Dove vanno gli Usa, dove va il capitalismo

Dal primo numero del Che fare, ripetiamo in tutte le salse che dalla metà degli anni ’70 il capitalismo è entrato in una crisi generale, storica. E che potrà uscire realmente da essa solo con una nuova guerra imperialista. Parallelamente ed antagonisticamente, il proletariato ne potrà uscire senza farsi rompere le ossa, solo con la rivoluzione socialista.

Le riprese economiche degli ultimi anni, non sembri un paradosso, avvalorano la nostra tesi. Proprio in quanto, nonostante i più sofisticati incroci tra "riformismo" e "liberismo", nessuna di esse presa a sé, né nel loro insieme, sono state in grado di riportare l’accumulazione capitalistica e la creazione di "benessere sociale" diffuso ai fasti del primo trentennio del dopoguerra.

Non potrà farlo neppure quella in corso. Che ripete, sebbene abbia per locomotiva un’America del nord formalmente non reganiana, le caratteristiche degli slanci produttivi del periodo reganiano. Anzi, questo nuovo "miracolo economico" è ancor più avaro di "prodigi" sociali, ossia di tangibili benefici per le classi non sfruttatrici. La stessa crescita dell’occupazione negli Usa discende dalla più crassa manipolazione dei metodi di rilevazione della disoccupazione.

Dove vadano gli Usa, dentro e fuori i propri confini, lo spieghiamo qui accanto, commentando il successo, sociale prima che elettorale, ed i programmi ultra-reazionari della destra repubblicana. Nella stessa direzione -né pace, né duraturo e "sano" sviluppo, né maggiore "equità", bensì esponenziale moltiplicazione dell’anarchia e dei conflitti sociali- va il capitalismo tutto.

Un lucido ideologo borghese statunitense, Samuel Huntington, ha rappresentato la linea di tendenza del mondo contemporaneo in termini di "scontro tra civiltà", tra la "civiltà occidentale" e l’"asse confuciano-islamico" (Cina-Islam). Ed ha suggerito ai suoi colleghi di classe di piantarla di indorare la pillola su quel che ci aspetta in un futuro non lontano. "Il mondo non è un luogo particolarmente fraterno", ha detto, (bene, trattandosi del mondo capitalistico), e dovremo -noi stati imperialisti- confrontarci con la "proliferazione di ogni sorta di violenza" e di conflitti.

La mezza verità di Huntington -andiamo verso una battaglia epocale tra imperialismo ("civiltà occidentale") e "fronte", anche se un vero fronte non ci sarà, dei paesi della "periferia" (il temuto "asse confuciano-islamico")- va completata così: andiamo, nel contempo, verso un nuovo scontro storico tra capitalismi nazionali, e, al fondo di tutto, tra capitalismo e socialismo. Tra una "civiltà" capitalistica sempre più anti-sociale, incivile, nella sua putrescenza (gli Stati Uniti ne sono il miglior campione), ed il socialismo, la riorganizzazione socialista, via rivoluzione, della società che soddisfi finalmente i bisogni umani.

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Il benpensante saccente, o scettico su tutto ciò che non sia mercantilismo e proprietà privata, ci potrebbe opporre: voi marxisti rivoluzionari ripetete questa diagnosi del capitalismo almeno dal 1914. Eppure il capitalismo è in piedi, e siete voi ad essere rimasti a terra, con tutta la vostra pedante teoria.

Il fatto è questo: la borghesia l’avrebbe oggi vinta sulla causa del comunismo se solo essa potesse, come Giosué, fermare il sole, il turbinoso procedere delle sue contraddizioni. Così non è.

Non avendo "nulla da perdere", lo ammettiamo senza fatica. Sì, il sistema capitalistico è riuscito, rispetto alle stesse previsioni della III Internazionale, se vogliamo, a rinviare la esplosione generalizzata dei propri antagonismi (sempre mettendo tra parentesi come cosucce da poco un paio di guerre mondiali, qualche decina di guerre locali, numerose crisi grandi e piccole). Ma è riuscito in ciò a patto di universalizzarne ancora di più gli effetti, e di restringere così i suoi margini di salvaguardia. Oggi basta la crisi finanziaria del Messico a far tremare l’intero edificio della finanza internazionale. Basta la instabilità dell’Algeria (meno dello 0,5% della popolazione del globo) a scuotere, per l’effetto-domino, l’intero ordine mondiale.

Ammettiamo pure che il proletariato non agisce, al momento, come la classe pronta ad affossare il sistema capitalistico. Ma, perfino negli Stati Uniti che da quasi un secolo detengono il controllo monopolistico del mercato mondiale, l’integrazione della classe operaia si è rivelata impossibile. Anche il semplice ritorno alla fase della "concertazione" corporativa è escluso, tant’è che trionfa l’ostilità ai sindacati (è stato il ministro del lavoro del demo-progressista Clinton a definire "inutili" i sindacati nell'era dell'economia globale). Non solo: l’attacco sempre più in profondità al proletariato è ormai un punto-cardine di tutti i programmi borghesi. Quegli stessi programmi che, a inizio secolo, promettevano invece, in "gara" con il socialismo, l’ampliamento delle tutele per i lavoratori (sempre in quanto merce forza-lavoro). Da più di un decennio la borghesia ha virato decisamente a destra su scala mondiale, e la vittoria repubblicana negli Usa annuncia un’ulteriore sterzata.

Ebbene, questo significa che la linea di marcia è verso quella acutizzazione dello scontro di classe che è la premessa materiale e sociale indispensabile al sicuro ritorno in campo, in forze, del comunismo. Che la crisi al "centro" ancora non precipiti; che il "riformismo", nel frattempo, galoppi sfrenatamente verso ed oltre la socialdemocrazia; che la ripresa delle lotte operaie sia ancora limitata e infettata da aziendalismo e sciovinismo; sono altrettante difficoltà immediate aggiuntive per il nostro lavoro. Ma, se c’è al fondo un inasprimento dell’antagonismo tra borghesia e proletariato, e c’è, queste difficoltà potranno rovesciarsi, nel medio termine, in altrettante chances che possa darsi una lotta proletaria più "pura" e libera da impacci conciliatori.

Dove vadano gli Usa, dove vada il capitalismo tutto, è chiaro, e definito dalle leggi di questo modo di produzione. E il proletariato statunitense, il proletariato mondiale tutto dove vanno? E’ ciò che scrutiamo con attenzione da sempre (e che torniamo a fare qui), per collegarci alle immancabili battaglie della nostra classe e assicurare ad esse uno sbocco comunista rivoluzionario.