Buttare giù il governo Berlusconi alla Lega è costato un caro prezzo. Oltre a scaldasedie e mangia-pagnotte parlamentari dal partito sono usciti molti militanti, e pezzi della stessa base elettorale sono probabilmente in fuga. Bossi ha affrontato un congresso difficile, nel corso del quale s'è consumata la defezione più clamorosa, quella di Maroni.
La crisi della Lega è del tutto evidente. Appare persino incomprensibile come Bossi sia riuscito a dilapidare in breve tempo il patrimonio di consenso sociale e iniziativa politica faticosamente accumulato. Segno dei tempi e dello stato confusionale in cui versa la "politica nazionale"...
L'abile condotta di permanenza al governo col Polo e contemporanea apertura a "sinistra" su temi anti-berlusconiani, fino alla dialettizzazione con le lotte operaie, avevano messo Bossi nella migliore condizione per imporre a partners e opposizioni la "centralità" della Lega e del federalismo. Ora, "l'è tutto da rifare", per dirla con Bartali.
La questione del destino della Lega Nord -scomparsa definitiva o rilancio?- non ci appassiona affatto. Quel che è certo è che la sua crisi, e persino un'eventuale scomparsa come movimento politico, non eliminano il problema "federalismo" .
Uno sguardo ai programmi di tutte le forze politiche rivela come non ve ne sia più alcuna che lo rifiuti esplicitamente, ma che, anzi, tutte lo considerano inevitabile e sacrosanto, e vi dedicano attenzione e proposte specifiche. Federalista era il governo Berlusconi, in particolare col ministro delle Finanze Tremonti. Federalista si annuncia il governo Dini. A "sinistra", poi, il federalismo è pane quotidiano: da quello "moderato" del Pds ai sindacati, passando per il "regionalismo" del Prc, fino al "comunalismo" di un Cacciari, estimatore -ricambiato- di Miglio. Ma anche per la destra non è più uno spauracchio: Fini propone a Miglio lo scambio federalismo-presidenzialismo, illudendosi di frenare con un potere centrale forte la spinta alla disgregazione che l'introduzione del federalismo nell'Italia in crisi di oggi oggettivamente innescherebbe; il congresso di AN ne parla poco, e non sempre contro. Pure dal grande capitale vengono al federalismo riconoscimenti e arricchimenti (la Fondazione Agnelli con le sue 12 macro-regioni).
Visto il successo con cui il virus del federalismo si è propagato, Bossi potrebbe anche ritirarsi a vita privata, a contemplare come i suoi tanti figli metteranno a frutto il suo insegnamento.
Naturalmente, questa generale conversione al federalismo non è merito (si fa per dire) di Bossi. Vi è qualcosa di assai più profondo, che precede la Lega e che permane ben al di là della sua stessa crisi. Ed è quanto va sotto il nome di "questione del Nord", quella spinta di piccoli e medi imprenditori e ceti medi, soprattutto del Nord-Est, a scrollarsi di dosso il "fardello romano" di uno stato centralistico, assistenziale e sciupone, anche a costo di sottomettersi -sperando di poter conservare l'indipendenza politica- al mercato tedesco.
Al fondo della "questione del Nord" risiede una duplice esigenza di "libertà" di questi strati sociali: quella di liberarsi di un grande capitale assistito e succhione, che per il suo rilancio ha bisogno di concentrare e mettere al suo servizio tutte le risorse nazionali (anche quelle di cui beneficiano piccoli capitalisti e ceti medi); e dall'altro quella di liberarsi di tutta la "spesa sociale" imposta dalla classe operaia, nonché della unità organizzativa grazie a cui questa riesce a garantirsi un certo argine di difesa dallo sfruttamento più selvaggio.
Due esigenze tipiche della piccola borghesia accumulativa, radicate con più virulenza nel Nord-Est perchè lì questa mezza-classe ha condizioni di sviluppo che le consentono di coltivare la speranza di potercela fare "da soli" a superare le difficoltà della crisi. "Da soli", cioè al traino del capitale tedesco.
Questa questione non è chiusa con la crisi della Lega, né si chiuderebbe con le concessioni di federalismo "moderato" cui oggi tutti i partiti sono disposti. Rischia, anzi, di esplodere se la grande borghesia non riuscirà a riportare all'ordine quelle sue frange dimostrandogli che hanno ogni interesse a rimanere vincolati all'Italia. Dimostrazione conseguibile solo se la borghesia avrà unitariamente la forza per schiacciare il proletariato, rilanciando i profitti per tutte le sezioni nazionali della sua classe.
Per la classe operaia l'affermazione del federalismo creerebbe una situazione pessima, in cui ben difficilmente essa riuscirebbe a conservare alcunché perfino della sua attuale condizione economica, politica e organizzativa. Per contro, una sconfitta del federalismo a opera del grande capitale presupporrebbe un suo preventivo scompaginamento. Tra l'incudine e il martello, insomma. Affannarsi alla ricerca del "meno peggio" è del tutto vano. La "sinistra", invece, è convinta di averlo trovato, anzi è convinta di poter brandire il martello-federalismo contro l'incudine anti-democratica.
Così, mentre a destra ci si affrettava a suonare (quanto a sproposito, s'è già detto) le campane a morto per la Lega, la "sinistra" si precipitava al suo capezzale. Cossutta e Cofferati facevano bella mostra di sé al congresso leghista, D'Alema vi interveniva a blandirla con solennità: "la democrazia ha bisogno della Lega", e le offriva anche la sponda di una alleanza col "meridionalismo democratico". Bossi, commosso, ha ricambiato i complimenti. Il popolo leghista, caloroso, ha accolto le profferte d'alemiane, a condizione, però, che il Pds accentui la sua trasformazione "liberaldemocratica". Uniti contro "il grande capitale" sì, purchè il più distante possibile dagli interessi operai!
Per il proletariato allearsi con la Lega o cedere al federalismo sarebbe come condannarsi al suicidio. Tra la morte per mano estranea (Berlusconi, destra) e quella per mano propria non c'è differenza. Non si può lottare efficacemente contro la destra contando sull'aiuto dei "nemici dei nostri nemici". L'unica strada è quella di battersi per sé stessi, per la propria classe, su un programma che non consenta influenze a interessi di altre classi, grandi o piccolo-capitaliste, centraliste (a pro del capitale) o federaliste (sempre a suo pro), "plebiscitarie" o "democratiche".