peggiori degli indubbi mali che si prefiggono di sanare, oltre a prestarsi a essere cavalcati da Pannella&Co. in funzione di divisione del movimento di classe.

Sconfiggere e rovesciare la politica delle direzioni confederali è di fondamentale importanza per le sorti della classe operaia. E' un'illusione però pensare di poterlo fare saltando a piè pari una dura battaglia all'interno della massa che critichi radicalmente le ragioni della deriva sindacale, mantenendo allo stesso tempo un atteggiamento di massima attenzione verso l'unità della classe.

L’attivizzazione militante e di "massa" del fronte borghese è ancora solo in fase embrionale e si scontra con intralci di vario genere, non ultimo una certa, ancora diffusa, riluttanza a scendere direttamente in campo. Ma ciò non autorizza affatto una sottovalutazione del fenomeno.

Il trionfo elettorale del "Polo" ha evidenziato un vasto consenso di ceto medio e borghesia a una politica più esplicitamente anti-operaia, espressosi in una delega "a fare" rilasciata a Berlusconi. Il duro scontro sociale sulla finanziaria e l’"inattesa" capacità di lotta del movimento operaio, hanno, però, iniziato a mettere in luce che per portare con successo radicali affondi contro il proletariato non è sufficiente limitarsi alla "delega". Per il capitalismo nostrano -anche nella variante federalista- si fa (suo malgrado e non senza "rimpianti" per i "tranquilli tempi passati") sempre più pressante la necessità di promuovere, sul piano politico e sociale, la mobilitazione militante e "popolare" di tutti i ceti borghesi.

Pannella interpreta, rispetto a quella esigenza, un vero e proprio ruolo di avanguardia. Panni che riveste da sempre, va detto in suo "onore" e contro il credito concessogli in passato (solo?) da "sinistra". La sua iniziativa avanguardista deve fare i conti, però, con le dislocazioni di "retroguardia" ancora diffuse nella sua stessa classe.

La Consulta ha cassato alcuni referendum per non sovraccaricare di polvere esplosiva lo scontro di classe già in atto. Ma anche tra gli alleati Pannella incontra resistenze e titubanze. FI non nasconde la sollecitazione a evitare tutti i referendum, con uno scambio tra quelli anti-sindacali e quelli, proposti da "sinistra", per l’abrogazione della legge Mammì coi "privilegi" delle reti Fininvest. Il coordinatore di FI, Previti, è giunto -Corriere della Sera , 11.2.95- persino a dichiarare di "temere i referendum" per "l’effetto di spaccatura del paese". Fini, al congresso di AN, era preoccupato dell’eccessivo rischio per la "concordia nazionale". Lo stesso Bossi potrebbe preferire la non celebrazione di referendum che lo costringerebbero a rischierarsi coi vecchi alleati, divenuti gli attuali nemici, e contro i vecchi nemici, divenuti gli attuali alleati.

Le titubanze della destra vanno incontro ai desideri di "sinistra" e sindacati di disinnescare la "mina" con nuove norme a modifica di quelle sottoposte a referendum. Non si accettano scommesse sul contenuto peggiorativo (per i lavoratori) delle nuove leggi: è certo. Ci spiegheranno che è meglio cedere qualcosa per non rischiare di dover cedere tutto...

Referendum e questione sindacale

Se anche le "manovre" in atto evitassero i referendum, la classe operaia non sarebbe giustificata a non preoccuparsi di quanto avviene. La campagna della destra sui temi referendari è già avviata nei fatti, e produrrà i suoi effetti anche su eventuali nuove leggi "disinnescanti".

In particolare, il referendum sulle trattenute sindacali è un ottimo cavallo di battaglia per cercare di scatenare un’autentica canea contro il sindacalismo confederale. L'obiettivo è quello di indebolire CGIL-CISL-UIL presentandole come organizzazioni che beneficiano di una particolare tutela da parte delle aziende e dello Stato, il che contrasterebbe con una realtà in cui più niente e nessuno deve essere "assistito". Le "particolari" condizioni di favore garantirebbero, per Pannella & co., una sorta di "obbligo" per i lavoratori ad aderire ai sindacati confederali, dando vita, così, alla "sindacatocrazia", lo "strapotere" sindacale esercitato, alla fin fine, contro i lavoratori stessi e contro le masse disperate e affatto "garantite" di ceto medio, costrette, per di più, a "finanziare" -sempre secondo P.&co.-, sia pure indirettamente, questo potere a loro alieno e contrario.

L'abrogazione della norma non costituirebbe, di per sé, un dramma , in quanto sarebbe aggirabile con la contrattazione sindacale. Ma una vittoria dei "sì" darebbe corpo all'esistenza di un forte fronte anti-sindacale in grado di procedere oltre nell'offensiva e in grado di fornire un supporto utile alle varie categorie imprenditoriali per elevare le loro capacità di resistenza alle imposizioni "sindacatocratiche".

Le"amorevoli", libertarie e liberiste attenzioni di questi signori hanno come unico scopo quello di acuire in sommo grado le difficoltà di CGIL-CISL-UIL in quanto esse rappresentano ancora un'organizzazione "generale" di lotta del proletariato e mirano, in ultima istanza, a distruggere la capacità di tenuta e resistenza unitaria del movimento operaio.

Non c’è dubbio alcuno che la classe operaia debba rispondere difendendo la sua possibilità di organizzazione dagli attacchi che le vengono portati. Per organizzare nel miglior modo la difesa bisogna, anzitutto, comprender bene la natura dell'attacco, poi, disporre le proprie batterie nel modo più consono a impedire la sconfitta, ma anche vittime nel proprio campo. Esaminiamo più nel concreto la questione.

In origine le quote sindacali erano raccolte nei luoghi di lavoro dai "collettori", non semplici esattori, ma tramite politico tra "base" e struttura sindacale. Nel secondo dopo-guerra si passò al sistema della delega data alle aziende di riscuotere le quote direttamente dal salario per conto delle organizzazioni sindacali. Quel passaggio comportò un affievolirsi del rapporto diretto tra burocrazia sindacale e massa. Nello stesso tempo che si affermava il sistema "delega", il sindacato accentuava la sua sottomissione alle esigenze delle aziende e del capitale in generale, nonché a quelle dello Stato.

L’elemento della "delega" e quello dei contenuti della linea sindacale, marciano, dunque, all’unisono. Non è l’elemento "formale" della delega a causare l’assoggettamento del sindacato ad aziende e Stato. Ma la "delega" -in quanto facilitazione al finanziamento del sindacato- è un riconoscimento, un premio che la borghesia concede alle burocrazie sindacali per il loro impegno a stemperare l’antagonismo di classe, e uno stimolo a "migliorarsi" di più su quella strada.

Per le burocrazie e per il "riformismo" la "delega" rappresentava una dimostrazione della possibilità di costruire un sistema stabile di "mediazione" degli interessi di classe operaia e capitale. Col tempo, e con la crisi del capitalismo, quel sistema ha cominciato a mostrare crepe crescenti. La "mediazione" ha, per la borghesia, spazi sempre più limitati. Per prorogarne l’esistenza i sindacati hanno accettato un progressivo indebolimento delle loro stesse "capacità" contrattuali. Ma il declino verso una sempre più spinta moderazione non è in grado di saziare la fame borghese e di salvare il sistema di "mediazione". Al contrario, più i sindacati arretrano, più la borghesia li sospinge nell’angolo, fino ad accarezzare l’idea di procedere a un drastico loro ridimensionamento. E' quanto si propone il quesito referendario, non tanto per l’effetto diretto, quanto per quelli ulteriori cui punta la campagna che è in grado di suscitare "contro il sindacato".

Si tratta, dunque, di un vero e proprio attacco politico contro la classe operaia. Non un attacco isolato condotto da qualche avventuriero che rifiuta di comprendere l'utilità "per tutti" di un sistema di composizione permanente del conflitto sociale, e si ingegna a sabotarlo. Ma un momento di un attacco più generale portato nell'interesse della borghesia ai livelli esistenti di organizzazione del proletariato. Perciò, quando un Bertinotti afferma "Non lo considero un referendum anti-sindacale, ci penserò a come votare" (Il Giornale del 18/1/95) dimostra di non aver minimamente compreso la portata dello scontro.

Non basta difendere l'esistente

Bisogna, ora, chiedersi quale è la risposta da dare. Sgombriamo subito il terreno da una interpretazione di falsissima "sinistra", cioè di quanti gioirebbero per un successo dei "sì", col motivo che la scomparsa della "delega" affrancherebbe, di per sé, i sindacati dalla subordinazione al capitale. Abbiamo già spiegato come non sia stato l'elemento formale "delega" a produrre quella subordinazione. La sua scomparsa non provocherebbe alcuna inversione di rotta: ben altre sono le cause della sottomissione al capitalismo dei sindacati, del riformismo, della stessa coscienza immediata della classe operaia. Senza aggredire quelle cause, e se la classe operaia non ha la forza e la determinazione di farlo in piena autonomia, il puro mutamento degli aspetti formali è a tutto diretto vantaggio dell'avversario di classe.

Ma, detto ciò, è necessario domandarsi se è sufficiente -contro la profondità dell’attacco- limitarsi a una risposta sul solo terreno elettorale e che punti solo a congelare l’attuale situazione. Decisamente "no", e l'esperienza degli ultimi due decenni sta lì a dimostrarlo senza possibilità di dubbio.

Da quando la borghesia ha bloccato il trend ascendente delle "concessioni" al proletariato e ha dato avvio alla lunga e ininterrotta teoria di "rimborsi" di quanto gli aveva ceduto, i sindacati hanno dimostrato tutta la loro inadeguetezza a difendere il proletariato dagli espropri. Questo è avvenuto perchè essi ritenevano inevitabili tutti quei cedimenti utili ad aiutare le imprese e l'economia nazionale a parare i colpi della crisi. Per di più, l'esperienza fin qui fatta non fa emergere dall'interno del sindacato alcuna volontà di "cambiare rotta", anzi all'orizzonte s'annunziano altri "cedimenti".

Una semplice difesa del sindacato esistente è, di conseguenza, controproducente: non è con esso che la classe operaia potrà risalire la china, o, semplicemente, organizzare una difesa reale, senza ulteriori arretramenti. Ma la questione non è di involucri, di forme, bensì di contenuti, di linee politiche. E' da lì che deve, obbligatoriamente, partire una risposta che sia all'altezza dell'attacco borghese. La borghesia vuole indebolire i sindacati attuali per distruggere ogni possibilità di organizzazione autonoma di classe. Il proletariato per difendere la sua possibilità di organizzazione, deve difendere i sindacati attuali, ma lo può fare solo accentuandone i caratteri di classe, con tutto ciò che ne consegue in quanto a critica delle sue attuali organizzazioni.

Una critica svolta da avanguardie, delegati, gruppi operai, ma, soprattutto con l'iniziativa di massa. Lo stesso movimento contro la finanziaria di Berlusconi ha fornito un esempio di come questo si possa concretizzare. Sia quando sono stati gli operai a iniziare la lotta, trascinandovi dentro anche i sindacati, sia quando dal movimento sono emerse, nei modi "appropriati" a non dar spazio all'avversario, le critiche all'indirizzo cedevole dei sindacati. Con ciò non si è determinata una svolta radicale della linea sindacale -nè si riuscirebbe mai a far "svoltare" le teste degli attuali capi-, ma si è delineato un, per ora tenue, percorso di "riappropriazione" del sindacato, ossia di attivizzazione diretta e "in proprio" delle masse. Questa è l'unica vera risposta all'attacco borghese, tanto se si diriga a "riconquistare" di forza gli attuali sindacati, quanto a costituirne di nuovi -sotto la spinta delle masse e non come un "prima" senza e fuori da esse-.

Attivizzazione di classe

Sono questi i contenuti che porteremo all’interno di una eventuale risposta operaia e sindacale sul piano referendario. Il terreno referendario, con la chiamata ad esprimersi di tutte le classi sociali su questioni che riguardano la classe operaia, non è, evidentemente, il nostro terreno preferito, e non è il terreno più agevole per la stessa classe operaia. Ma non ci imbarazza affatto dire che, ove la parte più attiva del proletariato si astenesse anche da questa minima risposta difensiva, per non disturbare la manovra di D'Alema verso il centro o quelle del condottiero Prodi, questo renderebbe non più agevole, bensì più difficile, lo sviluppo anche solo di un embrione di autentica, compiuta risposta di classe all’attacco anti-sindacale.

Noi, quindi, ci auguriamo che il proletariato risponda attivamente alla provocazione pannelliana, non limitandosi all'impegno individuale a depositare nell'urna la propria scheda con il "no", ma dando vita spontaneamente, o per impulso dei settori sindacali più avvertiti, a dei "comitati per il no" per intervenire direttamente nella campagna. Inevitabilmente la costituzione di tali comitati non potrebbe che avvenire nell'ambito della mobilitazione elettorale, e, in questo senso, sarebbe per i comunisti del tutto inutile farsene promotori. Ma, nel contempo, costituirebbe la base minima da cui potrebbe partire una risposta più ampia. Una volta costituitisi, senza in nessun modo identificarci con essi, ci lavoreremmo dentro, e assieme, perché la loro risposta si allarghi e vada in profondità oltrepassando la mera difesa dell’"esistente" ed il mero livello della mobilitazione elettorale.